Le strade della mia città portano tutte a te

Svolto l’angolo che affaccia sulla piazza, quella davanti alla cattedrale, e salgo i gradoni per entrare in chiesa. Faccio spazio tra le signore che escono dopo il rosario. Con l’andatura di un mendicante raggiungo l’altare. 

Bestemmio il tuo nome ma con le mani giunte. 

Vado a sedermi di fronte al quadro, lo stesso che ti faceva impressione. Dall’ovale si vede ancora il viso della Madonna che ti guarda, la stessa che secoli fa è stata ritrovata in un pantano avvolta da sette veli. La osservo, non capisco come mai ti generasse turbamento. È la faccia microscopica di una donna che non hai conosciuto, lontanissima da te, che come un protestante hai negato a voce alta davanti a un gruppo di fedeli. Spero ti venga a cercare, che appaia in un sogno da cui non ti puoi svegliare. 

Cammino verso la villa, calpesto il corso nascondendomi nella sciarpa che mi hai regalato tu. Incedo a passo svelto in mezzo alle persone che non ti hanno mai conosciuto; vado controsenso. Succede nella mia testa che mi accascio a terra, mi calpestano, chiedo aiuto ma non mi sentono. Sono un barbone di cui non frega niente a nessuno, un bastardo lasciato vicino a un palo fulminato circondato da un ronzio fastidioso. 

Davanti al semaforo ti penso, le strade della mia città portano ancora a te. 

Ti siedi su questo marciapiede a luglio, il caldo ha scolpito la tua sagoma ricurva qui.

«Impazzisco per l’odore della benzina» dicevo, tu fumavi la sigaretta e ripetevi che era l’ultima. Ti appoggiavo una mano sulla coscia, accarezzavo la pelle dentro lo strappo del tuo pantalone, stendevo la testa sulla tua spalla, si sentiva l’odore del deodorante che evaporava sotto il solleone. 

Piazza Umberto Giordano, sono qui, ma non ti aspetto; so già che non tornerai. Non sarà come l’ultima volta. Seduto di fronte alle statue delle opere di Giordano, le ammiro. C’è la gelateria che ti piace tanto, ha cambiato nome. Ti immagino ancora lì a mangiare una coppetta al limone mentre  ti guardo e lecco il bordo del mio cono che si scioglie al suolo. Sono ancora attratto da tutto ciò che ti appartiene, non riesco a valutare altre cose. Ho la musica in testa che ascoltavi in una cuffia sola, la frase del libro che hai sottolineato con la penna blu.

Il parco dove ci incontravamo da clandestini adesso è pieno di bottiglie vuote e carte sporche, sento l’odore dei torcinelli sulla brace e ci rivedo a parlare dietro il chioschetto, sopra la panchina al buio. Hai la risata più disturbante di tutte, mi fanno male le orecchie solo a pensarci. Ti volevo spingere fuori da quella panchina dove sopra c’era scritto “Bari merda”, tu che non tifavi niente e che ridevi quando vedevi i tifosi ammassarsi e prendersi a parolacce davanti allo Zaccheria. 

Dove hai messo la maglia rosso nera, quella che ti ho regalato a Natale e che tu avresti usato come pigiama?

Sulla collina del parco i cani fanno la corsa, c’è un giovane che suona la chitarra e una signora che canta stonata. «La tua scrittura è gonfia» dicevi in un dialetto che non so ripetere. «Devi imparare a farlo meglio; è l’unica cosa che hai», io restavo in silenzio come davanti a tutte le cose vere. Mi concentravo sulle tue labbra che avrei voluto spolpare, mi sarei fermato un attimo prima di provarci. Tu invece no. 

Sono il bambino di sette anni, a cui il nonno regala una caramella prima di morire. Sono il ragazzo che dopo essere stato accanto per molto tempo, viene liquidato con un «Sono in ritardo, scusa, devo scappare». Sono l’uomo con i fiori poggiati sul tavolo e un invito non corrisposto. Sono l’anziano che raccoglie la palla del nipotino prima di scoprire che è finita vicino a una siringa usata. Se gli raccontassi di te non mi crederebbero, quando per poco siamo stati felici. Ora che invece non ci sei più, io sento il mio dolore, e il loro. E so già che lo curerò con un’altra persona che sarà la copia, della copia sbiadita dell’originale. 

«Signore, fammi tornare indietro», resto seduto sulla panchina a mangiare da solo il panzerotto come mi hai insegnato tu, ho dimenticato i fazzoletti. Sta salendo un rigurgito amaro, il giubbotto adesso puzza di olio fritto. Un passante mi sfiora lasciandosi dietro una nuvola di nicotina, lì ci sei tu. In ogni cosa che nuoce, nelle cose che per una vita mi hanno vietato di fare. Mi alzo di scatto: la sciarpa l’ho lasciata lì. 

«Voglio andarmene da Foggia, questa città consuma» dicevi, e io ascoltavo desiderando quello che volevi tu. «Pure io», e ti arrabbiavi. «Partiamo?» replicai «Andiamocene via insieme» non hai risposto. Chissà se ritornerai a camminare per queste strade, alla tua famiglia non ci pensi? Li hai delusi, lo sai che non gli manchi. Ritorno verso casa, spero ci sarà la tua bicicletta ferma davanti alla porta a farmi una sorpresa. 

Anche la strada di casa, quella che percorrevi col fanale spento, conserva il tuo profumo tra le foglie degli ulivi. Vienimi incontro; ti cerco nel buio. Spara un bengala nel cielo così posso capire dove sei, anche se ci sono rimasto male, e l’affetto che provo per te si è sbriciolato tra le dita fino a rimanere niente. 

Ti mando il mio amore. 

Ovunque tu sia.   

«Tutte le immagini scompariranno»​. A Bologna “Les Années Super-8” di David e Annie Ernaux

Annie Ernaux entra in sala, al cinema Medica Palace a Bologna, e avanza quasi timida, si guarda intorno e sorride. È incredibile vederla poco dopo l’assegnazione del Premio Nobel alla Letteratura 2022. Eppure, Ernaux appare tanto umile e felice che l’aura di gentilezza emoziona tutti. È la sua seconda data in Italia (la prima al Festival del cinema di Roma) ed è  arrivata a Bologna per la proiezione del film Les Années Super-8, a cui ha lavorato insieme al figlio David Ernaux-Briot. La visione del lungometraggio conclude la XV edizione del festival Archivio Aperto (Bologna, 20>24 ottobre 2022), il festival di Home Movies – Archivio Nazionale del Film di  Famiglia di Bologna dedicato alla riscoperta del patrimonio cinematografico privato e sperimentale.

Bring the archive into the world è la frase di questa edizione del festival ed è proprio quello che hanno fatto gli Ernaux, realizzando il film a partire dal materiale d’archivio privato. Per circa  nove anni, il marito, Philippe Ernaux, ha ripreso la loro vita insieme: momenti familiari, viaggi, case, oggetti, sorrisi, timidezze, abiti. Dal momento che il girato (in origine di cinque ore) è senza audio, da lì l’idea di inserire una voce narrante che andasse di pari passo con le immagini.

A scrivere e leggere il testo, per adeguarlo ai frames, è proprio Annie Ernaux. Vedere il film e ascoltare la sua  voce è come ritornare ai suoi libri in cui, ormai lo sappiamo bene, racconta la sua vita. Sono autobiografie, autoritratti, auto-finzioni, insomma, raccontano del suo sé più profondo e intimo che ha ricercato quotidianamente. Nel film, però, c’è qualcosa di più: la sua percezione di sé come un’altra. “La giovane donna” così ripete la voce narrante, cioè Annie, quando si vede. Per scriverlo, infatti, ha recuperato i quaderni di quegli stessi anni. E allora le donne che si incontrano nella figura di Annie sono tre: la scrittrice di quei quaderni, la scrivente del testo per il film, la donna che spesso nel film vediamo scrivere.

