I libri, come le persone, arrivano nelle nostre vite in maniera inaspettata. A volte a guidarci verso di loro è l’istinto, altre volte invece la casualità. Capita spesso che, mentre siamo in cerca di un titolo, ne spunta fuori all’improvviso un altro che cattura la nostra attenzione al punto da distoglierci da quello che stavamo cercando. Mi è successo lo stesso un giorno quando, nella libreria di casa, mi sono imbattuta in Silenzio a Milano di Anna Maria Ortese. Di questa scrittrice avevo letto e infinitamente amato il suo capolavoro, Il mare non bagna Napoli, e da quel giorno avevo sempre associato la sua scrittura a quei vicoli stretti e assolati. Ero sorpresa quindi nello scoprirla in questa sua inaspettata dimensione nordica.

Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1958 da Laterza e poi da La Tartaruga nel 1986, raccoglie una serie di sette reportage realizzati durante uno dei periodi trascorsi dalla scrittrice a Milano. Ho iniziato a leggerlo in aereo e per uno strano gioco di spazi sono stata trascinata immediatamente nella Stazione Centrale. È qui che la Ortese, insieme a un fotografo, si reca a raccogliere alcune informazioni per redigere un articolo. Si tratta di osservare il movimento dei viaggiatori, dei treni e l’affluenza delle persone nelle diverse ore della giornata. Quello che ha l’aria di essere un lavoro piuttosto tecnico, o almeno così lo definisce l’autrice, si rivela – fatta eccezione per alcuni dati numerici – a tutti gli effetti un racconto, dal titolo Una notte nella Stazione. La narrazione di quel tempo trascorso al suo interno diventa un modo per riflettere sulla trasformazione della città, per osservarne i mutamenti attraverso un edificio invecchiato.
Inaugurata nel 1931 su progetto dell’architetto Stacchini, agli occhi dell’autrice la Stazione ha perso tutta la sua bellezza e il suo fascino.
Questa mostruosità di pietra, di ferro, di fumo, che ventiquattro anni addietro rappresentava grandezze e speranze della capitale lombarda, oggi, a modo di un forte reagente chimico, ne metteva in luce solo la decadenza umana, la tristezza, i falsi addii.

Ed è soprattutto nello sguardo del fotografo che la accompagna, descritto come un ragazzo buono con il viso chiaro – quasi infantile tipico delle popolazioni del Nord – che la Ortese ritrova lo sbigottimento di chi, rientrato a casa dopo una lunga assenza, non riconosce più la sua abitazione. Quel senso di smarrimento si impossessa anche della Ortese, che avverte con angoscia questo disfacimento. Così quando l’Ispettore incaricato di dargli alcune informazioni sulla Stazione mostra loro una propria fotografia, facendo notare le sue rughe, la Ortese fatica a individuarle in lui e le trasferisce immediatamente sull’edificio.
Le rughe, invece, si vedevano sulla città. Quella parte della città di Milano, quelle cinque tettoie nere, quella collina di cinque semicerchi neri, formanti una specie di corpo di ragno appiattito al suolo con le zampe aperte.

Su suggerimento del fotografo, dopo essere stati alla stazione di giorno, i due ci ritornano la sera stessa verso le otto. A quell’ora – sostiene lui – partono o arrivano treni importanti. C’è un’attenzione che è quella giusta. E poi si abbandona ad una bellissima similitudine.
Sono un po’ come le chiese: passato l’orario delle funzioni solenni, sera o mattina, sono umide e tetre, con l’aria dolce e guasta dei sepolcri, quelle stesse luci lontane. Ogni cosa va vista nel suo momento tipico.
E quando tutti i duecento orologi segnano le otto, i due rimettono finalmente piede nella Galleria delle carrozze. La sensazione di estraniamento che la Ortese aveva provato quella mattina la insegue anche di sera. Tutto in quella Stazione le pare tetro e mostruoso.
La grandezza inumana di questa sala, il suo soffitto dove l’aria spariva in una volta altissima, paragonabile a un cielo di pietra.

Mentre il fotografo si appresta a comprare dei biglietti per restare lì dentro tutta la notte, la Ortese continua a guardarsi intorno smarrita e, come un animale nella notte, tenta disperatamente di trovare riferimenti, mettendosi in cerca di ombre, di sagome, di qualsiasi traccia umana la possa rassicurare. Anche le descrizioni della stazione rimandano alla dimensione spaventosa della natura.
I suoi muri, rivestiti di travertino, scendevano come fianchi di montagne a stringere la solitudine di quel luogo.

