Zabaione

Detesto scegliere il gelato. «Creme? Frutta?». Mi guarda. Dietro di me un gruppo di ragazzi aspetta. Alla fine, senza troppa convinzione, indico il cioccolato. «Solo cioccolato?». Mi guarda. «Sì». Gli rispondo. «Solo cioccolato». Superato l’imbarazzo, penso: è finita. Adesso paghi il tuo cono e te ne vai. E invece lui insiste: «Cioccolato gianduia? Cioccolato fondente? Cioccolato all’arancia?». È un incubo, penso. Devo andare via di qui al più presto. E poi, quando sono sul punto di scegliere il fondente, una voce da dietro incalza: «Aò ma te voi sbrigà? Ma quanto ce vole a sceglie er gelato?». Non ho il coraggio di voltarmi. Penso che anch’io al suo posto sarei innervosita da tanta attesa inutile, soprattutto perché lui, a differenza mia, saprà sicuramente cosa scegliere. Anzi, lo sa da prima di entrare, da quando ha sbattuto la porta di casa con l’idea di venire qui.  Il gelataio invece non si scompone. Probabilmente non sono né la prima né l’ultima vittima di questa indecisione. 

«Prendi er gianduia, è bono. Fidate». Questa volta però a parlare è l’amico. Io non mi ricordo neppure che sapore abbia il gianduia. Non sono neanche sicura di averlo mai assaggiato. Sono sul punto di andarmene, arresa, sconfitta, umiliata. Poi lo vedo. Giallo. Bellissimo. Non so perché non l’avessi notato prima. Mi dico che non presto mai abbastanza attenzione ai gusti che ho davanti. Mi faccio sempre prendere dal panico, precludendomi il piacere di scoprirne dei nuovi.

«Quello cos’è?» Lo chiedo nonostante il nome sia evidentemente scritto accanto al gusto, su un’etichetta ben attaccata alla vetrina. Un modo come un altro, il mio, di temporeggiare.

«Zabaione». Risponde. Penso: sì, lo prendo. Sto per dirglielo. Poi però lui comincia a fissarmi con fare interrogatorio. Forse ha capito che non sono molto convinta, che lo sto scegliendo solo per non fargli perdere la pazienza. Forse lui ha a cuore i suoi clienti e non vuole che esca da qui scontenta. Sarà per questo che senza alcun preavviso mi domanda: «Lo vuoi assaggiare?». Mi rendo conto che non avevo pensato neanche lontanamente a questa possibilità.

La prima tentazione è quella di cedere. Magari così sarà più facile decidersi. Poi però sento la pressione dei due tipi alle mie spalle. Non so neppure che faccia abbiano. All’improvviso però non parlano più. Forse si sono arresi. Forse sono addirittura usciti e io non me ne sono accorta. E se qui dentro fossimo rimasti solo noi due? Penso che dovrei proprio assaggiare lo zabaione. Sì. È inutile rimandare. Mi tormenta però l’idea che possa non piacermi e che a quel punto, dopo averlo assaggiato,  non abbia più il diritto di scegliere altro e che tutte le possibilità che ho davanti vengano di colpo annullate. È un pensiero tremendo, che mi spingerebbe a dire subito: «No, grazie». Qualcosa però mi frena. Un ricordo. Quello di mia nonna che energicamente sbatteva le uova fresche insieme a quantità smisurate di zucchero. Improvvisamente si fa strada in me il desiderio di riprovare quel sapore antico ancora una volta.

Sono sul punto di dirgli di sì ma poi mi assale un forte senso di vergogna. Non voglio che uno sconosciuto mi guardi mentre assaporo il gusto del gelato. Quel momento è privato. È  mio. Non può  rubarmelo. Lui sospira. Non l’aveva mai fatto in tutto questo tempo. Forse non è vero che è così paziente. Forse sta per mandarmi via. Siamo a un punto di rottura. Lo sento. Devo fare qualcosa prima che sia troppo tardi. Non voglio uscire da qui a mani vuote. Lui continua a tenere in una mano il cono vuoto. Ho l’impressione che lo stia stringendo sempre più forte. Temo che potrebbe romperlo da un momento all’altro. Alla fine mi arrendo. Lo guardo ancora una volta prima che lui possa aggiungere o dire qualsiasi cosa.

Zabaione sia. Penso: è andata. Sono salva. Adesso esco da qui finalmente libera e attraverso la strada con il mio cono di zabaione tra le mani e nessuno ma proprio nessuno potrà dirmi niente. Poi però lo sento di nuovo, come una cicala che dopo essere stata a lungo in silenzio riprende con forza il suo canto: «Cioè, famme capì, un’ora pe sceglie il gelato e poi te prenni un cono de zabaione? Ma tutto bene ragazzì?».

Il gelataio mi guarda ancora. Dal suo sguardo capisco che dà ragione al ragazzo dietro di me, di cui ancora non conosco la faccia. Finisco per dargli ragione anch’io ma a lui non lo dico. Non posso. Resto in silenzio. Il gelataio, anche senza il mio consenso, sta per affondare la paletta nello zabaione. Devo impedirglielo. So già che quel gusto non eguaglierà mai il ricordo del sapore che ho in testa. Anzi, al contrario lo rovinerà e io mi maledirò sempre per averlo scelto perché quel gusto cancellerà l’altro, che invece è ancora intatto, vivo.

Sono ancora in tempo ma non ho il coraggio di fermarlo. Penso che i ragazzi alle mie spalle a quel punto mi attaccheranno. Sembrano così aggressivi, anche se ancora non li ho visti in faccia, che potrebbero spintonarmi o peggio ancora lanciarmi addosso il gelato, quello che non ho ancora preso. Sto per arrendermi. Ma poi trovo la forza di fermarlo.

«No, lo zabaione no». Silenzio. Nessuno, me compresa, ha più il coraggio di parlare. Il gelataio si ferma di scatto, come un uomo di fronte a una voragine. Ha capito anche lui che ormai, arrivati a questo punto, non può più farlo. «Amarena, prendo l’amarena». È il gusto di gelato che detesto da sempre. Quando ero bambina credevo che le persone che sceglievano l’amarena fossero cattive. «Mi dia un cono di amarena». Ripeto. Ora che ho deciso voglio che lo sappiano tutti. Il gelataio affonda finalmente la paletta, soddisfatto. Sembra provare un piacere immenso. È finita, mi dico. Adesso mi giro. Voglio proprio vedere che faccia ha l’impazienza. Un attimo prima di afferrare il cono mi guardo indietro. Il tempo di scoprire che i ragazzi non ci sono più. 

Foto di copertina di Vivian Maier

Di Londra si dice

Londra è una città di cui si dice. Impersonalità e individualità caratterizzano anche il giudizio che i più hanno di lei. Un giorno qualcuno mi fece notare che il termine città gode di una fortuna dettata dalla lingua italiana, poiché è una parola che vale tanto al singolare quanto al plurale. Per comodità e forse per abitudine parlerò di Londra come si parla di una grande signora.  

Di Londra, dicevo, si dice. Confesso che dire, nei suoi riguardi, non è affatto semplice. Si è portati ad esprimere un parere immediato non appena si è travolti da quel vortice che ci risucchia già all’uscita del gate di Stansted. Presto si rimpiange però di aver osato parlarne così presto. La frenesia che la domina smorza i pensieri e i sensi di colpa, come anche ogni piccolo accenno alla riflessione: non c’è tempo. Così le strade a senso alterno, gli autobus che sono palazzi, le biciclette che sono motociclette, le birre tracannate in fretta per goderne ancora prima che cali la sera, gli incontri che piovono come fossero coriandoli in un giorno di carnevale, ci travolgono. 

Residenza dell’autrice a Londra.
Foto di Marco Salamina

È così che si diventa un cittadino di Londra. I coriandoli però, il giorno dopo la festa, altro non sono che depositi ai bordi delle strade che attendono solo di decomporsi fino a diventare parte dell’asfalto. Così gli incontri che riempiono le giornate a Londra sono difficilmente classificabili. Ma il tempo per riflettere sul valore delle amicizie, a Londra, non c’è. Non  resta che aspettare e vedere come lui, il tempo, posizionerà le carte.  In attesa che questo avvenga, Londra offre un dono che non ho vissuto in altre città: la solitudine. È il più fortunato degli incontri. È lei a farci compagnia nelle cene a coperto unico, nelle sale del cinema mezze vuote, nelle corse notturne degli N23, nelle camminate sotto la pioggia. È lei che incontriamo quando pensiamo sia notte fonda ma in realtà è da poco scattata la mezzanotte, correndo per sfuggire alle volpi.  La questione del tempo e delle ore a Londra è particolare. Qui il tempo passa con realtà. Ho  imparato a conoscere la vera durata di un’ora. È lento e tangibile, ma, non appena lo si ha catturato, il  tempo scivola via.

