Due file di case su entrambi i lati di una via rivestita di sanpietrini, lampioni vittoriani e cancelli in ferro battuto, cassette delle poste sulle ringhiere, gradini in marmo che conducono al portone di legno. Sembra di essere a Londra ma in realtà siamo a Roma, nel cuore del quartiere Flaminio. Una strada che sembra nata proprio dall’esigenza di guardarsi intorno, dalla curiosità, dall’entusiasmo di rivolgere il proprio sguardo altrove, senza chiudersi nei propri modelli, nel proprio piccolo e sempre uguale a se stesso mondo. Un esempio perfetto di quella commistione e di quello scambio che rappresentano la ricchezza di ogni città.
Capita però sempre meno spesso che qualcuno fermi qualcun altro per strada. Per parlare, per comunicare, per raccontare, per conoscere, per conoscersi. Per riconoscere negli occhi dell’altro un guizzo, la propria curiosità, un ricordo, la paura, un segno, la malinconia, la propria o un’altra. Capita sempre meno spesso, non perché non ce ne sia bisogno, ma perché siamo convinti che basti lo schermo di un telefono, il nostro piccolo giro di amicizie, i familiari, i colleghi e poco più. Gli altri non appartengono al nostro clan, gli altri spaventano, fanno compassione, tristezza o allegria. Li vediamo in metropolitana, sono tanti, sono troppi. Abitano la città, si muovono nel nostro stesso spazio, percorrono le nostre stesse strade. Non sappiamo cosa hanno da raccontare, cosa nascondono i loro sguardi, cosa proteggono, cosa svelano. Non li guardiamo negli occhi, senza sapere che gli occhi della città sono proprio i loro, che poi sono anche i nostri.
Capita però, sempre meno spesso, che qualcuno ci risvegli da questo torpore, dall’apatia della quotidianità, dalla trascuratezza della frenesia, dall’indifferenza dell’egoismo, dall’insensatezza della produttività. Capita così che un uomo buono, un anziano dritto e distinto, dica “altolà” a un gruppetto di ragazzi scapestrati che si aggirano per le vie della città alla ricerca del proprio posto nel mondo. Loro, a differenza di altri passanti, si guardano intorno, sono curiosi degli sguardi, dei gesti, delle parole, perché dove vogliono andare non lo sanno ancora. Capita dunque che quest’uomo buono dica “altolà” e che lo faccia senza severità o tono indagatore. Capita che lo faccia per l’esigenza di raccontare, comunicare, guardare negli occhi, quel bisogno che sarebbe primordiale e sempre più rimosso. È così che ferma i cinque scapestrati all’ingresso di via Bernardo Celentano, che era un pittore verista, morto solo a ventotto anni e sepolto a Sant’Onofrio al Gianicolo. Chissà come l’avrebbe dipinta Bernardo Celentano questa via che gli è stata intitola, questa piccola Londra di Roma, una strada tra via Flaminia e viale del Vignola, nel quartiere Flaminio.

Il sindaco di Roma in quegli anni era Ernesto Nathan, la cui elezione era stata una vera rivoluzione all’epoca: aveva ottenuto la cittadinanza italiana a quarant’anni, era ebreo ed era il primo sindaco a non appartenere all’élite dei proprietari terrieri. Negli anni in cui è stato sindaco di Roma (dal 1907 al 1913) ha posto a fulcro del suo programma politico l’emancipazione dell’individuo e della società, realizzando una rivoluzione progressista ispirata a ideali mazziniani: dalla scuola alla sanità, dall’edilizia alla municipalizzazione delle fonti energetiche, dal trasporto pubblico ai beni culturali.
Flaminio fu il primo quartiere ad essere costruito secondo il Piano Regolatore di Nathan. L’architetto Quadrio Pirani, che aveva già realizzato i quartieri San Saba e Testaccio, all’inizio degli anni venti venne chiamato per occuparsi di questa zona residenziale. Al tempo, Roma Nord era praticamente vuota, non c’erano che ragazzi che facevano il bagno al fiume, così Pirani ebbe tanta libertà per poter sperimentare un nuovo tipo di modello urbano, ispirato al Liberty inglese: due file di case con scale che salgono fino al portone e cortili privati sul retro.
Questa è la storia ufficiale, ma non è quella che ci racconta il nostro anziano buono. Lui ci chiede come ci chiamiamo, da dove veniamo, chi siamo. Poi con occhi fieri ci confessa di abitare lì da trent’anni e di aver rilevato lui quella via dissestata al suo arrivo. Dice che quelle non erano abitazioni lussuose, ma destinate agli operai della Camera dei Deputati. In realtà quelle costruzioni furono erette per ospitare funzionari di alto livello dell’amministrazione pubblica, precisamente le fasce superiori degli impiegati della Camera dei Deputati, provenienti da tutto il territorio dell’allora Regno d’Italia. Ma l’anziano buono ci ribadisce che lì vivevano gli operai, che al suo arrivo ha trovato loro a popolare quella strada atipica, che lì sono rimasti a lungo, che uno di loro ci vive ancora oggi, ora che quella strada è tra le più ambite della città. Di questa storia non c’è traccia, ma noi ragazzi scapestrati vogliamo credere all’anziano buono. Sappiamo che i suoi occhi parlano per lui e la sua voce flebile non può che esprimere ciò che crede davvero. Così, la storia che ci racconta è quella di una comunità che vive in armonia in questa via trapiantata nel cuore di Roma, di un gruppo di amici che amano riunirsi in questo vialetto per mangiare insieme nelle sere d’estate. Ci dice che è sempre stato lui a cucinare per tutti. Ce lo ripete più volte e ogni volta come fosse la prima. Non vorrebbe che andassimo via, e solo quando siamo già fuori dal cancelletto socchiuso ci sussurra il suo nome da lontano. Come Calvino ci insegna ne Le città invisibili, ci sono solo due modi per non soffrire l’inferno che abitiamo tutti i giorni: «Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
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Mi è appena successa la medesima cosa, ho parlato anche io con “l’anziano buono” a cui ho scordato di chiedere il nome, voi per caso sapete indicarmelo avrei piacere a saperlo.
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