21 giugno. Solstizio d’estate.
Sono appena arrivata a scuola. Quel verde che di solito mi accoglieva all’ingresso, quell’erba rigogliosa su cui i miei alunni fino a poche settimane fa sedevano durante le lezioni di filosofia, adesso è terra arida. Non piove da non ricordo più quanti giorni. Questo panorama scomposto mi attanaglia. C’è qualcosa poi, a scuola, nell’assenza di chi di solito la anima, che mi terrorizza e spaventa. La notizia che mi arriva conferma quel senso di desolazione che mi accompagna da quando sono qui.
Patrizia Cavalli è morta. Patrizia Cavalli, poeta, non c’è più. Così voleva essere chiamata: poeta. E non poetessa. Così la definì Elsa Morante subito dopo aver letto le sue poesie e averle apprezzate con l’avvertenza, però, che non avrebbero cambiato il mondo, da cui il titolo della prima raccolta della Cavalli: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974).
Mi sento smarrita, come se mi avessero appena comunicato la scomparsa di una zia, ma non di quelle lontane che non senti mai. No, al contrario, una di quelle che senti tutti i giorni. Per riprendermi dalla notizia, comincio a leggere forsennatamente una sua poesia dietro l’altra, come se in quel pomeriggio caldo e afoso i suoi versi fossero l’unica fonte in grado di dissetarmi. Erano mesi, mi dico e mi rimprovero, che volevo comprare le sue raccolte. Ma poi, non so neanch’io il perché – forse perché sembra ci sia sempre qualcosa di più urgente da fare di quello che ci interessa fare davvero – ho rimandato quel momento. Adesso non c’è più tempo. Devo sbrigarmi e recuperare al più presto tutto ciò che ha scritto.
Tra le sue poesie che leggo per dissetarmi, ce n’è una tra tutte che mi sconvolge. Penso, mentre la trascrivo sul mio quaderno, che non mi riprenderò mai più dalla verità di questi versi.
Tu mi vorresti come uno dei tuoi gatti
castrati e paralleli: dormono in fila infatti
e fanno i gatti solo di nascosto
quando non li vedi. Ma io non sarò mai
castrata e parallela. Magari me ne vado,
ma tutta di traverso e tutta intera.
(Pigre divinità e pigra sorte, 2006)
Proprio adesso, nel morire nel primo giorno d’estate, se ne è andata di traverso e tutta intera.

Dopo aver letto alcune sue poesie, resto a fissare un ritratto che le fece Dino Ignani, il fotografo dei poeti. Dietro di lei, seduta composta, c’è una carta geografica, proprio come quelle che abbiamo qui a scuola, in classe. Anche il suo maglione con quelle figure geometriche sembra disegnare geografie, campi di grano aridi come quelli qui intorno, e questa fotografia è la perfetta trasfigurazione in immagine di una sua poesia, che Chiara, subito dopo essere stata avvisata da me della sua scomparsa, mi manda. Mi impressiona che tra tutte abbia scelto di inviarmi proprio questa, quella che più somiglia a questo ritratto.
Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.
da Il cielo, in “Patrizia Cavalli”, Poesie (1974-1992).
Perché, mi domando, l’attrazione per un poeta o uno scrittore è molto più forte dopo la sua morte? Cos’ha la morte di così affascinante da spingerci con tanta curiosità verso autori che prima abbiamo trascurato? Mi tornano in mente le parole del giovane Holden: «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira».
Vorrei fare lo stesso adesso con Patrizia Cavalli. Forse è proprio l’impossibilità di questo gesto, che ora si presenta in tutta la sua oscurità, a scoraggiarmi e a spingermi a trovare consolazione ancora una volta nei suoi versi, che mi illuminano trasportandomi altrove.
27 giugno. Quasi una settimana dopo.
Mattina presto. Torno a scuola anche oggi per gli esami di maturità. Le raccolte di poesia di Patrizia Cavalli adesso non si trovano più facilmente. Mi assale di nuovo il rimpianto di non averle prese prima, quando era ancora viva. Le copie saranno disponibili ad agosto. L’idea di non poterle avere subito si lega, senza che sappia dire precisamente il perché, a questa siccità spaventosa che da settimane è così minacciosa. Quest’assenza di versi mi fa sentire come una pianta che non può più aspettare. Poi succede che mi distraggo – una strategia che uso spesso quando devo rassegnarmi al fatto di non poter avere qualcosa. Allora nello scaffale della libreria della casa di campagna recupero Marcovaldo di Italo Calvino. Il libro, in fila indiana con gli altri, sembra un po’ smarrito e fuori luogo come il protagonista delle sue pagine. Anche qui ritrovo la siccità, l’afa di questi giorni. Il bisogno di Marcovaldo, poi, di ricrearsi dei suoi spazi di quiete, di pace e di fresco in quel poco di natura che resta in città, mi riporta a quel pomeriggio torrido di sei giorni fa, in cui ho trovato nei versi di Patrizia Cavalli la consolazione al dispiacere di aver aspettato così tanto tempo prima di decidermi a leggerli.
Mentre correggiamo i temi di italiano, penso a quanto sarebbe bello se si riuscisse a studiare Patrizia Cavalli a scuola, se tra i versi proposti quest’anno per l’analisi del testo ci fossero stati, oltre a quelli di Verga e Pascoli, anche i suoi. Non faccio in tempo a pensarlo che un altro scrittore contemporaneo irrompe nella mia giornata appena iniziata. Questa volta è Chiara ad avvisare me della scomparsa di Raffaele La Capria. Quante volte ne abbiamo parlato. Quante volte abbiamo desiderato incontrarlo per intervistarlo. Gli avremmo certamente chiesto di raccontarci le sue due città, Napoli e Roma, la prima la sua città natale e la seconda quella in cui aveva scelto di vivere e in cui oggi si è spento.

Questa foto, scattata un’estate a Capri, lo ritrae con la moglie, l’attrice Ilaria Occhini, a cui è stato legato per sessant’anni fino alla scomparsa di lei, avvenuta tre anni fa. E nel guardarla penso che l’estate, quella appena iniziata, che ha già visto scomparire due grandi della letteratura italiana del Novecento, è anche la stagione del romanzo più celebre di La Capria, quello che gli valse il Premio Strega nel 1961: Ferito a morte. Il libro si apre con uno degli incipit più belli che uno scrittore possa desiderare di scrivere.
La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come una fortezza volante quando la vedevi arrivare ancora silenziosa nel cerchio tranquillo del mattino. L’occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese – è vicina, vicinissima, a tiro – La Grande Occasione. L’aletta dell’arpione fa da mirino sulla linea smagliante del fucile, lo sguardo segue un punto tra le branchie e le pinne dorsali. Sta per tirare – sarà più di dieci chili, attento non si può sbagliare! – e la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona. Luccica lì, sul fondo di sabbia, la freccia inutile. La spigola passa lenta, come se lui non ci fosse, quasi potrebbe toccarla, e scompare in una zona d’ombra, nel buio degli scogli. Adesso sta inseguendo la Grande Occasione Mancata.
Quando l’estate scorsa lo lessi, in un viaggio in treno in Liguria, dovetti rileggerlo tante volte per capirlo e così, scoraggiata, abbandonai la lettura. Ma oggi che il suo autore è scomparso e che non è più possibile, come desideravo, incontrarlo, sento forte in me il desiderio di riprenderlo e di ricominciare da lì, da quella “grande occasione mancata di lettura” e mi riprometto che non aspetterò più che gli autori scompaiano per affondare profondamente nella loro scrittura.