Foto di Marco Salamina

L’ abitudine inglese, a dir poco magnifica, di godere con intensità di tutte le ore del giorno  per poter avere poi anche il tempo, dopo il lavoro, dopo la baldoria, dopo le birre, di poter dormire, è una lezione che noi italiani dovremmo imparare per abbandonare le mode di feste che nascono all’alba di un  nuovo giorno e ci lasciano in coma per i due giorni che ne seguono. Il modo di vivere e trascorrere il tempo a Londra, da questo punto di vista, è un privilegio. È come se il giorno volesse trattenerci a sé, consumarci, sapendo che le lunghe ore della notte ci rigenereranno. In fondo, credo che il tempo a Londra speri solo di lasciarci riposati per i suoni delle ambulanze che la mattina hanno la  stessa funzione dei minareti. Credetemi, le ambulanze londinesi non sono come le altre ambulanze. Il loro suono, che si avvia soffuso, raggiunge il suo punto più acuto senza un crescendo. Ci arriva e basta. Entra dentro gli scadenti infissi delle case della città, fa vibrare le tavole di finto parquet messo a coprire una  lurida moquette senza che quest’ultima però sparisca, lei è lì, negli angoli, e, una volta fatta vibrare anche ogni parte del timpano umano, il suono dell’ambulanza si deposita nel nostro cervello. Capirete bene che, se il tempo del giorno non avesse concesso alla notte un potere su di noi, questo risveglio non sarebbe poi così facile da gestire.  

Foto di Marco Salamina

Di ancor meno facile gestione sono le salite e discese sui e dai piani alti degli autobus palazzo. Pensati per contenere quanti più passeggeri possibile, è innegabile che i rossi bus londinesi siano un’attrazione turistica non irrilevante. I passeggeri possono godere della vista della città pur restando comodi nei loro sedili di velluto infeltriti dall’umido della pioggia dopo aver pagato un biglietto che tutto può essere definito fuorché economico. Forse, però, ne vale la pena. L’abitudine, come sempre, arriva in nostro soccorso con puntualità. Dopo poche settimane spese a bordo dei rossi bus londinesi non ci resta che accettare una lezione: mai  sostare sulle scale per i piani alti mentre l’autista è in azione; mai salire ai piani alti quando il bus è in movimento. I miei ricordi di tonfi su quelle strette scale di plastica si sovrappongono a quelli di zaini che ho visto precipitare e si uniscono a ricordi di urla di passeggeri che cercano di aggrapparsi ai maniglioni gialli pur di non scivolare o tentano di avvertire qualche altro passeggero che l’autista sta per  frenare e conviene che loro “hold on”, si tengano saldi. Il piacere poi si moltiplica se, come è accaduto a me, qualcuno decidesse di usare i rossi bus londinesi come principale mezzo di trasporto durante un trasloco.  

Foto di Marco Salamina

I mezzi di trasporto a Londra somigliano all’umidità per il senso di disagio interiore che arrecano al corpo umano; eppure sono rifugi in cui ci precipitiamo o in cui ci piace essere se è lì che dobbiamo andare. Mai uguali a loro stessi i trasporti pubblici  londinesi sono un’ampia categoria. L’infernale tube talmente sotto terra da essere appunto quasi vicina all’inferno dantesco è un’alcova di topolini e di cup di Starbucks lasciate fra il corrimano e il muro. I lunghi tunnel che collegano i livelli sottoterranei sono piste da corsa. Raro incontrare qualcuno che effettivamente li percorra con calma. Entrati poi negli abitacoli del treno, dopo aver, almeno per noi giraffe, abbassato adeguatamente la testa e averla incassata alle spalle, si apre ai nostri occhi una delle scene che più porterò nel cuore: sguardi. La tube londinese è infatti famosa per essere priva di segnale internet. Per cui, a differenza di ogni altro mezzo pubblico, sulla tube è possibile incrociare i più svariati sguardi. C’è chi, intento in una veloce lettura da viaggio, alza gli occhi per controllare la fermata. C’è chi, preso da un cruciverba, viene distratto dal suono del “please mind the gap” e decide di rinunciare, abbandonandosi a un pensiero fissando lo sconosciuto davanti a sé. C’è chi approfitta di quei lunghi tragitti  sotterranei per riposare e lasciarsi andare ciondolando il capo a tal punto da invadere lo spazio personale del proprio vicino. Nel suo movimento il treno non è silenzioso, tutt’altro. Ma questa raccolta di vicende di sguardi e la possibilità di poterli notare e incrociare, perché siamo, per un brevissimo tempo, staccati dai nostri smartphone, catapultano il rumore della tube in un piacevole silenzio ovattato. Durerà poco, non appena le porte si aprono e scendiamo, la guerra a chi corre di più per tornare in superficie ricomincia.  

Foto di Marco Salamina

Quasi dimenticavo di aver omesso, in questa frivola descrizione, di includere la famosa pioggia londinese. Chissà che in fondo la nostra grande signora non abbia vinto gli stereotipi di impersonalità e individualità e sia riuscita effettivamente ad entrare nel cuore umano, rendendosi ricordo grazie ai colori delle sue diverse personalità e non grazie al colore del suo cielo. 

Veduta di campagna con bar

Le macchine procedono a velocità dissonanti davanti al bar,

io riconosco le persone che le guidano.

L’aria assume le tinte gialle del neon.

È una stazione emotiva cui non riesco ad adattarmi. 

Il Bianchi viene a comprare mezzo chilo di pane

e la pagnotta per Agata alle dieci in punto,

Flavio e il Cioni fanno avanti e indietro in moto 

perpetuo, per Campari e birra “ghiacciata, mi raccomando”.

Vittorio finisce di pranzare prima di mezzogiorno

e viene a prendere caffè e Futura e poi chiede:

“ancora non c’è Bronzino?”, e così via.

Ronzano nel sottofondo i frigoriferi,

tintinna il perno arrugginito della ventola,

dalla cucina si incuneano timbri metallici e aroma unto.

Come affacciato a un fiume, osservo fluire

le battute riciclate di bar in bar dai clienti;

con cadenza regolare viene urlato il mio nome

mi riacciuffa questa assurda dimensione.

La mia giornata è impressa nel solco della sedia.

Il giorno s’inabissa nella notte e riemerge identico.

Dio è qui che ha appiccicato la sua gomma da masticare.

Vorrei accadesse qualcosa, anche la più tragica,

per compiacere la mia nevrastenia e far cedere

il chiodo che sorregge questo quadro intollerabile.

Penso a Bucarest, a un fratello che ci abita:

è un’ora più vicino ai sogni.

Fabrizio Sani

Illustrazione a cura di Valentina De Nicola

Perché leggiamo gli scrittori solo quando non ci sono più: addio a Patrizia Cavalli e Raffaele La Capria

21 giugno. Solstizio d’estate.

Sono appena arrivata a scuola. Quel verde che di solito mi accoglieva all’ingresso, quell’erba rigogliosa su cui i miei alunni fino a poche settimane fa sedevano durante le lezioni di filosofia, adesso è terra arida. Non piove da non ricordo più quanti giorni. Questo panorama scomposto mi attanaglia. C’è qualcosa poi, a scuola, nell’assenza di chi di solito la anima, che mi terrorizza e spaventa. La notizia che mi arriva conferma quel senso di desolazione che mi accompagna da quando sono qui.

Patrizia Cavalli è morta. Patrizia Cavalli, poeta, non c’è più. Così voleva essere chiamata: poeta. E non poetessa. Così la definì Elsa Morante subito dopo aver letto le sue poesie e averle apprezzate con l’avvertenza, però, che non avrebbero cambiato il mondo, da cui il titolo della prima raccolta della Cavalli: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974).

Mi sento smarrita, come se mi avessero appena comunicato la scomparsa di una zia, ma non di quelle lontane che non senti mai. No, al contrario, una di quelle che senti tutti i giorni. Per riprendermi dalla notizia, comincio a leggere forsennatamente una sua poesia dietro l’altra, come se in quel pomeriggio caldo e afoso i suoi versi fossero l’unica fonte in grado di dissetarmi. Erano mesi, mi dico e mi rimprovero, che volevo comprare le sue raccolte. Ma poi, non so neanch’io il perché – forse perché sembra ci sia sempre qualcosa di più urgente da fare di quello che ci interessa fare davvero – ho rimandato quel momento. Adesso non c’è più tempo. Devo sbrigarmi e recuperare al più presto tutto ciò che ha scritto.

Tra le sue poesie che leggo per dissetarmi, ce n’è una tra tutte che mi sconvolge. Penso, mentre la trascrivo sul mio quaderno, che non mi riprenderò mai più dalla verità di questi versi.

Tu mi vorresti come uno dei tuoi gatti
castrati e paralleli: dormono in fila infatti
e fanno i gatti solo di nascosto
quando non li vedi. Ma io non sarò mai
castrata e parallela. Magari me ne vado,
ma tutta di traverso e tutta  intera.

(Pigre divinità e pigra sorte, 2006)

Proprio adesso, nel morire nel primo giorno d’estate, se ne è andata di traverso e tutta intera.

