Le macchine procedono a velocità dissonanti davanti al bar,
io riconosco le persone che le guidano.
L’aria assume le tinte gialle del neon.
È una stazione emotiva cui non riesco ad adattarmi.
Il Bianchi viene a comprare mezzo chilo di pane
e la pagnotta per Agata alle dieci in punto,
Flavio e il Cioni fanno avanti e indietro in moto
perpetuo, per Campari e birra “ghiacciata, mi raccomando”.
Vittorio finisce di pranzare prima di mezzogiorno
e viene a prendere caffè e Futura e poi chiede:
“ancora non c’è Bronzino?”, e così via.
Ronzano nel sottofondo i frigoriferi,
tintinna il perno arrugginito della ventola,
dalla cucina si incuneano timbri metallici e aroma unto.
Come affacciato a un fiume, osservo fluire
le battute riciclate di bar in bar dai clienti;
con cadenza regolare viene urlato il mio nome
– mi riacciuffa questa assurda dimensione.
La mia giornata è impressa nel solco della sedia.
Il giorno s’inabissa nella notte e riemerge identico.
Dio è qui che ha appiccicato la sua gomma da masticare.
Vorrei accadesse qualcosa, anche la più tragica,
per compiacere la mia nevrastenia e far cedere
il chiodo che sorregge questo quadro intollerabile.
Penso a Bucarest, a un fratello che ci abita:
è un’ora più vicino ai sogni.
Fabrizio Sani
Illustrazione a cura di Valentina De Nicola