Immaginando di seguire il movimento della Ortese nella città, ci lasciamo alle spalle la Stazione Centrale e ci dirigiamo verso Corso Italia dove si staglia alta nel cielo una delle Case albergo descritte nel quarto dei reportage di questa raccolta – intitolato Le piramidi di Milano. Questi edifici, progettati dall’architetto romano Luigi Moretti, sorsero nel dopoguerra, voluti dal Comune di Milano all’interno di un piano di ricostruzione della città devastata dai bombardamenti. Nel novembre 1946 il comune elabora il progetto per la costruzione di numerose case albergo che, oltre a contribuire alla riduzione della disoccupazione, avrebbero dovuto sopperire alla forte richiesta di abitazioni a basso costo e indirizzare la ricostruzione postbellica secondo alcuni principi guida, poi ampiamente disattesi. Degli originari ventidue edifici previsti su terreni di proprietà comunale nel cuore e attorno alla città, soltanto tre (via Bassini, via Lazzaretto, via Corridoni) furono realizzati a partire dal 1947, come la stessa Ortese scrive in Silenzio a Milano:
Le Case albergo sorgono in tre punti differenti, lontane l’una dall’altra, e ben distaccate anche nell’aspetto da ogni altra casa della città.

Casa albergo in Via Corridoni

Casa albergo in Via Lazzaretto

Casa albergo in Via Bassini
Questi edifici rappresentano per la Ortese un punto di congiunzione tra il passato e il presente. Tra le facciate ottocentesche color latte con il tetto rosso, che tanto ricordano le atmosfere dei paesi, e le case di cemento, vetro e acciaio dall’edilizia moderna, si stagliano queste piramidi.
L’architettura delle Case albergo ha il senso di una virgola in una frase convulsa.
Anche la Ortese, in questo suo attraversamento della città, proprio come le Case albergo, somiglia ad una virgola, una pausa tra un edificio antico e uno moderno.
Da questa sua posizione ascolta e osserva le trasformazioni urbane, che poco a poco hanno cambiato il volto di Milano. L’effetto che questa città in continuo mutamento ha su di lei si può cogliere nelle riflessioni che incontriamo in un altro degli scritti, che compongono la raccolta: La città è venduta. Nella corsa in taxi da una periferia all’altra Milano le scorre davanti velocemente.
Non lascio Milano, solo mi trasferisco da una periferia all’altra. Non sono triste né allegra. Ammiro, dai vetri della macchina, questo splendido giardino tutto velato, come in autunno, da un sottilissimo immobile sipario di nebbia.
Anche questo stato d’animo a metà tra l’allegria e la tristezza ci riporta ad identificare ancora una volta la Ortese con quella virgola, esattamente al centro tra la periferia che si è lasciata alle spalle e quella in cui tra poco andrà ad abitare.
E la città ricomincia a fuggire. Se ne vanno, a poco a poco, gli ultimi palazzi di marmo, le case della luce, scompaiono i balconi e le terrazze di vietro e viene avanti il mare gonfio e scuro, sinistro e scuro dei quartieri periferici, dove abita il vecchio popolo di Milano.
Anche le case più recenti hanno, agli occhi della Ortese, un che di vecchissimo. Sembra quasi che quel decadimento, già intravisto nelle rughe della Stazione Centrale, avesse mano a mano invaso ogni altro luogo della città.
Il tempo, fino a quel momento avvertito in tutta la sua velocità, improvvisamente si fa più lento quando con il taxi passano davanti a una fila di baracche circondate da un lungo campo malinconico. Qui una giovane donna stende della biancheria su una corda e un vecchio è seduto davanti a una soglia mentre dei ragazzi trasportano della legna. Questo quadro immobile – così lontano dai ritmi incalzanti finora descritti – inaspettatamente risveglia nella Ortese il ricordo di Napoli.
Se nel primo racconto dedicato alla stazione era la figura del fotografo a guidare la Ortese, qui è l’autista del taxi a svelarle la conseguenza più profonda di quella trasformazione della città fino a questo momento da lei osservata attentamente senza tuttavia riuscire a comprenderla fino in fondo. Adesso che il punto di osservazione è cambiato, nelle parole amare dell’autista la città le si manifesta in tutto il suo divenire:
La città si allarga e noi sempre più indietro. Una volta eravamo più vicino, o sbaglio? Ora le nostre case s’allontanano sempre di più dalla città. Ma chi c’è nella città? È stata venduta? Comprata. Venduta. A chi poi?
A queste domande però l’autista non tenta neppure di dare risposta. Le lascia in sospeso e se ne va, volando come un pazzo. Anche lui – come il resto della città osservata un attimo prima dal finestrino – rapidamente scompare.