Foto di Dino Ignani

Dopo aver letto alcune sue poesie, resto a fissare un ritratto che le fece Dino Ignani, il fotografo dei poeti. Dietro di lei, seduta composta, c’è una carta geografica, proprio come quelle che abbiamo qui a scuola, in classe. Anche il suo maglione con quelle figure geometriche sembra disegnare geografie, campi di grano aridi come quelli qui intorno, e questa fotografia è la perfetta trasfigurazione in immagine di una sua poesia, che Chiara, subito dopo essere stata avvisata da me della sua scomparsa, mi manda. Mi impressiona che tra tutte abbia scelto di inviarmi proprio questa, quella che più somiglia a questo ritratto.

Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia
.

da Il cielo, in “Patrizia Cavalli”, Poesie (1974-1992).

Perché, mi domando, l’attrazione per un poeta o uno scrittore è molto più forte dopo la sua morte? Cos’ha la morte di così affascinante da spingerci con tanta curiosità verso autori che prima abbiamo trascurato? Mi tornano in mente le parole del giovane Holden: «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira».

Vorrei fare lo stesso adesso con Patrizia Cavalli. Forse è proprio l’impossibilità di questo gesto, che ora si presenta in tutta la sua oscurità, a scoraggiarmi e a spingermi a trovare consolazione ancora una volta nei suoi versi, che mi illuminano trasportandomi altrove.

27 giugno. Quasi una settimana dopo.

Mattina presto. Torno a scuola anche oggi per gli esami di maturità. Le raccolte di poesia di Patrizia Cavalli adesso non si trovano più facilmente. Mi assale di nuovo il rimpianto di non averle prese prima, quando era ancora viva. Le copie saranno disponibili ad agosto. L’idea di non poterle avere subito si lega, senza che sappia dire precisamente il perché, a questa siccità spaventosa che da settimane è così minacciosa. Quest’assenza di versi mi fa sentire come una pianta che non può più aspettare. Poi succede che mi distraggo – una strategia che uso spesso quando devo rassegnarmi al fatto di non poter avere qualcosa. Allora nello scaffale della libreria della casa di campagna recupero Marcovaldo di Italo Calvino. Il libro, in fila indiana con gli altri, sembra un po’ smarrito e fuori luogo come il protagonista delle sue pagine. Anche qui ritrovo la siccità, l’afa di questi giorni. Il bisogno di Marcovaldo, poi, di ricrearsi dei suoi spazi di quiete, di pace e di fresco in quel poco di natura che resta in città, mi riporta a quel pomeriggio torrido di sei giorni fa, in cui ho trovato nei versi di Patrizia Cavalli la consolazione al dispiacere di aver aspettato così tanto tempo prima di decidermi a leggerli.

Mentre correggiamo i temi di italiano, penso a quanto sarebbe bello se si riuscisse a studiare Patrizia Cavalli a scuola, se tra i versi proposti quest’anno per l’analisi del testo ci fossero stati, oltre a quelli di Verga e Pascoli, anche i suoi. Non faccio in tempo a pensarlo che un altro scrittore contemporaneo irrompe nella mia giornata appena iniziata. Questa volta è Chiara ad avvisare me della scomparsa di Raffaele La Capria. Quante volte ne abbiamo parlato. Quante volte abbiamo desiderato incontrarlo per intervistarlo. Gli avremmo certamente chiesto di raccontarci le sue due città, Napoli e Roma, la prima la sua città natale e la seconda quella in cui aveva scelto di vivere e in cui oggi si è spento.

Raffaele La Capria e la moglie Ilaria Occhini

Questa foto, scattata un’estate a Capri, lo ritrae con la moglie, l’attrice Ilaria Occhini, a cui è stato legato per sessant’anni fino alla scomparsa di lei, avvenuta tre anni fa. E nel guardarla penso che l’estate, quella appena iniziata, che ha già visto scomparire due grandi della letteratura italiana del Novecento, è anche la stagione del romanzo più celebre di La Capria, quello che gli valse il Premio Strega nel 1961: Ferito a morte. Il libro si apre con uno degli incipit più belli che uno scrittore possa desiderare di scrivere.

La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come una fortezza volante quando la vedevi arrivare ancora silenziosa nel cerchio tranquillo del mattino. L’occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese – è vicina, vicinissima, a tiro – La Grande Occasione. L’aletta dell’arpione fa da mirino sulla linea smagliante del fucile, lo sguardo segue un punto tra le branchie e le pinne dorsali. Sta per tirare – sarà più di dieci chili, attento non si può sbagliare! – e la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona. Luccica lì, sul fondo di sabbia, la freccia inutile. La spigola passa lenta, come se lui non ci fosse, quasi potrebbe toccarla, e scompare in una zona d’ombra, nel buio degli scogli. Adesso sta inseguendo la Grande Occasione Mancata

Quando l’estate scorsa lo lessi, in un viaggio in treno in Liguria, dovetti rileggerlo tante volte per capirlo e così, scoraggiata, abbandonai la lettura. Ma oggi che il suo autore è scomparso e che non è più possibile, come desideravo, incontrarlo, sento forte in me il desiderio di riprenderlo e di ricominciare da lì, da quella “grande occasione mancata di lettura” e mi riprometto che non aspetterò più che gli autori scompaiano per affondare profondamente nella loro scrittura.

Ali di cera: la Napoli di “Nostalgia” di Mario Martone

Ma esisteva effettivamente Napoli, nel marzo 1947? Io rivedendola dopo tanti anni e dopo tante vicende dissi di no;  dissi che Napoli è una città inventata: finta, espressa minuto per minuto da innumerevoli Eduardi e Peppini e Titine de Filippo, sullo sfondo di ingenui e fragilissimi scenari… 

Giuseppe Marotta

Tanto è lo stupore che si prova nel rivedere Napoli dopo molti anni di assenza che al protagonista del romanzo San Gennaro non dice mai no viene spontaneo domandarsi se quella città che ha davanti esista davvero o se non sia anch’essa una rappresentazione teatrale di quelle che piacciono tanto al popolo napoletano. Sembra vivere un’esperienza del tutto simile Felice Lasco, personaggio protagonista dell’ultimo romanzo di Ermanno Rea, Nostalgia, da cui Mario Martone ha tratto il suo nuovo film, presentato quest’anno al Festival di Cannes, dove è tornato dopo ventisette anni. Anche nel caso del regista quindi si può parlare di un ritorno, tema tra l’altro già presente nella pellicola presentata allora, L’amore molesto (1995), in cui Delia, una giovane illustratrice trapiantata a Bologna, viene richiamata a Napoli dopo la notizia della morte improvvisa della madre.

Destino comune a tutti i napoletani quindi quello di ritornare, come Fabrizia Ramondino aveva sapientemente messo in luce in Star di casa:  «E fuggendo Napoli, per inseguire un Nord mitico, che quasi sempre non oltrepassava Roma, i giovani intellettuali napoletani venivano a loro volta inseguiti da Napoli, come una segreta ossessione. Ché Napoli usa seguire i suoi concittadini dovunque, come un’ombra, se si trasferiscono altrove…». Ecco quindi qual è la natura paradossale di questa città, che «invoglia a partire ma che è difficile abbandonare».

Foto di Mario Spada

Quando Felice Lasco, interpretato magistramente da Pierfrancesco Favino, rientra nel suo quartiere, il rione Sanità, apparentemente nulla è cambiato, se non la madre, ormai invecchiata, che non abita neanche più nella casa in cui l’aveva lasciata l’ultima volta. Ma questo cambiamento è visibile solo sul suo volto. Per il resto Napoli è sempre la stessa, esattamente come l’ha lasciata, come si lasciano le città in guerra: fuggendo.

Lo seguiamo nel suo peregrinare, nel suo cercare tracce di un passato che ora torna ad emergere e ad appartenergli come presente. Figure che non ricorda più e che invece sanno tutto di lui, di sua madre, della sua infanzia, lo avvertono sui pericoli a cui va incontro, decidendo di restare. Eppure Felice sembra non avere paura, come se la sua memoria, di quel passato, avesse trattenuto solo la bellezza. Personaggio centrale, in questa sua iniziazione, è quello di Don Luigi Rega, interpretato da Francesco Di Leva, protagonista di un altro film di Martone sempre ambientato in questo quartiere: Il sindaco del Rione Sanità. È soprattutto lui a metterlo in guardia su Oreste, amico di infanzia di Felice, divenuto ormai la figura più temuta della Sanità, quello che Don Luigi definisce il suo più grande nemico. Ma Felice è ostinato, più fedele ai suoi ricordi che alla realtà che gli sta intorno e che lo rende incapace di riconoscere il male, quello più radicato, più profondo e impossibile da estirpare.

Foto di Mario Spada

Felice Lasco sembra incarnare la figura di un Icaro moderno, che tenta disperatamente di uscire dal labirinto, di sfuggire a un destino che non è disposto ad accettare. E proprio come Icaro, con le sue ali di cera, precipita per essersi avvicinato troppo al sole, così Felice sfida le leggi di un territorio in cui è già scritta la sua condanna.

È una Napoli orientale quella che viviamo attraverso i suoi occhi, che sembrano ritrovare in quel paesaggio antico le atmosfere lontane dell’Egitto in cui  ha trascorso la maggior parte dei suoi anni. Massima espressione di questa contaminazione tra i due mondi è la scena in cui, insieme a un gruppo di ragazzi, danza sulle note di una musica araba. 