Assistiamo alla messa in scena dello spettacolo più anelato da un lettore appassionato: osservare la genesi dell’opera dello scrittore amato. Annie in quel periodo  comincia infatti a scrivere il suo primo romanzo: Gli armadi vuoti. Ed è così che si realizza la coincidenza fra una  vita e la sua rappresentazione nella figura di chi la scrive.  

La memoria personale nel film come nel libro Gli anni, si intreccia alla memoria  collettiva. L’intimo si lega alla Storia attraverso i viaggi che la famiglia Ernaux compie: al mare, in  montagna, in campagna dalla sorella di Philippe, momenti e paesaggi quasi estatici fissati dal doppio regista (prima Philippe poi David) insieme all’Albania e al Cile di Allende, a scoprire le pratiche rivoluzionare prima del baratro di Pinochet. I risvolti sociali, l’incontro con il cambiamento dei tempi incide sull’equilibrio della famiglia che pur inconsciamente assorbe ciò che vede. Sono gli anni più importanti per la loro storia: i figli crescono, la madre di Annie vive con loro, lei insegna in una scuola  media e a poco a poco i coniugi arrivano alla separazione. 

L’intreccio fra il contenuto privato e quello collettivo è un elemento comune ai libri di Ernaux, ma non  unico nel genere dell’autobiografia femminile. In Italia Fabrizia Ramondino, Natalia Ginzburg, Elsa  Morante, hanno accompagnato alle narrazioni delle proprie vite anche quelle delle vite degli altri e  della loro generazione. Ed è per questo che per Les Années Super- 8 possiamo parlare di auto-socio  biografia. 

La voce di Annie, attraverso lo sguardo del super 8 di Philippe, esprime la sua visione del mondo che  non è marcata dalla nostalgia, ma risente del modo in cui lei sta al mondo. Ciò dimostra che per  diventare uno scrittore non bisogna fare, ma essere. 

Tutto nasce dall’infanzia quando nel bar dei suoi genitori ascoltava i racconti degli altri e li assorbiva  amplificando la percezione della sua realtà. La narrazione di quel tempo si ritrova sovente nei suoi  libri unita al racconto di una classe sociale (emblematico è il capolavoro Il posto). 

In realtà, ciò risponde al desiderio di mantenere una promessa che Annie aveva fatto a sé stessa a  vent’anni: «Scriverò per vendicare la mia razza». 

Il primo libro Gli armadi vuoti parla del salto classe, anche se non solo così questa si vendica. Scrive per far dire agli altri “bisogna fare qualcosa”. In questo senso: «Il posto ha vendicato la mia  classe, mentre Gli anni si sofferma sull’immigrazione, sulla povertà, e su chi è in posizione  marginale». Riflette Annie e mentre parla guarda il pubblico. Le sue parole scorrono forti e posate e  contengono tutta la resilienza e la fatica della sua genealogia. 

 

«Il luogo da cui scrivo» continua, è la mia condizione femminile raccontata per auspicare a un  cambiamento. Il rapporto con la madre orienta la sua vita di donna e tende allo svelamento di un  enigma: «Cercare una verità su mia madre solo tramite le parole». La scrittura è una pratica  dolorosa, ma necessaria. È uno spazio di libertà e di sopravvivenza, un segreto inconfessato e  custodito quando Annie scriveva da sola in montagna o sui taccuini mischiati ai compiti da  correggere. 

La ricerca durante la scrittura sembra senza sbocchi e ciò può portare a crisi e disperazione, soprattutto  nel tormento di dover dare una forma al libro. Infatti, racconta: «Molti miei quaderni sono ripetitivi. Ci  vuole tempo per arrivare a un libro, ma una volta trovata la strada vado fino in fondo». Virginia  Woolf, afferma Ernaux, scrive che la stanza tutta per sé è uno spazio di libertà, ma questa è  un’illusione poiché non è mai assoluta. E illusorie sono pure le immagini del film che scorrono lente,  incastonate in inquadrature fisse nelle quali i protagonisti, e personaggi di loro stessi, guardano in  camera e sorridono. Sorridono a Philippe e al futuro. 

«Tutte le immagini scompariranno» così si apre il capolavoro Gli anni e invece nel film le immagini riaffiorano, prendono corpo e movimento, fanno prendere coscienza del passato – che è  poi è la funzione della letteratura (e della vita).  

Uno scrittore pomeridiano. Calvino attraverso lo sguardo di Pietro Citati

Nel dicembre del 2013, in occasione dei novant’anni di Italo Calvino, fui fortunata abbastanza da poter ascoltare Pietro Citati, scomparso a febbraio di quest’anno, dialogare con Paolo di Paolo alla Biblioteca Nazionale di Roma. In quel periodo, alla Biblioteca, c’era anche la mostra dedicata al lavoro editoriale di Calvino; si chiamava I libri degli altri.

Negli appunti che presi quel giorno, e che chiesi a Citati di firmare prima che lasciasse la sala, scrissi di come mi colpì, appena arrivata, vedere che già sedeva a fianco di Di Paolo e osservava, senza un’espressione particolare, la trentina di persone di fronte a sé.

L’incontro venne introdotto dal Dott. Osvaldo Avallone: «Mi dispiace se ci sono editori in sala, ma questa cosa devo dirla. Calvino non intendeva l’editoria come un fenomeno di marketing, come oggi, piuttosto come un’attività di produzione culturale che doveva lasciare un segno e una presenza».   Partendo da questo, sottolineò la stabilità delle sue scelte editoriali e il suo impegno a garantire una possibilità di accesso all’opera perché questo «per Calvino non era solo un obbligo legale, ma una missione di libertà, un impegno da uomini liberi». 

Calvino e Citati, Di Paolo raccontò, si erano conosciuti intorno ai vent’anni e quando gli chiese come lo ricordasse, Citati, che parlava con la stessa eleganza della sua prosa, descrisse Calvino come «uno scrittore pomeridiano»  e «uno degli uomini più fedeli che abbia mai conosciuto».  Disse anche che tre giorni prima di morire, Calvino era «contentissimo, anche se rimpiangeva di aver passato l’estate a scrivere Lezioni americane perché diceva di non essere un critico». 

«Era un uomo lieto, faceva schizzi, ritratti. Poi invecchiando cambiò molto. Viveva di pensieri, di sensazioni rielaborate. Diventò un grande malinconico». Citati indicò Palomar come un esempio di questo cambiamento: «Palomar è un libro malinconico; non lo è invece Se una notte d’inverno un viaggiatore».  E aggiunse: «Si trasformò anche nei gusti di lettore. Divenne un appassionato di Musil».  

Secondo i dottori, Citati continuò, Calvino sarebbe dovuto morire trentasei anni prima: «Non si rendeva conto di essere così fragile. Aveva bisogno di progettare. Doveva inventare un altro mondo, non poteva continuare a parlare sempre dallo stesso. Era bravissimo nel suo lavoro editoriale, in modo speciale per il risvolto che è un’arte un po’ dubbia, serve a far vendere un libro. Lui sapeva fondere la verità di quello che pensava con il corteggiare il pubblico». 

«Calvino», disse Citati, «era un puro e non amava l’impurità. Amava moltissimo la purezza, e questa era il suo tratto distintivo». 

