Ma esisteva effettivamente Napoli, nel marzo 1947? Io rivedendola dopo tanti anni e dopo tante vicende dissi di no; dissi che Napoli è una città inventata: finta, espressa minuto per minuto da innumerevoli Eduardi e Peppini e Titine de Filippo, sullo sfondo di ingenui e fragilissimi scenari…
Giuseppe Marotta
Tanto è lo stupore che si prova nel rivedere Napoli dopo molti anni di assenza che al protagonista del romanzo San Gennaro non dice mai no viene spontaneo domandarsi se quella città che ha davanti esista davvero o se non sia anch’essa una rappresentazione teatrale di quelle che piacciono tanto al popolo napoletano. Sembra vivere un’esperienza del tutto simile Felice Lasco, personaggio protagonista dell’ultimo romanzo di Ermanno Rea, Nostalgia, da cui Mario Martone ha tratto il suo nuovo film, presentato quest’anno al Festival di Cannes, dove è tornato dopo ventisette anni. Anche nel caso del regista quindi si può parlare di un ritorno, tema tra l’altro già presente nella pellicola presentata allora, L’amore molesto (1995), in cui Delia, una giovane illustratrice trapiantata a Bologna, viene richiamata a Napoli dopo la notizia della morte improvvisa della madre.
Destino comune a tutti i napoletani quindi quello di ritornare, come Fabrizia Ramondino aveva sapientemente messo in luce in Star di casa: «E fuggendo Napoli, per inseguire un Nord mitico, che quasi sempre non oltrepassava Roma, i giovani intellettuali napoletani venivano a loro volta inseguiti da Napoli, come una segreta ossessione. Ché Napoli usa seguire i suoi concittadini dovunque, come un’ombra, se si trasferiscono altrove…». Ecco quindi qual è la natura paradossale di questa città, che «invoglia a partire ma che è difficile abbandonare».

Quando Felice Lasco, interpretato magistramente da Pierfrancesco Favino, rientra nel suo quartiere, il rione Sanità, apparentemente nulla è cambiato, se non la madre, ormai invecchiata, che non abita neanche più nella casa in cui l’aveva lasciata l’ultima volta. Ma questo cambiamento è visibile solo sul suo volto. Per il resto Napoli è sempre la stessa, esattamente come l’ha lasciata, come si lasciano le città in guerra: fuggendo.
Lo seguiamo nel suo peregrinare, nel suo cercare tracce di un passato che ora torna ad emergere e ad appartenergli come presente. Figure che non ricorda più e che invece sanno tutto di lui, di sua madre, della sua infanzia, lo avvertono sui pericoli a cui va incontro, decidendo di restare. Eppure Felice sembra non avere paura, come se la sua memoria, di quel passato, avesse trattenuto solo la bellezza. Personaggio centrale, in questa sua iniziazione, è quello di Don Luigi Rega, interpretato da Francesco Di Leva, protagonista di un altro film di Martone sempre ambientato in questo quartiere: Il sindaco del Rione Sanità. È soprattutto lui a metterlo in guardia su Oreste, amico di infanzia di Felice, divenuto ormai la figura più temuta della Sanità, quello che Don Luigi definisce il suo più grande nemico. Ma Felice è ostinato, più fedele ai suoi ricordi che alla realtà che gli sta intorno e che lo rende incapace di riconoscere il male, quello più radicato, più profondo e impossibile da estirpare.

Felice Lasco sembra incarnare la figura di un Icaro moderno, che tenta disperatamente di uscire dal labirinto, di sfuggire a un destino che non è disposto ad accettare. E proprio come Icaro, con le sue ali di cera, precipita per essersi avvicinato troppo al sole, così Felice sfida le leggi di un territorio in cui è già scritta la sua condanna.
È una Napoli orientale quella che viviamo attraverso i suoi occhi, che sembrano ritrovare in quel paesaggio antico le atmosfere lontane dell’Egitto in cui ha trascorso la maggior parte dei suoi anni. Massima espressione di questa contaminazione tra i due mondi è la scena in cui, insieme a un gruppo di ragazzi, danza sulle note di una musica araba.
È la Napoli porosa raccontata da Walter Benjamin, quella in cui «ogni comportamento e affare privato è inondato dalle correnti della vita pubblica come da una marea». L’esistenza di Felice infatti non è più soltanto sua, ma appartiene al rione, quanto le sue cave di tufo.
È una Napoli impenetrabile quella del rione Sanità ritratto da Martone, in cui un rigido codice regola la vita della gente e dove chi, come Felice, conserva ancora l’ingenuità e la purezza di un forestiero vissuto altrove, non ha scampo.
Esperienza immersiva quella che si trova a vivere lo spettatore di Nostalgia, trascinato nelle viscere e nel ventre di Napoli, nei luoghi sotterranei, in quelle che Dostoevskij definirebbe le memorie dal sottosuolo. Nella profondità delle Catacombe, nel Cimitero delle Fontanelle, nei vicoli stretti come cunicoli di un labirinto, cogliamo la condizione di Felice, la sua impossibilità di ritornare a casa. Ma in fondo, la parola nostalgia non significa proprio questo?