È la Napoli porosa raccontata da Walter Benjamin, quella in cui «ogni comportamento e affare privato è inondato dalle correnti della vita pubblica come da una marea». L’esistenza di Felice infatti non è più soltanto sua, ma appartiene al rione, quanto le sue cave di tufo.

È una Napoli impenetrabile quella del rione Sanità ritratto da Martone, in cui un rigido codice regola la vita della gente e dove chi, come Felice, conserva ancora l’ingenuità e la purezza di un forestiero vissuto altrove, non ha scampo.

Esperienza immersiva quella che si trova a vivere lo spettatore di Nostalgia, trascinato nelle viscere e nel ventre di Napoli, nei luoghi sotterranei, in quelle che Dostoevskij definirebbe le memorie dal sottosuolo. Nella profondità delle Catacombe, nel Cimitero delle Fontanelle, nei vicoli stretti come cunicoli di un labirinto, cogliamo la condizione di Felice, la sua impossibilità di ritornare a casa. Ma in fondo, la parola nostalgia non significa proprio questo?

Foto di Mario Spada

Un’invincibile estate: Reggio Emilia si illumina con FOTOGRAFIA EUROPEA 2022

Chiariamo una cosa: Reggio Emilia sta in Emilia, non in Romagna, come molt* pensano. Altrimenti si sarebbe chiamata Reggio Romagna. Quindi da brava reggiana, se mi dici «Ah, Reggio Emilia, buona la piadina!», ti rispondo: Sì, buona la piadina, però il nostro unico credo è l’erbazzone, ci facciamo colazione abbinato al cappuccino. E te lo dico subito: non troverai il mare. Da noi il mare non c’è. Al massimo ti puoi spostare verso il Po, ma il bagno non si può fare, e il torrente Crostolo è diventato una specie di pozzanghera atta solo per il bagno delle zanzare. 

L’ho voluto chiarire subito, dal momento che nel corso degli anni mi è capitato di vedere espressioni contrite di forestieri – non parlo solo di stranieri, basta uscire dall’Emilia Romagna – chiedere «Ma dov’è il mare?». 

Dopo questa premessa, a mio avviso doverosa, sei pronto per conoscere la magia della terra del Tricolore. Sì, perché non molt* sanno che la bandiera italiana è nata a Rèz.

Ma non sono qui per parlarti di tutte le mille cose che potresti fare a Reggio (per questo ti consiglio di andare sul sito https://www.reggioemiliawelcome.it/it/homepage ). 

Sono qui per dirti che se ti va di passare un fine settimana a Reggio Emilia, questo è il periodo giusto. Reggio a maggio e giugno è veramente splendida. L’apice del turismo avviene proprio in questi due mesi, in concomitanza con uno dei festival fotografici più seguiti al mondo: Fotografia Europea

FE è un festival itinerante di caratura internazionale promosso da Fondazione Palazzo Magnani insieme al Comune di Reggio Emilia e con il contributo della Regione Emilia-Romagna. L’edizione di quest’anno terminerà il 12 giugno (affrettatevi!) e la sottoscritta si è immolata per te, car* lettrice/lettore, per darti un resoconto di alcune mostre.

Giugno è anche il mese che dà avvio all’estate e tema dell’edizione 2022 è proprio “UN’INVINCIBILE ESTATE”, frase celebre di Albert Camus che racchiude potentemente l’immagine di come le nostre forze interiori, pur nel cuore dell’inverno, tendano inevitabilmente a sprigionarsi nel trionfo e nel continuo rinnovarsi della vita. Una metafora quanto mai attuale visto il recente passato e il presente che ci stanno accompagnando.

Mia cara,

nel bel mezzo dell’odio

ho scoperto che vi era in me

un invincibile amore.

Nel bel mezzo delle lacrime

ho scoperto che vi era in me

un invincibile sorriso.

Nel bel mezzo del caos

ho scoperto che vi era in me

un’invincibile tranquillità.

Ho compreso, infine,

che nel bel mezzo dell’inverno,

ho scoperto che vi era in me

un’invincibile estate.

E che ciò mi rende felice.

Perché afferma che non importa

quanto duramente il mondo

vada contro di me,

in me c’è qualcosa di più forte,

qualcosa di migliore

che mi spinge subito indietro.

Albert Camus

La direzione artistica del Festival è affidata a Tim Clark e a Walter Guadagnini, che hanno selezionato i lavori dei protagonisti di quest’anno combinando sguardi internazionali e sensibilità differenti, dando spunti di riflessione sulla contemporaneità attraverso il medium della fotografia, per interrogarsi sul ruolo delle immagini e della cultura visiva in questo particolare momento storico.

Prima ho parlato di festival itinerante: infatti con un unico biglietto puoi vedere più mostre sparse per il centro storico e non solo. Le sedi deputate alle esposizioni sono gli ormai intramontabili Chiostri di San Pietro che fanno da padrone, Palazzo da Mosto, i Chiostri di San Domenico, Biblioteca Panizzi, Galleria Santa Maria, Spazio Gerra, i Musei Civici, Collezione Maramotti e Fondazione I Teatri, che accolgono mostre di grandi maestri, e gli spazi del Circuito OFF, che espongono giovani esordienti. Tranquillo, avrai una mappa che ti verrà consegnata all’ingresso di ogni sede e i trasferimenti da un luogo a un altro richiedono perlopiù un tragitto di cinque minuti a piedi.

Il mio viaggio inizia dai mastodontici Chiostri di San Pietro, che ospitano ben dieci esposizioni. Qui rimango rapita dal giapponese Seiichi Furuya che, con la mostra First trip to Bologna 1978/Last trip to Venice 1985, racconta il primo e l’ultimo viaggio fatti insieme a sua moglie Christine Gössler, attraverso ritratti intimi e fermo immagini, che gli hanno permesso di ricostruire la memoria di quei momenti, fino al suicidio di Christine. Brividi. Da amante quale sono della narrativa post-moderna non potevo non apprezzare la mostra Benny Profane (dal nome del personaggio di V. di Thomas Pynchon) del fotografo inglese Ken Grant, un progetto a lungo termine su un distretto portuale nei dintorni di Liverpool, che diventa nei suoi scatti un’immersione in uno spazio e in coloro che da esso dipendono, un resoconto di parentela e sfida in una terra difficile. Forte e coraggiosa l’esposizione del giovane Guanyu Xu che, con le fotografie di Temporarily Censored Home, trasforma lo spazio domestico e conservatore della sua infanzia, in scena di rivelazione, protesta e bonifica queer, mediante un mosaico di immagini raccolte da riviste di moda e cinema occidentali, nonché ritratti di se stesso con altri uomini, per mettere in scena una performance profondamente intima e politica. Gli altri lavori fotografici presenti ai Chiostri di San Pietro sono Binidittu di Nicola lo Calzo, Speak The Wind di Hoda Afshar, Fire on World di Carmen Winant, I give you my life di Chloé Jafé, The Book of Veles di Jonas Bendiksen e Talashi di Alexis Cordesse. Nelle sale affrescate del piano terra invece merita attenzione la mostra storica di quest’edizione dedicata a Mary Ellen Mark, fotografa documentarista che dal 1964 fino alla sua morte nel 2015 realizza saggi fotografici intensamente vividi e rivoluzionari che esplorano la realtà delle persone, soprattutto donne, in una varietà di situazioni complesse e spesso difficili, dolorose, a volte quasi impossibili.

Foto di Mary Ellen Mark

La visita richiede due ore abbondanti, così decido di fermarmi qui e lasciare il resto all’indomani. Sono le 20, è l’ora più bella, nel cortile antistante ai Chiostri c’è un bar molto carino dove hanno appena acceso le lucine e si respira un’atmosfera molto piacevole, da inizio estate. Mi fermo quindi a fare aperitivo presso FoodinChiostri, il nuovo spazio dei Chiostri di San Pietro che unisce i sapori della tradizione reggiana ai principi della sostenibilità ambientale.

Il giorno dopo scelgo di riprendere il mio viaggio fotografico da una sede in cui non sono mai stata, nonostante la mia permanenza venticinquennale a Reggio, ovvero la Galleria Santa Maria, new entry di FE. Qui sono esposti i vincitori della Open Call dell’edizione 2022: Simona Ghizzoni racconta nel progetto Isola come sia riuscita a recuperare una relazione con la natura e con le persone, approfittando dell’emergenza Covid per lasciare Roma e tornare a rifugiarsi nell’Appennino Emiliano. La spagnola Gloria Oyarzabal, fotografa e cineasta, fissa il focus della sua indagine sul concetto di Museo in particolare in un’ottica colonialista con il progetto Usus fructus abusus. Infine, Maxime Richè, parigino, da tempo si misura con la capacità di adattamento dell’uomo rispetto alle conseguenze degli sconvolgimenti ambientali. In Paradise, il focus è l’incendio che in sole quattro ore ha incenerito l’omonima città californiana e le persone che, nonostante ciò, tornano per ricostruirsi una vita, proprio dove la vita è stata così brutalmente cancellata.