Le Cosmicomiche non era piaciuto molto a Citati: «Anche se…ora che ci penso, l’ho presentato allo Strega. Era sempre un libro di Calvino!», e parlò di Calvino uomo: «Era molto amato dalle donne. Frequentò Elsa De Giorgi… eh, quello era il periodo delle contesse! Fu un periodo terrificante; lui fuggì senza lasciarle il suo numero! Lei lo seguiva e andava in giro con la pistola. Giulio Einaudi, preoccupato, lo fece sorvegliare dalla polizia. Una volta Italo era in casa con una donna (e si sentì in pericolo), vide la polizia, pensò alla De Giorgi e la fece arrestare. Fu molto difficile tirarla fuori!».  

All’incontro seguirono alcune domande. Io chiesi del rapporto tra Calvino e Pasolini; ero interessata alle loro opinioni controverse sulla società italiana contemporanea. Citati disse: «Erano due autori molto diversi. Non credo che Pasolini capisse Calvino, perché Calvino non aveva passione politica. Però facemmo un viaggio tutti e tre in Persia nel ’72 o ’73. Mi sembrava che Italo non guardasse… era molto distratto».  Ma dopo una piccola pausa disse, contento, che si era sbagliato, che Calvino anni dopo quel viaggio ne fece delle descrizioni dettagliate e allora lui capì che « inconsciamente coglieva tutto, rielaborava tutto nella memoria».  

«Gli anni ’70 non erano anni piacevoli, erano anni fatti di luoghi comuni»,  continuò.

«E il presente?»,  chiese Di Paolo: «Come se lo immagina Calvino a novant’anni? Secondo lei, gli piacerebbe il presente?», «Non piace più a nessuno il presente!» rispose Citati. «Non capisco perché dovrebbe piacere a Calvino».  

Alla fine della conversazione, lo aiutarono a indossare il soprabito verde scuro e lui si allontanò, claudicante e solo, appoggiato al suo bastone, per i corridoi della Biblioteca.

Negli anni seguenti, a una cosa non ho mai smesso di pensare, e negli anni ho continuato a ripeterla agli amici. Soprattutto mi sembra ancora di sentire quella stessa voce, chiara e rassicurante, dire: «Due anni dopo la morte di Italo l’ho sognato. Lui mi diceva che non era morto. Mi diceva che il tragico non è la forma essenziale del mondo».  

“Le favolose” di Roberta Torre. Un docu-film tra fiaba e realtà.

Cinque donne trans, con costumi da bagno colorati e cuffie sgargianti in testa, danzano e ridono, si presentano, con i piedi giocano con l’acqua della piscinetta gonfiabile attorno alla quale sono sedute.

Inizia così Le favolose, docu-film diretto da Roberta Torre, film d’apertura delle Notti Veneziane alle Giornate degli Autori.

Protagoniste della pellicola sono sette amiche trans: Nicole (Di Leo), Porpora (Marcasciano), Sofia (Mehiel), Sandeh (Veet), Mizia (Ciulini), Antonia e Massimina.

Dopo aver trovato una lettera scritta da Antonia poco prima di morire, le favolose si rincontrano nella casa nella quale hanno vissuto assieme anni prima ed organizzano una seduta spiritica per invocare l’amica – e, per sbaglio, chiamano in causa anche Massimina, altra loro amica defunta: in vita o dall’al di là, le protagoniste raccontano pezzi della loro storia, le sofferenze e le gioie di aver scelto la libertà e di aver fatto del loro corpo “un atto politico”.

La pellicola è una poesia cinematografica, un racconto reale e, allo stesso tempo, fiabesco, toccante ed assolutamente mai pietista delle ferite, dei legami e delle lotte delle sette amiche.

Nicole ha capito in maniera definitiva a dieci anni chi era, divenendo improvvisamente adulta; Sofia ha trascorso l’infanzia tra l’orfanotrofio ed un collegio gestito dalle suore; Porpora racconta di essere sopravvissuta anche grazie al sex work, che rivendica come possibilità di autodeterminazione, affermando che “il divertimento della prostituzione era poter gestire il proprio tempo, eravamo libere dal tempo lavoro”; Sandeh, con la voce rotta dal pianto, afferma invece che non le è mai piaciuto prostituirsi; Mizia non sa bene cosa sia l’amore, ma probabilmente l’unica persona che abbia mai amato nella vita è sua figlia; Antonia è stata uccisa due volte: nel momento in cui è stata ammazzata, e nel momento in cui è stata seppellita con abiti da uomo.

Ed è questa la ragione che porta Nicole e Porpora ad organizzare l’incontro e la seduta spiritica con Sofia, Sandeh e Mizia: dare degna sepoltura ad Antonia, restituirle la sua identità, compie e questo atto d’amore, il cui rumore è più forte dei bisbigli e del vociferare che alla veglia per la morte dell’amica graffiavano l’aria.

L’incontro, la narrazione di sé e la messa in comune dei propri vissuti sono atti politici e di cura in grado di rompere il muro di silenzio e di mostrare come la strada per la libertà abbia “un caro prezzo”, ma scateni anche una forza dirompente che permette di unire ed intrecciare legami indissolubili.

Nel ripercorrere le proprie vite, in particolare a partire dalla fine degli anni Settanta, le protagoniste affrontano diverse questioni politiche, dall’identità di genere alla prostituzione, attraverso un intreccio costante di personale e politico, perché, alla fine, è questo quello che hanno fatto delle loro vite: una lotta quotidiana.

E se, come ci mostrano le favolose e come scriveva Angela Davis, la libertà è una lotta costante, questa è raggiungibile solamente tramite un lavoro quotidiano a partire da noi e dai legami che costruiamo.

Oltre ad essere sempre necessarie un’astronave – un armadio pieno di vestiti colorati, tacchi a spillo, piume e brillantini nel caso delle amiche protagoniste – ed un pizzico di magia per trasformarci in quello che vogliamo e desideriamo: perché la rivoluzione sarà favolosa o non sarà.

Il mi(t)o Godard 

Godard si è formato negli anni del dopoguerra, soprattutto sul pensiero esistenzialista, i cui padri fondatori sono Sartre e Camus, due scrittori che per lungo tempo si considerarono l’un l’altro come fratelli.

Ma anche ai fratelli ci sono cose che non possono essere assolutamente perdonate, per esempio la critica della Rivoluzione. Camus aveva osato farlo, e in modo evidente, scrivendo un saggio che diventò uno dei libri cardine della critica marxista: L’Homme révolté. Fra le altre cose, Camus aveva notato: «Il pensiero storico doveva liberare l’uomo dalla soggezione divina; ma questa liberazione esige da lui la più assoluta sottomissione al divenire. Si accorre allora alla sede del partito come ci si gettava ai piedi dell’altare. Per questo l’epoca della maggior rivolta non offre alla nostra scelta nient’altro che conformismi. La vera passione del ventesimo secolo è la servitù». Tanto bastò a Sartre (e Beauvoir) per non rivolgergli mai più la parola. 

Godard, come Sartre, credeva ciecamente nella Rivoluzione e, insieme alla povertà, amava romanticizzarla. Chi subisce un potere, sembra suggerire la loro opera, è sempre puro e degno di ammirazione. Questa visione non derivava soltanto dall’esistenzialismo, ma anche dall’incapacità di liberarsi del tutto di quell’educazione cattolica che cercavano di rigettare. Chi esercita una qualunque forma di potere – proseguono – deve essere disprezzato e combattuto con ogni mezzo. «La révolution n’est pas un dîner de gala» aveva spiegato Mao,  indicando la violenza come strumento necessario». 

A differenza di Sartre, però, Godard non era un filosofo che poteva rifiutare il Premio Nobel; era un aspirante cineasta che voleva trasformare un film in un atto politico, all’interno di un’industria, quella cinematografica, nelle mani della società capitalista. 