Dici Reggio Emilia, dici Fotografia: non puoi non pensare a Luigi Ghirri. Nel trentennale della sua scomparsa, a Palazzo dei musei è visibile la mostra In scala diversa. Luigi Ghirri, Italia in miniatura e nuove prospettive, che partendo dalla serie In scala realizzata da Luigi Ghirri in più riprese, dalla fine degli anni Settanta alla prima metà degli Ottanta nel parco divertimenti Italia in miniatura di Rimini, approfondisce i temi del doppio, della finzione e dell’idea stessa di realtà.

Il tempo di un caffè e di un pezzo di erbazzone e mi avvio in un’altra sede inedita di FE: la Sala Verdi del Teatro Ariosto (Fondazione I Teatri). Il ridotto del teatro, di un’eleganza senza pari, è il posto ideale per esporre gli scatti di Arianna Arcara. Teatro e fotografia infatti entrano in relazione nel nuovo progetto dal titolo La visita/Triptich che Fondazione I teatri, con Reggio Parma Festival e in collaborazione con Collezione Maramotti e Max Mara hanno affidato all’artista invitandola a un’interpretazione del lavoro della Compagnia di teatro-danza belga Peeping Tom al Festival Aperto 2021.

Mi sposto di qualche metro e approdo all’ultima sede (in realtà non sarebbe finita qui, ma il resto lo vedrò poi), ovvero Spazio Gerra, che presenta il progetto In Her Rooms di Maria Clara Macrì e curata da Erik Kessels, in cui l’autrice esplora il rapporto tra empatia, intimità e rappresentazione contemporanea delle donne. Nel suo lavoro, la fotografa riesce a cogliere la natura complessa e intensa della femminilità odierna, liberata dagli stereotipi e dalla sessualizzazione e oggettivazione di cui è vittima ed esprimendo visivamente l’essenza di un nuovo sentire internazionale e globale, dovuto anche alla forte trasmigrazione al femminile.

Foto di Maria Clara Macrì

La città si anima di immagini. Per ogni luogo che attraversi trovi un riscontro fotografico, in un bar, in una galleria d’arte, in un negozio, in una casa privata. Il Circuito Off arricchisce il Festival con una serie innumerevole di mostre diffuse in tutto il territorio cittadino. Qui si misurano giovani professionisti accanto a giovani alle prime esperienze, ognuno ricreando la propria invincibile estate. 

Foto di Caterina Curti (Circuito Off)

http://www.fotografiaeuropea.it

La Piccola Londra a Roma: luogo segreto d’apertura e incontro

Due file di case su entrambi i lati di una via rivestita di sanpietrini, lampioni vittoriani e cancelli in ferro battuto, cassette delle poste sulle ringhiere, gradini in marmo che conducono al portone di legno. Sembra di essere a Londra ma in realtà siamo a Roma, nel cuore del quartiere Flaminio. Una strada che sembra nata proprio dall’esigenza di guardarsi intorno, dalla curiosità, dall’entusiasmo di rivolgere il proprio sguardo altrove, senza chiudersi nei propri modelli, nel proprio piccolo e sempre uguale a se stesso mondo. Un esempio perfetto di quella commistione e di quello scambio che rappresentano la ricchezza di ogni città.

Capita però sempre meno spesso che qualcuno fermi qualcun altro per strada. Per parlare, per comunicare, per raccontare, per conoscere, per conoscersi. Per riconoscere negli occhi dell’altro un guizzo, la propria curiosità, un ricordo, la paura, un segno, la malinconia, la propria o un’altra. Capita sempre meno spesso, non perché non ce ne sia bisogno, ma perché siamo convinti che basti lo schermo di un telefono, il nostro piccolo giro di amicizie, i familiari, i colleghi e poco più. Gli altri non appartengono al nostro clan, gli altri spaventano, fanno compassione, tristezza o allegria. Li vediamo in metropolitana, sono tanti, sono troppi. Abitano la città, si muovono nel nostro stesso spazio, percorrono le nostre stesse strade. Non sappiamo cosa hanno da raccontare, cosa nascondono i loro sguardi, cosa proteggono, cosa svelano. Non li guardiamo negli occhi, senza sapere che gli occhi della città sono proprio i loro, che poi sono anche i nostri.

Capita però, sempre meno spesso, che qualcuno ci risvegli da questo torpore, dall’apatia della quotidianità, dalla trascuratezza della frenesia, dall’indifferenza dell’egoismo, dall’insensatezza della produttività. Capita così che un uomo buono, un anziano dritto e distinto, dica “altolà” a un gruppetto di ragazzi scapestrati che si aggirano per le vie della città alla ricerca del proprio posto nel mondo. Loro, a differenza di altri passanti, si guardano intorno, sono curiosi degli sguardi, dei gesti, delle parole, perché dove vogliono andare non lo sanno ancora. Capita dunque che quest’uomo buono dica “altolà” e che lo faccia senza severità o tono indagatore. Capita che lo faccia per l’esigenza di raccontare, comunicare, guardare negli occhi, quel bisogno che sarebbe primordiale e sempre più rimosso. È così che ferma i cinque scapestrati all’ingresso di via Bernardo Celentano, che era un pittore verista, morto solo a ventotto anni e sepolto a Sant’Onofrio al Gianicolo. Chissà come l’avrebbe dipinta Bernardo Celentano questa via che gli è stata intitola, questa piccola Londra di Roma, una strada tra via Flaminia e viale del Vignola, nel quartiere Flaminio.

Foto di Isabella Delle Monache

Il sindaco di Roma in quegli anni era Ernesto Nathan, la cui elezione era stata una vera rivoluzione all’epoca: aveva ottenuto la cittadinanza italiana a quarant’anni, era ebreo ed era il primo sindaco a non appartenere all’élite dei proprietari terrieri. Negli anni in cui è stato sindaco di Roma (dal 1907 al 1913) ha posto a fulcro del suo programma politico l’emancipazione dell’individuo e della società, realizzando una rivoluzione progressista ispirata a ideali mazziniani: dalla scuola alla sanità, dall’edilizia alla municipalizzazione delle fonti energetiche, dal trasporto pubblico ai beni culturali.


Flaminio fu il primo quartiere ad essere costruito secondo il Piano Regolatore di Nathan. L’architetto Quadrio Pirani, che aveva già realizzato i quartieri San Saba e Testaccio, all’inizio degli anni venti venne chiamato per occuparsi di questa zona residenziale. Al tempo, Roma Nord era praticamente vuota, non c’erano che ragazzi che facevano il bagno al fiume, così Pirani ebbe tanta libertà per poter sperimentare un nuovo tipo di modello urbano, ispirato al Liberty inglese: due file di case con scale che salgono fino al portone e cortili privati sul retro.

Questa è la storia ufficiale, ma non è quella che ci racconta il nostro anziano buono. Lui ci chiede come ci chiamiamo, da dove veniamo, chi siamo. Poi con occhi fieri ci confessa di abitare lì da trent’anni e di aver rilevato lui quella via dissestata al suo arrivo. Dice che quelle non erano abitazioni lussuose, ma destinate agli operai della Camera dei Deputati. In realtà quelle costruzioni furono erette per ospitare funzionari di alto livello dell’amministrazione pubblica, precisamente le fasce superiori degli impiegati della Camera dei Deputati, provenienti da tutto il territorio dell’allora Regno d’Italia. Ma l’anziano buono ci ribadisce che lì vivevano gli operai, che al suo arrivo ha trovato loro a popolare quella strada atipica, che lì sono rimasti a lungo, che uno di loro ci vive ancora oggi, ora che quella strada è tra le più ambite della città. Di questa storia non c’è traccia, ma noi ragazzi scapestrati vogliamo credere all’anziano buono. Sappiamo che i suoi occhi parlano per lui e la sua voce flebile non può che esprimere ciò che crede davvero. Così, la storia che ci racconta è quella di una comunità che vive in armonia in questa via trapiantata nel cuore di Roma, di un gruppo di amici che amano riunirsi in questo vialetto per mangiare insieme nelle sere d’estate. Ci dice che è sempre stato lui a cucinare per tutti. Ce lo ripete più volte e ogni volta come fosse la prima. Non vorrebbe che andassimo via, e solo quando siamo già fuori dal cancelletto socchiuso ci sussurra il suo nome da lontano. Come Calvino ci insegna ne Le città invisibili, ci sono solo due modi per non soffrire l’inferno che abitiamo tutti i giorni: «Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». 

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STAR(E) SUL SET di Diabolik o di quel giorno in cui Bologna è diventata Clerville

Ci sono Michael e Diego, che hanno ancora gli zaini di scuola. Hanno in mano la merenda, ma sembrano più interessati al teatro dell’azione che si sta svolgendo davanti ai loro occhi. Ridono, sono euforici, fanno ciao ai poliziotti di Clerville. La mamma gli dice che dovrebbero tornare a casa a fare i compiti di grammatica, ma nemmeno lei è troppo convinta: spari e inseguimenti non capitano mica tutti i giorni.

Sono le cinque di pomeriggio di martedì 8 marzo e Bologna si è trasformata in Clerville, il luogo immaginario teatro delle gesta di Diabolik, protagonista dell’omonimo fumetto noir, creato nel 1962 da Angela e Luciana Giussani. Piazza dei Martiri è piena di auto d’epoca e di cartelloni pubblicitari anni ’60, ma soprattutto è circondata da curiosi venuti ad assistere al set cinematografico di Diabolik 2 e 3, prequel e sequel del fortunatissimo Diabolik dei Manetti Bros, uscito lo scorso dicembre nelle sale italiane, dopo due anni d’attesa causa pandemia mondiale.

C’è chi sbircia i movimenti della macchina da presa. C’è chi è fermo da ore in attesa di vedere l’attore principale, che non sarà più Luca Marinelli (assurdo ma vero, verrà rimpiazzato da un più che valido Giacomo Gianniotti – attore italo-canadese divenuto celebre con Grey’s Anatomy e c’è addirittura chi lo preferisce). C’è chi sta tornando dal lavoro e deve recarsi in centro, ma che trovando la strada sbarrata e sentendo brusche frenate non ha resistito al richiamo dell’azione. 

Azione nel ciak, ma anche azione nella finzione, perché se Diabolik piace a grandi e piccini, lo si deve al fatto che le sorelle Giussani hanno saputo creare una leggenda da un gioco d’infanzia. Il noir colpisce. E non è un caso che la storia sia stata portata sul grande schermo da due fratelli: Antonio e Marco Manetti, aka Manetti Bros, che già con L’ispettore Coliandro avevano scelto Bologna come luogo prediletto per girare i loro lavori.

Foto di Carlotta Curti

Ci troviamo di fronte a un set che sembra essere il paradiso di chi il cinema lo fa e di chi lo guarda. È un set in cui sono tutti felici. Felici di fare il loro lavoro. 

Quando si pensa a un set, al cinema, alla settima arte, viene da pensare: «È tutto favoloso,  anch’io sarei felice». Ma voglio vedere voi a gestire 90 comparse, il pubblico curioso, le automobili, i rumori esterni, gli imprevisti. Il lavoro sporco qui lo fanno i cosiddetti runner. Si parlano alla radio e dirigono il traffico. Dicono alle comparse quando e se possono passare. 

Come la signora col cagnolino che, unica ignara del fatto che si stia girando un film, decide di far fare i bisogni al suo cucciolo nel parchetto al centro del set, e che ovviamente è entrata nell’inquadratura: «Signoraaaa staremmo girando!» «Oh scusate, me ne vado, me ne vado… ma Fru non poteva proprio aspettare». Dice lei fintamente offesa. Abbiamo attori su attori. 

C’è un papà, che mostra al figlio la cinepresa: «Siamo su un set, Lollo! Qui si fa il cinema!». Penso che questo giorno, a Lollo, rimarrà impresso. E mi commuovo a immaginare che da questo set potrebbe nascere un futuro regista di successo, ricordandosi di quella volta in cui il padre lo portò a vedere come si fa il cinema, come nel recente capolavoro di Sorrentino È stata la mano di Dio – quando Fabietto si ritrova catapultato per la prima volta su un set cinematografico e da lì comprende il suo destino.

Ci sono ragazzi su ragazzi, ma anche anziani con in mano il cellulare, pronti a cogliere qualche momento topico della scena. Seguono le riprese, osservano la troupe, scattano selfie o fanno storie da mettere su Instagram. C’è addirittura un rider, che ha deciso di interrompere la sua corsa per assistere a qualche ciak. Insomma, è impossibile non restare lì a guardare la finzione che irrompe nella quotidianità.

Ma veniamo al sodo: stanno girando la scena dello scuolabus. Diabolik scappa via sulla sua Jaguar E-type nera ed è inseguito da alcune volanti della polizia di Clerville. Gli sono alle calcagna quand’ecco che da destra arriva uno scuolabus che taglia loro la strada e forse, dopo tutti questi spari, ci scappa anche il ferito. La polizia di Clerville l’ha perso, due agenti scendono dalla volante, imprecano e fanno scendere tutti i bambini, tra urla e schiamazzi. Una scena molto breve eppure impegnativa, che richiede una serie di ciak.

Diabolik così scompare e rimangono solo i poliziotti, che sono diventati le guest star. Tutti i bambini vogliono fare la foto con la polizia di Clerville che non può perdersi questo momento, e poi ci chiediamo perché gli sfugga Diabolik: perché erano impegnati a posare per i fan. Una scena che mi ha ricordato i vigili del fuoco a New York, considerati alla pari di star televisive.

Foto di Carlotta Curti

Quando parlavo di set felice, lo facevo con cognizione di causa. Ho infatti avuto la fortuna, qualche settimana prima, di poter stare sul set, di prenderne parte, di bucare lo schermo… Insomma ho fatto letteralmente la mia comparsata. 

È stata la mia amica Carolina a portarmi sul set. Veniva da Roma apposta e mi aveva chiesto appoggio a Bologna perché era stata chiamata a fare la comparsa e la convocazione alla Mompracem – la casa di produzione – era la mattina presto: ore 6.45. Sveglia alle 5.

Si sveglia lei, si sveglia il gatto, mi sveglio anch’io. Va a finire che l’accompagno direttamente in autostazione, dove ci sono gli uffici della Mompracem (e che riconosco essere anche il luogo in cui girano le scene in questura de L’ispettore Coliandro).

Facciamo la conoscenza di Ciro e di Valentina, rispettivamente l’assistente alla regia e la casting director, che mi permettono di restare a guardare. Dopo un tampone di routine, mi metto a osservare quello che succede davanti ai miei occhi: un via vai di persone che passano dalla zona costumi alla zona trucco e poi parrucco. D’improvviso subiscono una metamorfosi e diventano personaggi degli anni Sessanta. C’è un ragazzo, Luca, che interpreta un giornalista e mi basta vedere lui per capire che non sto sognando, sono personaggi in carne e ossa davanti ai miei occhi. Mi metto a parlare con un gruppo di signori fiorentini, che attendono di essere chiamati per la loro metamorfosi. 

E qui viene il bello. Succede che una certa Rita non si è presentata alla convocazione, perciò manca una comparsa. La casting director si gira verso di me ed esclama: «Che problema c’è, la fai tu!». Di lì a pochi minuti, ho i capelli cotonati, l’ombretto celeste e una riga d’eyeliner stile Cleopatra. 

Al parrucco vengo sistemata da Giulio e Aurora. Qualcuno mi offre un cornetto e non dico di no. L’atmosfera che si respira è qualcosa di inspiegabile. C’è fermento, ma niente di troppo concitato o pressante, si lavora come una squadra, si scherza, e c’è tutto il tempo di fare le cose fatte bene, tutto l’opposto di quello che ci racconta la serie Boris. Mi raccontano che il clima è questo perché, dopo due anni di fermo causa pandemia, ritornare a fare il proprio lavoro con passione era la cosa più attesa. Di fianco a me Luca – il capo acconciature – sistema i baffi di un poliziotto. Al trucco vengo accolta da Nicole e Alice. Ai costumi Alessandra, che fa in tempo a squadrarmi due secondi e già sa cosa è perfetto per me. L’ultima aggiustata prima di andare sul set me la dà Ginevra, la costumista.

Siamo pronti. Dalla catena di montaggio in autostazione, una navetta ci conduce sul set delle riprese, ovvero uno dei padiglioni fiera che è stato trasformato nell’aeroporto di Clerville. Qui effettivamente ci viene detto che scene gireremo e soprattutto con chi. 

Monica Bellucci. Sì sì, ho capito bene. E infatti la vedo fare il suo ingresso in scena con un cappello a tesa larga che le copre il caschetto da maschiaccia, il cappotto color panna e gli stivali alti: signore e signori, ecco a voi Altea di Vallenberg, inseparabile compagna dell’ispettore Ginko. 

Guardo Carolina, chiamata a fare l’assistente di Altea, le sorrido e bisbiglio: «Ma come ci siamo finite qua?». Non mi sembra vero di essere dentro a un film con Monica Bellucci diretta dai Manetti Bros. Marco sta alla macchina da presa e dice quando partire, mentre Antonio regge la steadycam e inquadra i movimenti da vicino. «PARTITO!!!» Urla Marco. Giriamo qualche ciak.

Pausa pranzo. Momento conviviale dove chiacchieriamo con le altre comparse: Caterina, Matteo, Francesco, Carmen, Letizia. Vengono da zone limitrofe come Cento (FE), o Forlì, ma anche San Benedetto del Tronto (AP), Firenze, Roma.

Poi, arriva, come se nulla fosse, Valerio Mastandrea, già nelle vesti di Ginko. Facciamo qualche foto, scambiamo due parole, come se fosse una cosa normale, come se ci conoscessimo da una vita. 

Mentre addento un panzerotto, qualcuno arriva e mi sistema i capelli. Mentre scambio due chiacchiere con una comparsa, qualcuno mi sistema i capelli. Mentre aspetto un ciak, qualcuno mi sistema i capelli. 