Questo suo sogno, sempre rincorso e mai del tutto realizzato, anni dopo portò anche lui alla fine di un lungo rapporto di amicizia, quello con Bernardo Bertolucci. Bertolucci, come Camus, era un marxista critico e non credeva che il progresso implicasse il totale annientamento del passato. Questo, Godard avrebbe dovuto capirlo subito: «Il cinema è un fatto di stile e lo stile è un fatto morale» – faceva dire un giovanissimo Bertolucci a uno dei suoi personaggi in Prima della rivoluzione (1964) – «Ricordati, Fabrizio, non si può mica vivere senza Rossellini!». Godard non solo riteneva che si potesse vivere magnificamente senza Rossellini, ma che fosse un dovere distruggere quell’idea strutturale di cinema: classico, lineare e massiccio (in termini di attrezzature e organizzazione produttiva) ma soprattutto industriale ed estremamente costoso, in una parola: antidemocratico. 

Allo stesso modo disprezzava Hollywood e la cultura consumista e amava una parte del cinema americano, quello che oggi chiameremmo “indipendente” e che in termini monetari lo era purtroppo molto poco. Ma questo fu comunque lo spirito con cui diede vita, assieme a Truffaut, a quella che diventò nota al mondo come nouvelle vague. Questa nuova idea di cinema avrebbe dovuto non solo spezzare la forma e ricominciare, ma anche snellirsi, dimezzare la troupe, le attrezzature e i costi, quindi il capitale, e inventarsi e trasformare gli spazi, insomma imparare a democratizzarsi. «Quando si fa un film, i sogni non bastano» recita una delle ragazze in Le Mépris (1963).

Godard combatteva così fortemente il passato che si manteneva in continua aperta polemica non solo con i film degli altri, ma anche con i suoi. Non potendo rifiutare il Nobel, rifiutava la fama dei suoi stessi capolavori e faceva quanto era in suo potere per screditarli. Ogni suo gesto, ogni sua dichiarazione era plateale e quasi sempre sgarbata, ma in linea con l’unica cosa che gli interessava davvero: il suo punto di vista di intellettuale. 

«Stai sempre sul tuo piedistallo, indifferente agli altri, incapace di dedicare qualche ora disinteressata per aiutare qualcuno. Tra il tuo interesse per le masse e il tuo narcisismo, non c’è posto per niente e per nessuno» gli rimproverava Truffaut. Ma Godard non vedeva nulla di sbagliato in questo; del resto l’aveva detto anche il Partito: il singolo può e deve sacrificarsi per l’interesse comune. Si avvicinò ai movimenti operai e a quelli studenteschi, e nonostante il disprezzo per l’America la visitò per il tour de La Chinoise (1967), dove incontrò i membri delle Black Panthers e gli studenti universitari ai seminari di UCLA, Berkeley, Università del Texas, St. Thomas a Houston, Università del Kansas e NYU. Questi incontri non furono idilliaci: i militanti, che al tempo credevano ciecamente nella violenza come strumento di cambiamento, non riuscivano a spiegarsi come un film avrebbe potuto cambiare la società, e soprattutto perché il suo regista, se voleva fare il rivoluzionario, non passasse all’azione. Godard rispose con il suo solito sarcasmo: «Sono talmente miope» – disse – «che se avessi una pistola probabilmente ucciderei tutti i miei amici».

Godard non amava essere compreso e ammirato perché, a detta sua, il successo lo deprimeva. Dopo il suo primo film, À bout de souffle (1960), dichiarò di essere già un regista stanco e che la sua unica speranza fosse che il secondo film venisse odiato da tutti. In questo fu in parte accontentato, in quanto Le Petit Soldat (1960), un film che parla della guerra d’Algeria, venne censurato e uscì soltanto nel 1963 con un’accoglienza modesta, specialmente perché nel frattempo il pubblico aveva visto Une femme est une femme (1961) e quello che diventò uno dei pilastri del cinema mondiale, Vivre sa vie (1962). 

Godard all’Università della California, Berkeley

Godard sosteneva che non ci fosse alcuna differenza fra il cinema e la vita, infatti i suoi film sono pieni di cose che amava: i ragazzi, le donne, la musica francese ma anche la letteratura, naturalmente la politica, e poi i filosofi (Brice Parain interpreta sé stesso in Vivre sa vie) e gli operai. Le sceneggiature, diceva, non sono così importanti, a patto che la storia includa una ragazza e una pistola. I film di Godard parlano quasi sempre di giovani, perché sono loro a rappresentare il futuro, un futuro irrimediabilmente compromesso dal passato, dal vecchio. I giovani si ritrovano spesso a parlare lungamente, in spazi chiusi e limitati, e allora stava alla camera e alle lenti, quindi all’immaginazione del regista, rendere quel momento interessante e capace di parlare all’occhio dello spettatore. «Ci hanno insegnato che non si fa un primo piano con la lente grandangolare, e non si possono fare carrelli a mano. Perché? Faremo queste cose».

Tutti i film appartenenti al suo primo periodo (1960-1967) sono entrati a far parte dell’immaginario comune, dalla corsa di Jean Seberg nel finale di À bout de souffle, fino agli studenti maoisti che alzano il libro rosso in La chinoise (1967), passando per il broncio di Brigitte Bardot in Le Mépris, a un’altra corsa memorabile, quella nel Louvre di Bande à part (1964), ma soprattutto la danza di Anna Karina in Vivre sa vie. In quest’ultimo fim, il personaggio di Karina, Nana, subito eletta da Godard novella Giovanna d’Arco, è una ragazza finita nel giro della prostituzione che rifiuta sia di cedere al totale controllo della propria personalità da parte del suo magnaccia, sia di cadere nella facile narrazione della vittima.

«Io penso che siamo sempre responsabili e liberi – dice la ragazza all’amica – «alzo la mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. Fumo una sigaretta, sono responsabile. Chiudo gli occhi, sono responsabile. Dimentico di essere responsabile, ma lo sono». Je suis responsable è certamente un’espressione entrata nel dizionario di ogni cinefilo.

Jean Seberg in À bout de soufflé

Anna Karina in Vivre sa vie

«New York Herald Tribune!», grida Jean Seberg in À bout de souffle, passeggiando per gli Champs-Élysées nel ruolo di una studentessa americana (Patricia), mentre vende il famoso quotidiano. «Est-ce que tu m’accompagne à Rome?», mi accompagni a Roma?, le chiede Jean-Paul Belmondo (Michel), seguendola. Anche se Michel è un piccolo criminale che cerca di lasciare la Francia, la sua goliardia, l’immediatezza con cui si fida di Patricia, che dal canto suo prova semplicemente a orientarsi nella vita e nei sentimenti, furono abbastanza per convincere un’intera generazione di ragazzi che quella storia parlasse di loro. Tutto l’esistenzialismo è già in questa opera prima: chi siamo, cosa vogliamo, sotto quale forma, ma soprattutto à quoi faire, per fare cosa, scriverebbe Beauvoir, se nulla ha senso?

In Masculin féminin (1966), Godard rappresentava la gioventù francese, «I figli di Marx e della Coca-Cola» con tutte le sue ambiguità e contraddizioni e in modo più dichiarato: «Oggi a Parigi. Che cosa sognano le ragazze? Ma quali ragazze? Le ispettrici delle catene di montaggio che non hanno tempo di fare l’amore perché sono sfinite dal lavoro? Le estetiste degli Champs-Elysées che iniziano a prostituirsi a diciotto anni nei costosi hotel della Rive Droite? Le studentesse ricche di Boulevard Saint-Germain che conoscono solo Bergson e Sartre perché i genitori le tengono chiuse nei loro appartamenti borghesi? Non esiste la ragazza media francese». E così facendo definiva anche sé stesso: «Il filosofo e il cineasta hanno in comune una certa maniera di essere, una certa maniera di vedere il mondo, che è quella di una generazione».