Mi sento una diva, una star, una protagonista. Mi hanno anche messo lo smalto – cosa per me sconosciuta – e mi chiedo che bisogno ci sia di mettere lo smalto a una comparsa, dopotutto mica mi inquadrano le mani, e invece i dettagli sono importanti, come i guanti per la scena esterna, gli occhiali, il cappello, gli orecchini. 

Faccio amicizia con Miguel, il mio compagno per la scena del pomeriggio. Scopriamo di abitare vicini. Ma già la troupe ci riporta sull’attenti. Si ricomincia a girare.

Motore – Partito! – Azione.

La città venduta: la Milano di Anna Maria Ortese

I libri, come le persone, arrivano nelle nostre vite in maniera inaspettata. A volte a guidarci verso di loro è l’istinto, altre volte invece la casualità. Capita spesso che, mentre siamo in cerca di un titolo, ne spunta fuori all’improvviso un altro che cattura la nostra attenzione al punto da distoglierci da quello che stavamo cercando. Mi è successo lo stesso un giorno quando, nella libreria di casa, mi sono imbattuta in Silenzio a Milano di Anna Maria Ortese. Di questa scrittrice avevo letto e infinitamente amato il suo capolavoro, Il mare non bagna Napoli, e da quel giorno avevo sempre associato la sua scrittura a quei vicoli stretti e assolati. Ero sorpresa quindi nello scoprirla in questa sua inaspettata dimensione nordica. 

Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1958 da Laterza e poi da La Tartaruga nel 1986, raccoglie una serie di sette reportage realizzati durante uno dei periodi trascorsi dalla scrittrice a Milano. Ho iniziato a leggerlo in aereo e per uno strano gioco di spazi sono stata trascinata immediatamente nella Stazione Centrale. È qui che la Ortese, insieme a un fotografo, si reca a raccogliere alcune informazioni per redigere un articolo. Si tratta di osservare il movimento dei viaggiatori, dei treni e l’affluenza delle persone nelle diverse ore della giornata. Quello che ha l’aria di essere un lavoro piuttosto tecnico, o almeno così lo definisce l’autrice, si rivela – fatta eccezione per alcuni dati numerici –  a tutti gli effetti un racconto, dal titolo Una notte nella Stazione. La narrazione di quel tempo trascorso al suo interno diventa un modo per riflettere sulla trasformazione della città, per osservarne i mutamenti attraverso un edificio invecchiato. 

Inaugurata nel 1931 su progetto dell’architetto Stacchini, agli occhi dell’autrice la Stazione ha perso tutta la sua bellezza e il suo fascino. 

Questa mostruosità di pietra, di ferro, di fumo, che ventiquattro anni addietro rappresentava grandezze e speranze della capitale lombarda, oggi, a modo di un forte reagente chimico, ne metteva in luce solo la decadenza umana, la tristezza, i falsi addii

Foto di Alessia Ermirio

Ed è soprattutto nello sguardo del fotografo che la accompagna, descritto come un ragazzo buono con il viso chiaro – quasi infantile tipico delle popolazioni del Nord – che la Ortese ritrova lo sbigottimento di chi, rientrato a casa dopo una lunga assenza, non riconosce più la sua abitazione. Quel senso di smarrimento si impossessa anche della Ortese, che avverte con angoscia questo disfacimento. Così quando l’Ispettore incaricato di dargli alcune informazioni sulla Stazione mostra loro una propria fotografia, facendo notare le sue rughe, la Ortese fatica a individuarle in lui e le trasferisce immediatamente sull’edificio. 

Le rughe, invece, si vedevano sulla città. Quella parte della città di Milano, quelle cinque tettoie nere, quella collina di cinque semicerchi neri, formanti una specie di corpo di ragno appiattito al suolo con le zampe aperte.

Foto di Alessia Ermirio

Su suggerimento del fotografo, dopo essere stati alla stazione di giorno, i due ci ritornano la sera stessa verso le otto. A quell’ora – sostiene lui –  partono o arrivano treni importanti. C’è un’attenzione che è quella giusta. E poi si abbandona ad una bellissima similitudine. 

Sono un po’ come le chiese: passato l’orario delle funzioni solenni, sera o mattina, sono umide e tetre, con l’aria dolce e guasta dei sepolcri, quelle stesse luci lontane. Ogni cosa va vista nel suo momento tipico

E quando tutti i duecento orologi segnano le otto, i due rimettono finalmente piede nella Galleria delle carrozze. La sensazione di estraniamento che la Ortese aveva provato quella mattina la insegue anche di sera. Tutto in quella Stazione le pare tetro e mostruoso. 

La grandezza inumana di questa sala, il suo soffitto dove l’aria spariva in una volta altissima, paragonabile a un cielo di pietra. 

Foto di Alessia Ermirio

Mentre il fotografo si appresta a comprare dei biglietti per restare lì dentro tutta la notte, la Ortese continua a guardarsi intorno smarrita e, come un animale nella notte, tenta disperatamente di trovare riferimenti, mettendosi in cerca di ombre, di sagome, di qualsiasi traccia umana la possa rassicurare. Anche le descrizioni della stazione rimandano alla dimensione spaventosa della natura. 

I suoi muri, rivestiti di travertino, scendevano come fianchi di montagne a stringere la solitudine di quel luogo. 

Foto di Alessia Ermirio

Immaginando di seguire il movimento della Ortese nella città, ci lasciamo alle spalle la Stazione Centrale e ci dirigiamo verso Corso Italia dove si staglia alta nel cielo una delle Case albergo descritte nel quarto dei reportage di questa raccolta –  intitolato Le piramidi di Milano. Questi edifici, progettati dall’architetto romano Luigi Moretti, sorsero nel dopoguerra, voluti dal Comune di Milano all’interno di un piano di ricostruzione della città devastata dai bombardamenti. Nel novembre 1946 il comune elabora il progetto per la costruzione di numerose case albergo che, oltre a contribuire alla riduzione della disoccupazione, avrebbero dovuto sopperire alla forte richiesta di abitazioni a basso costo e indirizzare la ricostruzione postbellica secondo alcuni principi guida, poi ampiamente disattesi. Degli originari ventidue edifici previsti su terreni di proprietà comunale nel cuore e attorno alla città, soltanto tre (via Bassini, via Lazzaretto, via Corridoni) furono realizzati a partire dal 1947, come la stessa Ortese scrive in Silenzio a Milano

Le Case albergo sorgono in tre punti differenti, lontane l’una dall’altra, e ben distaccate anche nell’aspetto da ogni altra casa della città.

Foto di Alessia Ermirio

Casa albergo in Via Corridoni

Foto di Alessia Ermirio

Casa albergo in Via Lazzaretto

Foto di Alessia Ermirio

Casa albergo in Via Bassini

Questi edifici rappresentano per la Ortese un punto di congiunzione tra il passato e il presente. Tra le facciate ottocentesche color latte con il tetto rosso, che tanto ricordano le atmosfere dei paesi, e le case di cemento, vetro e acciaio dall’edilizia moderna, si stagliano queste piramidi.

L’architettura delle Case albergo ha il senso di una virgola in una frase convulsa.  

Anche la Ortese, in questo suo attraversamento della città, proprio come le Case albergo, somiglia ad una virgola, una pausa tra un edificio antico e uno moderno. 

Da questa sua posizione ascolta e osserva le trasformazioni urbane, che poco a poco hanno cambiato il volto di Milano. L’effetto che questa città in continuo mutamento ha su di lei si può cogliere nelle riflessioni che incontriamo in un altro degli scritti, che compongono la raccolta: La città è venduta. Nella corsa in taxi da una periferia all’altra Milano le scorre davanti velocemente. 

Non lascio Milano, solo mi trasferisco da una periferia all’altra. Non sono triste né allegra. Ammiro, dai vetri della macchina, questo splendido giardino tutto velato, come in autunno, da un sottilissimo immobile sipario di nebbia

Anche questo stato d’animo a metà tra l’allegria e la tristezza ci riporta ad identificare ancora una volta la Ortese con quella virgola, esattamente al centro tra la periferia che si è lasciata alle spalle e quella in cui tra poco andrà ad abitare. 

E la città ricomincia a fuggire. Se ne vanno, a poco a poco, gli ultimi palazzi di marmo, le case della luce, scompaiono i balconi e le terrazze di vietro e viene avanti il mare gonfio e scuro, sinistro e scuro dei quartieri periferici, dove abita il vecchio popolo di Milano. 

Anche le case più recenti hanno, agli occhi della Ortese, un che di vecchissimo. Sembra quasi che quel decadimento, già intravisto nelle rughe della Stazione  Centrale, avesse mano a mano invaso ogni altro luogo della città. 

Il tempo, fino a quel momento avvertito in tutta la sua velocità, improvvisamente si fa più lento quando con il taxi passano davanti a una fila di baracche circondate da un lungo campo malinconico. Qui una giovane donna stende della biancheria su una corda e un vecchio è seduto davanti a una soglia mentre dei ragazzi trasportano della legna.  Questo quadro immobile – così lontano dai ritmi incalzanti finora descritti –  inaspettatamente risveglia nella Ortese il ricordo di Napoli. 