Ma non c’è gioventù francese senza coscienza politica, così La Chinoise racconta i giovani alla prese con il maoismo e la lotta armata, ma anche con i propri sentimenti perché per Godard non c’è differenza alcuna neanche fra amore e politica. «Mi ami, Guillaume?» – chiede la protagonista, Véronique, al fidanzato che non riesce a capire il concetto maoista di “combattere la lotta su due fronti”, «Perché io ci ho pensato e non ti amo più. Non mi piace più la tua faccia, i tuoi occhi, la tua bocca, il colore dei tuoi maglioni, e poi mi annoi terribilmente. Detesto il modo in cui parli di cose che non conosci. Vedi, per capire devi semplicemente farlo. Musica e linguaggio. Devi combattere la lotta su due fronti».

La Chinoise (1967) 

Godard ha continuato a far evolvere il suo cinema (qualcuno potrebbe dire “in peggio”) come gli pareva, probabilmente consapevole ma non disposto ad ammettere che i suoi film più belli fossero quelli appartenenti a questo primo periodo, che si chiude proprio nel 1967 con Weekend. Così come per Sartre, fu la sua idea politica, la sua filosofia, a decidere non solo che tipo di artista fosse ma anche quale tipo di vita avrebbe condotto; e solo a quell’idea volle dare conto fino alla fine. Il mito Godard nasce proprio da questo rifiuto di cedere al mito, dalla testarda, folle e a suo modo romantica idea che rallegrarsi dei propri successi sia piccino e volgare, e che l’unica cosa seria da fare per il filosofo, per il cineasta, sia ricominciare ogni giorno da capo.

Le mie poesie non cambieranno il mondo

“Sento fisicamente che la poesia è sistemata qua, tra lo stomaco e il cuore, che sale, qua, dietro tra la bocca e il naso, e poi fa tutto un giro, e fa così”: si passa la mano da dietro il capo verso avanti, davanti al viso, col capo tenuto obliquo, poi davanti al naso fa come un’onda. È così che in un filmato di repertorio a colori, dunque recente, forse del 2014 o 2015, descrive o cerca di rappresentare come sorga la poesia, “perché la poesia sorge”, dice in un altro frammento a colori, “la parola ha un potere che non si può spiegare, come si fa a spiegarlo? La parola istituisce il reale”, cioè, riprendo a memoria, le parole fanno esistere le cose, che esistono solo quando acquistano una loro esistenza linguistica: “Cosa c’è di più bello quando sai che una cosa è e non la fai avvenire?”– le cose non contano, non ci sono, anche se sono accadute accadono davvero solo se acquisiscono esistenza linguistica.

Dare forma al mondo reale con la parola era effettivamente il mestiere poetico di Patrizia Cavalli.

Farlo esistere, col suo fondo ambiguo e tutto sommato comico, col suo registro di gioco e avventura.

Ed è proprio ciò che emerge, bene, dal docufilm targato Fandango, approdato a Venezia alla recente Mostra del Cinema (quest’anno 80esima edizione tra una cosa e un’altra, tra sospensioni, interruzioni, pause di guerra, e ritorni) e ora uscito in sala, confezionato in 77 minuti dai neoregisti Francesco Piccolo e Annalena Benini: titolo, Le mie poesie non cambieranno il mondo, come recita una nota raccolta della grande poeta laureata nientemeno che da Elsa Morante. Un tributo d’affetto, oltre che un doveroso documento filmato, per una versificatrice che non ha mai disdegnato il palcoscenico, anzi amava spesso dire i propri versi a memoria: versi resi impervi dalla volontà, ostinata e amorevole, di inanellare frasi poetiche ritmate e in contrappunto con un orecchio musicale che l’ha persino portata a cantare, però lasciando intatta l’ironia tagliente di certa prosa, tra acume e umorismo.

Ad esempio, nel biopic in questione (molto nella vita di Patrizia Cavalli, fin da quando ventenne da Todi venne a Roma per studiare filosofia, hanno contato gli americani, e americana è stata la compagna di una vita, Diane Kelder – professoressa emerita in atenei americani –, e americani sono stati i primi amici romani di Patrizia Cavalli, per cui fu grazie a uno di loro che incontrò Elsa Morante) passa almeno due volte uno stralcio di una lettura tenuta all’Auditorium gremita da almeno duemila ascoltatori: “un pezzo di teatro di successo”, riprendendo una sua proverbiale espressione, in cui Patrizia Cavalli ride di sé e di certe tasche grandi, lunghe, basse per rincorrere le quali con le braccia corte che non arrivano in fondo è costretta a piegarsi profondamente e a guardare al selciato da vicino, il selciato romano, altrettanto proverbialmente sporco, pieno di buche, con i sanpietrini spesso mal posizionati, vere trappole in cui il rischio meno grave è inciampare e sfracellarsi, se non imbrattarsi della sporcizia centenaria che è il tratto più becero della città.

Ridere di sé: un gesto di grandezza magistrale.

Che fa il paio con certe rabbie, con certe aspre maternali a chi tradisce senza nemmeno farsi sfiorare dalla gelosia cieca che per tutta la vita ha amareggiato e dopotutto tenuto desta la stessa Patrizia Cavalli, che ne era viceversa preda facile, e con certe sfrenate passioni, come per il gioco, per esempio. Il gioco che era a un certo punto un vizio, il vizio delle carte: mai giocare per niente, scommettere almeno un centesimo per dare gusto al gioco. Infatti (magistrale quel passaggio) come ci si divezza dal gioco?, chiedono da dietro la macchina da presa i due registi alla poeta, ormai con una rada peluria in testa al posto della ondosa capigliatura anche solo di qualche anno prima: col disgusto, solo col disgusto: “non posso smettere per buona volontà o per ragionamento, d’altronde il disgusto è un sentimento fondamentale per la sopravvivenza, anche per la vita”.

“Io non mi fido di chi non ha l’olfatto”, leggeva Patrizia Cavalli, anzi recitava, in un incontro del 2014, BEVO VIVERE, in cui, circondata da degustatori di vino, molti dei e delle quali erano forse sommelier, aggiungeva (sempre leggendo, anzi, recitando):

“Che meraviglia essere in vita, / ci si può persino lamentare”, o anche:

“Salivo così bene le scale, / possibile che io debba morire?”, e ancora:

“Che cazzo vuole adesso da me questo dolore al petto? / Che faccio: muoio, o resto, e mi lamento?”.

E poi:

 “Dura molto la salita da ubriachi / dura molto perché gira su sé stessa. // È una salita ferma che s’inerpica / e poi ricade / perché è questa la salita da ubriachi. // Dove comunque si dovrebbe andare? / A casa, sì, a casa, ma la casa è una faccenda certa, / perché mai si dovrebbe andare in fretta, / esitando sulle scale, fatte apposta / fatte apposta / perché si possa sempre esitare. // Voi lo capite, la salita / è roba tosta, meglio / invece è circumnavigare: / i primi tre gradini, qui c’è l’anima, il resto sono scale”.

Un incontro che non è incluso nella documentazione raccolta dai due registi, che invece hanno incluso dei materiali di repertorio in bianco e nero, in cui Patrizia Cavalli, giovanissima, appena scoperta dalla Morante, col suo piglio, più che modesto, irriverente, quasi iconoclasta, se non guastatorio, dichiara: “Non so se voglio veramente comunicare delle cose (con la mia poesia, ndr). Sono gli altri che decidono se le cose che io scrivo interessano o no, ma non posso deciderlo io, cioè non è nelle mie intenzioni – il comunicare, è lo scrivere nelle mie intenzioni, ma non il comunicare”.

Un filmato, quest’intervista impertinente, girata negli anni Settanta, dopo che, nel 1974, per Einaudi, era uscito proprio Le mie poesie non cambieranno il mondo, ed uscì anche la prima famosa edizione col bimbo morto in copertina di La Storia di Elsa Morante – che, accogliendola quasi con sdegno in casa, le aveva detto, “Fammele leggere (le tue poesie, ndr), non perché mi interessino come cosa letteraria ma perché voglio vedere come sei fatta”, e così, confessa nel docufilm Patrizia Cavalli, si mise a lavorare a un gruppo di poesie, brevi – per contenere gli errori, che riluttava però a sottoporre, visto che, da lettrice vorace dei romanzi di Morante, “volevo che il suo sguardo si posasse su di me con lo stesso amore con cui si posava sui suoi personaggi”. Dopo sei mesi, gliele sottopose, e Elsa Morante le telefonò: “Sono felice, Patrizia, sei una poeta”: la giovane Cavalli ricorda nell’intervista di essersi sentita “bene al sicuro dentro quel grembo”.

Il ritratto che i due neoregisti ci consegnano, e in cui appaiono solo per alcune veloci sequenze, specie nell’intimità della casa di Patrizia Cavalli nel centro storico, nella sua cucina, nei corridoi e nelle stanze foderate di scaffali pieni di libri (“Ci ho degli amici che mi fregano i libri. Adesso questo che non trovo se lo sarà preso qualcuno. Sempre così”), è tenero e intenso, anche se, come tutti i cineracconti biografici mi pare sviluppi sempre la stessa linea di evoluzione: insistere sulla fase finale (“Voi lo volete fare perché sto morendo”), e orientare tutta la prospettiva, l’angolo visuale, rispetto alla parabola personale, letteraria e intellettuale, tirando soprattutto il filo della malattia e della lenta scomparsa, insomma spingendo sulla pena, su un involontario patetico.

Come i due hanno dichiarato, in realtà lo scopo era anche assicurare un documento che altrimenti sarebbe mancato, DOPO, e ancora di più offrire al pubblico lo spettacolo incomparabile del gusto e dell’abilità di Patrizia Cavalli di “incantare quando parla: è una persona che parla in modo totalmente libero”.

Devo però anche ammettere che (pensando alla sceneggiatura del docufilm, o forse al filo che può averli guidati nel montaggio) i due neoregisti hanno saputo dare un andamento circolare al tutto puntando su due elementi corrispondenti: l’onda della parola che sorge misteriosamente come poesia, cui si accennava all’inizio, e l’andamento ondeggiante, incespicante, malfermo, con cui ormai, specie nell’ultimo periodo, Patrizia Cavalli non poteva che muoversi in modo incerto, instabile, con la paura di cadere, anche quando si faceva i suoi brevi giretti intorno a casa, calcandosi il proverbiale cappello, scelto tra le decine che ne teneva sparsi su un tavolo in una stanza, sulla testa oramai decorata non più dalla fastosa capigliatura ma da una peluria incolta sempre più rada, sempre più stenta.

La scena finale è un tocco magico. Infatti mi ha toccata, personalmente.

Patrizia Cavalli attraversa il passetto (un vero passage ante litteram rispetto ai passages parigini, molto antico e carico di storia ma anche di rifiuti odoracci e residui del passaggio umano) che dalla sua strada porta verso Campo de Fiori: si lascia alle spalle (tuffo al cuore) un portoncino che io molti anni fa ho varcato molte volte per salire al secondo piano ed entrare nella tana in centro storico di Pietro, amico fraterno da tempo scomparso, lì per poco con la sposa americana (tout se tient!, griderebbe qualcuno). Ma il bello viene ora: l’occhio della cinepresa dalla posizione frontale passa dietro il soggetto seguito da vicino, Patrizia Cavalli appunto, che attraversa il passetto ed esce all’aria, salutata dalla luce abbagliante del giorno, che la avvolge scintillante, e la rende malferma, tanto che deve tenersi al muro per non perdere l’equilibrio.

Poco più avanti, dritto poi sinistra, certo c’è Campo de’ Fiori col cinema Farnese, ma veramente a due passi, dritto per poco poi destra, c’è il Paradiso.

Saluto

Mi aspettavi a Porta Maggiore.

Io ero in tram

e sollevavo una mano per salutarti.

Eri talmente lontana

che il piccolo naso della bambina,

in piedi di fronte a me,

bastava a eclissare l’intera piazza 

straripante di persone.

Io però ti vedevo

e sollevavo una mano per salutarti

Fabrizio Sani

La foto di copertina è di Carolina Campanelli

Ritratti di donne che hanno conquistato la Mostra del Cinema di Venezia

La mattina presto al Lido di Venezia soffia un venticello piacevole, una fresca aria settembrina carica dei buoni propositi che ogni inizio porta con sé. Qualche bicicletta sfreccia già, l’odore di dolci invade la via della Palabiennale, la sala dove alle otto del mattino vengono proiettati i film in concorso, dopo l’anteprima serale. Mi affretto, alla Mostra del Cinema sono puntualissimi e non mi piace arrivare a film già iniziato, anche se Monicelli diceva che vederlo dalla metà è la più grande lezione di sceneggiatura. 

Ho visto trenta film in nove giorni: in Concorso, Fuori Concorso, Sezione Orizzonti, Giornate degli Autori, iniziando dalla Palabiennale, passando poi per le sale Darsena, Corinto, Giardino, Casinò, Volpi, fino a concludere nella meravigliosa Sala Grande. Eravamo in centinaia, a volte migliaia, a osservare, in religioso silenzio e attenzione totale, le immagini che, una dopo l’altra, scorrevano davanti ai nostri occhi, fino al buio finale. E allora arrivavano gli applausi, scroscianti, condivisi, prolungati, sempre meritati, per la fatica e la caparbietà di chi realizza un sogno, di chi prova a cambiare la realtà attraverso il cinema. Perché, come ci ha ricordato la sceneggiatrice e regista francese Céline Sciamma durante una Masterclass alle Giornate degli autori, il cinema sì, può ancora cambiare il mondo.

Tutte le pellicole presentate hanno infatti saputo a loro modo cogliere conflitti, umori, sensazioni e malesseri dei nostri tempi: la paura della morte in una società sempre più materialista, il disorientamento di fronte all’imprevedibilità della crisi climatica, il generale senso di inadeguatezza e di perdita di ogni punto di riferimento, l’incomunicabilità generazionale, fino alla depressione giovanile, che il film The son, di Florian Zeller, affronta nel modo più onesto e profondo che esista, rivelando tutta la nostra disarmante impotenza di fronte a un fenomeno buio e spaventoso, che siamo spesso purtroppo incapaci di riconoscere e fronteggiare.

Più di ogni altra cosa, però, molti di questi film hanno saputo raccontare storie di donne, forti e fragili insieme, abusate, maltrattate, derise, ferite, umiliate, negate. E mai come ai nostri giorni, nei quali il tasso di abusi, violenze e femminicidi è terribilmente alto, certe vicende richiedono attenzione e ascolto.