Se nel primo racconto dedicato alla stazione era la figura del fotografo a guidare la Ortese, qui è l’autista del taxi a svelarle la conseguenza più profonda di quella trasformazione della città fino a questo momento da lei osservata attentamente senza tuttavia riuscire a comprenderla fino in fondo. Adesso che il punto di osservazione è cambiato, nelle parole amare dell’autista la città le si manifesta in tutto il suo divenire: 

La città si allarga e noi sempre più indietro. Una volta eravamo più vicino, o sbaglio? Ora le nostre case s’allontanano sempre di più dalla città. Ma chi c’è nella città? È stata venduta? Comprata. Venduta. A chi poi?

A queste domande però l’autista non tenta neppure di dare risposta. Le lascia in sospeso e se ne va, volando come un pazzo. Anche lui – come il resto della città osservata un attimo prima dal finestrino –  rapidamente scompare. 

La Biennale d’Arte 2022, prima che apra

Excursus sul tema di questa edizione. Da leggere sul treno per Venezia (o dove  preferite). 

Corpi che cambiano. Il latte dei sogni è il titolo della 59ª Biennale d’arte di Venezia, che verrà inaugurata in anteprima il 21 aprile e resterà aperta al pubblico da sabato 23 aprile a domenica 27 novembre 2022. Aspettando questo inizio, questo  sembra un momento perfetto per iniziare a immergersi nel mondo metamorfico di  questa edizione, indagando i molteplici temi e ispirazioni che hanno dato vita a quella che si prospetta essere la Biennale d’Arte più inclusiva di sempre. La presenza di 213 artiste e artisti – di cui 180 nuovi iniziati – alla Esposizione Internazionale d’Arte, 80 nuove produzioni e più di 1400 opere in mostra, è un chiaro  segnale  che questa Biennale voglia imporsi come una ventata di aria fresca che  spazzi via la staticità corporea di questi due anni appena trascorsi, «il segno di uno  sforzo collettivo che ha qualcosa di miracoloso», nelle parole di Cecilia Alemani,  curatrice di questa edizione. 

Effettivamente qualcosa di miracoloso c’è: per la prima volta nella storia  dell’esposizione dal dopoguerra, la curatrice non ha avuto la possibilità di vedere dal vivo tutte le opere in mostra e ha intrattenuto le relazioni con gli artisti tramite lo schermo del pc. In risposta a questa situazione, la mostra si concentra su tre aree tematiche che parlano prepotentemente di corpi, della loro rappresentazione e della loro  metamorfosi, la relazione tra gli individui e le tecnologie, e i legami che si intrecciano tra  corpi e terra. Il titolo Il latte dei sogni riprende quello del libro di favole di Leonora Carrington (1917- 2011), artista surrealista inglese, nel quale viene descritto un mondo onirico in cui la realtà è relativa e c’è spazio per inventare una dimensione parallela, non asservita alle regole del reale, dove ognuno può essere diverso da sé e in continua mutazione.

Cortesia dell’autore

Il progetto di allestimento, curato dal duo di designer FormaFantasma, prevede un  percorso che si articola nei vari spazi della Biennale, alternando opere site-specific e  ambientali a vere e proprie capsule del tempo che permettono una narrazione storica  dei temi affrontati, in quella che la curatrice chiama «una precisa coreografia  architettonica»

L’elemento comune dell’esposizione può essere ritrovato proprio nella mutazione dei corpi che  vengono identificati come “disobbedienti”: «Storie di corpi disobbedienti che si ribellano alle visioni e rappresentazioni classiche». Un’indagine messa in atto tramite opere contemporanee ma anche esposizioni storiografiche, che spaziano tra il Surrealismo, il Futurismo, il Bauhaus, l’Harlem Reinaissance e la Negritude, attraverso un approccio  trans-storico. 

Cinque capsule, ognuna con un tema diverso, permetteranno ai visitatori di tracciare  passo dopo passo un percorso che parte dalla metamorfosi per arrivare alla completa  trasformazione dell’umano in post-umano. Intorno a queste bolle temporali, si  sviluppa tutto il lavoro degli artisti contemporanei in mostra, che attraverso opere che  vanno dall’arte visiva, passando per quella ambientale, la scrittura, la danza e il film affrontano un tema quanto mai attuale. 

La prima capsula, La culla della strega, raccoglie le opere di 30 artiste delle Avanguardie  Storiche, tra le quali Carol Rama, Eileen Agar, Claude Cahun, Leonor Fini e la stessa  Leonora Carrington. Il tema è quello dell’opposizione alla figura dell’uomo  rinascimentale, unitario, perfetto, tutto d’un pezzo, celebrando invece la metamorfosi, l’ambiguità, la frammentazione del corpo, la relazionalità, l’ibridismo, in favore del superamento di tutti i dualismi e in particolare di quelli che hanno caratterizzato il  pensiero antropocentrico, come le contrapposizioni mente-corpo e maschile-femminile. 

Jane Graverol, L’École de la Vanité, 1967. Photo Renaud Schrobiltgen. Courtesy Schirn  Kunsthalle Frankfurt.
Fuori dalla capsula 
Sara Enrico, The Jumpsuit Theme, veduta dell’allestimento, Ph. Marta Alessandro

Tecnologie dell’incanto è la seconda capsula, che espone opere di artiste italiane degli anni ’60, vicine all’arte programmata e all’arte cinetica, che hanno riflettuto sul  rapporto tra la tecnologia e il corpo, attraverso un linguaggio astratto che spazia dai  quadri in rilievo di Dadamaino fino agli Schemi Luminosi di Grazia Varisco, dove la luce dà vita a forme in continuo movimento che allontanano il visitatore dalla dimensione  contemplativa dell’arte.  

Dadamaino, Cromorilievo, 1974, Courtesy Archivio Dadamaino
Fuori dalla capsula
Ulla Wiggen, Iris XVIII Line, 2021

Corpo orbita, la terza bolla temporale, vuole ricordare al pubblico che la Biennale d’Arte non ospita solo artisti visivi bensì anche intellettuali, scrittori e scrittrici che  hanno fatto del linguaggio una forma di emancipazione. In particolare, questa capsula  è ispirata alla mostra Materializzazione del linguaggio, allestita alla Biennale Arte, 1978, a cura di Mirella Bentivolgio, e raccoglie opere di Poesia Visiva e Poesia Concreta. 

Tomaso Binga, Dattilocodice, 1978.
Fuori dalla capsula
Alexandra Pirici, Aggregate, Art Basel Messeplatz 2019


«Una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una  bottiglia una pentola una scatola un contenitore» è il criptico e didascalico nome della  quarta capsula, ispirata agli scritti di Ursula K. Le Guin, nei quali la storia della civiltà  umana viene riletta, individuando la prima invenzione tecnologica non nelle armi, quanto negli oggetti utili alla raccolta, al sostentamento e alla cura. La capsula presenta dunque una «iconologia di recipienti di varie forme e dei loro legami simbolici, spirituali  e metaforici con la natura».

Bridget Tichenor, La Espera (The Wait),1961. Ph: Javier Hinojosa. Private Collection. ©  Estate of Bridget Tichenor.
Fuori dalla capsula 
Delcy Morelos, Inner Earth, 2018, Ph: Röda Sten Konsthall.

La seduzione dei cyborg è la capsula finale, dove la trasformazione del corpo diventa  post-umana tramite l’introduzione della figura del cyborg, che viene raccontata  attraverso le protesi di Anna Coleman Ladd, i costumi scenografici dalle sfumature  metalliche e meccaniche del costruttivismo russo, corpi robotici artificiali, in  esplorazione del rapporto tra il corpo organico e quello sintetico. 

Kiki Kolgelnic, Artificial Man in Four Parts (1-4), 1967.
Fuori dalla capsula 
Diego Marcon, The Parents Room, 2021, film

La mostra continua poi negli spazi esterni con varie installazioni, tra cui le opere di  Giulia Cenci, Virginia Overton e Marianne Vitale, e negli spazi del Padiglione delle Arti  Applicate, grazie alla collaborazione del Victoria & Albert Museum di Londra. 

Infine, tra gli eventi collaterali segnalati dalla curatrice, spuntano delle esposizioni che,  in linea con la natura di interconnessione di quest’ edizione, uniscono l’opera di più artisti. Tra tutte troviamo la mostra Antony Gormley / Lucio Fontana negli spazi della  Fondazione Olivetti e Vera Molnár: Icône 2020 all’Atelier Muranense.

Alla soglia della sessantesima edizione, la Biennale d’Arte di Venezia rimane dunque  un appuntamento imperdibile per tutti coloro che si interessano di arte ma anche per coloro che praticano l’arte della curiosità. L’Esposizione porta infatti con sé molte  responsabilità, come scrive  Cecilia Alemani: «La libertà di incontrarsi con persone da tutto il mondo, la possibilità di viaggiare, la gioia di stare insieme, la pratica della differenza, della traduzione, dell’incomprensione e  quella della comunione».  

Condividendo in pieno questo spirito di metamorfosi e relazionalità e aspettando il  momento più propizio per visitarla, torno a monitorare le offerte dei treni per Venezia S. Lucia.  

Per approfondire: https://www.laBiennale.org/it/arte/2022/59-esposizione