Princess di Roberto De Paolis, presentato nella sezione “Orizzonti”, fotografa la quotidianità di una giovanissima prostituta nigeriana che passa giornate interminabili nella pineta di Castel Fusano, in attesa di clienti che spesso non arrivano, o non pagano, o pagano troppo poco. Avendo avuto la fortuna di lavorare come attrice nell’opera prima di De Paolis, Cuori Puri, presentata nella sezione “Quinzaine des Réalisateurs” al Festival di Cannes nel 2017, so bene come il regista abbia a cuore una resa del reale quanto più fedele e diretta possibile, senza forzature né orpelli estetici. È questo il suo modo di raccontare storie che conosciamo bene, che pervadono la nostra realtà quotidiana, ma che continuiamo ad ignorare: se la ragazza nigeriana seduta accanto a noi sull’autobus sta andando a prostituirsi in qualche luogo periferico della città, noi, infatti, non ce lo chiediamo nemmeno. Princess è una diciottenne che non ha armi per difendersi, sa solo di avere un compito: guadagnare dei soldi, tutto il resto non conta. Finché l’incontro in pineta con un uomo che al sesso a pagamento non sembra interessato affatto, scuote le sue convinzioni e le fa sentire di essere capace di amare, anche se forse non ancora abbastanza forte da smettere di farsi del male.

La storia di due solitudini che si incontrano è anche quella di Beyond the wall di Vahid Jalilvand, un film iraniano incentrato sulle poche ore nelle quali una donna in fuga da un conflitto riesce a nascondersi a casa di un poliziotto che è rimasto cieco, in quello stesso conflitto, poco prima. È una donna disperata, che ha perso di vista il figlio durante lo scontro. Adesso è ricercata, e trova un inaspettato complice in quest’uomo solo che, prima dell’intrusione di lei nel proprio appartamento, era in procinto di suicidarsi. Ora ha anche lui una missione da compiere: salvare una madre, in un paese dove conflitti di quel tipo sono all’ordine del giorno, dove una madre vive il rischio costante di smarrire, per sempre, i propri figli.

Un’altra madre che soffre è poi Banu, protagonista dell’omonima opera prima della giovane regista Tahmina Rafaella, che sembra rifarsi a un certo cinema iraniano recente in grado di sovrapporre abilmente drammi familiari a tensioni sociali, come avviene in “Una separazione” di Asghar Fahradi. Banu è una giovane donna che si batte per evitare che il marito le strappi il figlioletto, sullo sfondo della guerra tra Armenia ed Azerbaigian per la regione di confine del Nagorno-Karabakh, contesa fin dai tempi della dissoluzione dell’Unione Sovietica. È questo conflitto nazionale a fare da eco a quello tra Banu e il violento e subdolo marito Javid per l’affidamento del piccolo Ruslan, mentre tante donne azere continuano a perdere i loro figli a causa della violenza della guerra, che il racconto disprezza attraverso la messa in ridicolo di ogni tipo di patriottismo.

Quella della protagonista de Les enfants des autres, di Rebecca Zlotowski, è invece la realtà di una non-madre, una donna che si affeziona sempre di più alla figlia del suo compagno, che però resta sempre, inevitabilmente, figlia “di altri”. È un racconto delicato, dei piccoli malumori e delle amarezze quotidiane di una donna con un desiderio di maternità inappagato. Si può davvero essere madri di figli non propri? Forse no, però si può essere una luce, una mano tesa, un riferimento, a volte più di quanto non lo siano i genitori biologici. E può, questo, bastare davvero? Forse sì, o almeno così ci induce a credere la regista.

E poi, in concorso, c’è la storia di una madre che il proprio figlio lo perde, in un incidente domestico, per una stupida distrazione. Love life del regista giapponese Kôji Fukada, affronta il dolore di una giovane donna che, come unica espiazione del proprio senso di colpa e del dolore di madre rimasta orfana di figlio, trova la possibilità di aiutare il padre di quel bambino dal quale era ormai lontana da anni: un uomo sordo, solo, indifeso, emarginato. Il recupero di quel rapporto mette in crisi la sua attuale relazione, ma aiutare il padre del figlio ormai perso per sempre diventa l’unica causa per la quale crede che valga ancora la pena lottare.

Infine, tre intensissime storie vere: quella della sindacalista francese Maureen Kearney, interpretata da Isabelle Huppert ne La syndacaliste di Jean-Paul Salomé; la travagliata esistenza di Marilyn Monroe, fatta splendidamente rivivere dall’attrice cubana Ana De Armas, in Blonde di Andrew Dominiq; la vicenda biografica della fotografa americana Nan Goldin, nell’unico film documentario in concorso, All the beauty and the bloodshed, di Laura Poitras, capace di impiegare il documentario come grande prova di indignazione, dal forte valore politico.

Ne La syndacaliste, la sindacalista dei lavoratori di Areva, multinazionale del nucleare, scopre uno scandalo che coinvolge la sua società, trasformando così, suo malgrado, la propria vita in un incubo: pressioni, minacce, fino a uno stupro, che viene addirittura accusata di aver inscenato per attirare l’attenzione, vittima di un presunto disturbo psichiatrico. Da quel momento per Maureen, donna caparbia e volitiva, diventa essenziale dimostrare la propria innocenza, anche quando sembra totalmente intrappolata all’interno di quelle violente dinamiche del potere maschile per le quali, in fondo, in un atto di stupro, una segreta colpa femminile esiste sempre. 

Preda di quelle stesse dinamiche è stata, fin dalla nascita, Marilyn Monroe, di cui il regista dipinge un ritratto inedito rivelandocela in tutta la sua fragilità, fin dalle prime immagini di una bambina che non ha mai ricevuto amore, Norma Jeane . Il racconto è infatti una lotta tra Marilyn, il personaggio creato e osannato, e Norma, la vera Marilyn, una ragazza sola, esposta, ingenua, che rimane per tutta la vita la bambina indifesa che è stata. In una Hollywood spietata che sa come creare dive ma anche come distruggerle, Marilyn non ha gli strumenti per opporsi alla violenza, alla sopraffazione, alle subdole manipolazioni. Non ha il potere di decidere di non abortire, di rifiutare un film, di chiedere un compenso maggiore, di ritirarsi. È vittima di un mondo totalmente maschilista che la considera solo un pezzo di carne da portare a letto e una macchina da guadagno da spremere fino all’ultimo centesimo. Marilyn, e Norma con lei, subisce abusi ai provini, sui set, alle feste, ma viene anche presa a cinghiate dal suo secondo marito, l’eroe del baseball Joe DiMaggio, perché appare nuda su riviste patinate e continua ad interpretare ruoli che lui non gradisce. Finché, quando è ormai già entrata nell’irreversibile tunnel dell’autodistruzione, viene portata di forza nella stanza del leader del mondo libero, il presidente USA John Fitzgerald Kennedy, che masturba meccanicamente mentre lui è impegnato in una telefonata di lavoro. 

Il racconto, che alterna il colore a un cupo bianco e nero, ci conduce così per mano nei meandri della fragilissima anima di Norma, la cui voce resta però, per tutta la vita, purtroppo inascoltata.

All the Beauty and the Bloodshed, infine, intreccia il reportage della battaglia della fotografa Nan Goldin contro la famiglia Sackler, proprietaria di una casa farmaceutica responsabile della morte di centinaia di migliaia di morti per dipendenza da ossicodone, a quello della sua vita, attraverso un puntuale e intenso biopic d’archivio di un’artista femminista, provocatrice, profondamente libera e civilmente impegnata. Goldin rivive insieme a noi, in voice off, i traumi della sua vita, a partire dal suicidio della giovanissima sorella, alla dipendenza da droghe, fino ad arrivare alle numerose relazioni tossiche e violente e alla perdita di tanti amici a causa dell’AIDS. Sarebbe stato facile consegnare tutto ciò all’oblio, ma la fotografia è stata invece per lei un miracoloso antidoto alla rimozione, una via verso la salvezza. 

Ce lo confermano i suoi occhi increduli e pieni di lacrime quando, al termine della proiezione, si accendono le luci in sala. L’abbraccio tra lei e la regista è carico di gratitudine e speranza, quella speranza che il cinema, possa, in qualche modo, davvero cambiare le cose, e la vita di tante donne per le quali deve esserci ancora una possibilità.

La foto di copertina è del film All the Beauty and the Bloodshed.

La fonte delle foto: https://www.labiennale.org/it/cinema/2022

“Margini”: la storia punk che vi aspetta al cinema

Margini è un piccolo capolavoro del cinema italiano contemporaneo.

È stato presentato a Venezia in occasione della 37esima edizione della Settimana Internazionale della Critica (SIC), a fianco di altri 6 lungometraggi provenienti da Colombia, Francia, Svezia, Austria, Serbia e Germania. Un invito inaspettato, “un fulmine emotivo”, come l’ha definito Niccolò Falsetti, regista e co-sceneggiatore.

«Abbiamo iniziato a scrivere in una cameretta di via Trapani ormai tanto tempo fa  e ora siamo qui a presentarlo a Venezia» ha raccontato emozionato Francesco Turbanti, interprete (aka Michele) e co-sceneggiatore insieme a Falsetti e Tommaso Renzoni.

Noi di Tre Sequenze eravamo lì, alla Sala Perla del Palazzo del Casinò, attorniati da giornalisti e cinefili che hanno accolto il film in sala con una meritatissima standing ovation.

Margini è la storia di un’amicizia, di un viaggio, di un sogno impossibile. Tre ingredienti di prima qualità – o tre sequenze – per un road movie che ti tiene già incollato alla poltrona. Edoardo (Emanuele Linfatti), Michele (Francesco Turbanti) e Iacopo (Matteo Creatini) sono tre ragazzi, non proprio coetanei ma comunque giovani, animati dallo stesso sentimento di rivalsa di una gioventù abituata a starsene nella propria bolla di provincia, con conseguente e inevitabile aspirazione di fuga.

È proprio lei, la provincia, la vera protagonista di questa commedia punk sincera, energica e vitale. La provincia di Grosseto, e in generale la Maremma Toscana, distante da tutto: due ore da Roma, due ore da Firenze, due ore da Pisa. Il motore della vicenda è la salda amicizia dei tre, la benzina è la musica, la frizione la loro giovinezza, il freno le loro tasche vuote. Destinazione: qualsiasi concerto in cui poter far ascoltare la loro musica. Ma finora sono sempre stati loro a doversi muovere per andare a raggiungere i loro sogni di gloria, oltrepassando i margini.

Foto di Francesco Rossi

Settembre 2008. Stanchi di suonare il loro punk hardcore o street punk (difficile spiegare ai vecchietti delle feste dell’Unità che tipo di musica fanno) nei soliti posti sgangherati dove per provare ti dicono di abbassare il volume (le pareti sono insonorizzate con le scatole delle uova) e dove per farti prestare l’attrezzatura per l’impianto devi praticamente vendere un rene, a Miche, Edo e Iac si presenta finalmente l’occasione della vita. E non gli arriva dal cielo, se la vanno a cercare: dovrebbero aprire un concerto all’Estragon di Bologna della mitica band americana Defense, in tour in Europa, ma all’ultimo viene tutto annullato. 

Tentano una follia: chiamano il manager dei Defense e gli propongono di farli suonare a Grosseto. «I Defense a Grosseto, ma ci pensi?! Perché dobbiamo sempre essere noi a spostarci, facciamo per una volta che siano gli altri a venire da noi!». E così succede. Si improvvisano organizzatori. Parte una trafila di eccitazione e speranza per la ricerca spasmodica di un posto dove suonare, l’attrezzatura da affittare. Ma anche i biglietti dell’aereo. Sì perché i Defense partirebbero da Mosca e il biglietto per arrivare in Toscana chi glielo paga? Troppi ostacoli si frappongono tra loro e gli americani, e realizzare il concerto diventa un’ossessione, una questione di vita o di morte, un’impresa da portare a termine, un grido politico.

«Vogliamo solo fare un concerto e lo vogliamo far per bene. Punto».

I paradossi della provincia si scontrano con le manie di grandezza dei musicisti e i modi rudi per ottenere ciò che vogliono fanno da contraltare alla dolcezza dei loro legami famigliari. Ma rompere i margini significa mettere in discussione anche questi legami e fare i conti con il proprio dovere di figlio, figlioccio e padre. Fino a mettere in discussione persino la loro amicizia. E paradossale è quanto quello che ti rimanga del film sia il viaggio, i nostri eroi sull’automobile, con l’audiocassetta dei Defense a tutto volume, a bordo batteria, chitarre elettriche e la voglia di spaccare. Come se dovessero andare chissà dove e invece restano sempre lì, ai margini. Forse perché i margini non sono quelli fisici, ma quelli affettivi, culturali, ideali.

La voglia di farcela. 

E ce la faranno, a modo loro: «Abbiamo portato i Defense a Grosseto», realizzano a un certo punto Edo e Miche, appena usciti dalla questura dove sono finiti dopo aver fatto carte false.  Iac, invece, dopo l’altra occasione della vita – quella di suonare il violoncello nell’orchestra di Barenboim – dovrà decidere se prendere o no quel treno per l’aeroporto di Pisa, dove lo aspetta il celebre direttore d’orchestra argentino. 

Il film è prodotto da Dispàrte, Manetti Bros e Rai Cinema. Le musiche sono di Alessandro Pieravanti e Giancane. Prezioso anche il contributo di Zerocalcare che, oltre ad aver realizzato le illustrazioni, è anche protagonista di un cameo vocale. 

I costumi sono di Ginevra de Carolis, storica collaboratrice della famiglia Manetti Bros, di cui Falsetti è stato per tanti anni seconda unità. Tra gli interpreti anche Valentina Carnelutti, Silvia d’Amico, Nicola Lignanese, Paolo Cioni, Aurora Malianni.

La collaborazione Zerocalcare – Giancane ci rimanda subito alla serie Strappare lungo i bordi, approdata su Netflix quasi un anno fa. Quei bordi che ci rimandano al disagio provato da parte di un’intera generazione, che si ritrova a sperimentare un senso di vuoto causato dalla perdita di certezze e di punti di riferimento. Ecco, quei bordi sono il nostro varco, quello che non dovremmo avere paura di affrontare: i nostri margini.

Foto di Francesco Rossi

Dall’8 settembre al cinema

“White noise”o di come Baumbach ha conquistato Venezia

Dopo Marriage Story il regista americano Noah Baumbach torna a dirigere Adam Driver e il risultato è, ancora una volta, sorprendente. White Noise, scelto come film di apertura della 79edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è l’adattamento dell’omonimo romanzo di De Lillo, lo scrittore che più di tutti ha saputo raccontare il fallimento del sogno americano.

Dalla prima scena siamo già immersi nella vita di Jack Gladney, professore universitario che gode di grande prestigio grazie ai suoi studi sulla figura di Adolf Hitler, sul quale sta per organizzare un convegno a cui prenderanno parte studiosi da tutto il mondo. È in funzione di questo evento che il tempo sembra dispiegarsi, come se rappresentasse una svolta per il protagonista, il punto di arrivo di una vita dedicata alla ricerca, che ora finalmente non solo i suoi colleghi ma tutto il mondo accademico è pronto a riconoscergli. Le sue lezioni, grazie al suo carisma e alla sua teatralità, sono dei veri e propri happening. La sua famiglia lo adora, dimostrandogli sempre grande affetto e stima. È infatti quello che si definirebbe un buon padre. È innamoratissimo della moglie, Babette, e lei lo è di lui. Cos’altro può desiderare?

Una sera, però, prima di addormentarsi i due si confidano. Sì, Babette e Jack sono una di quelle coppie che ama raccontarsi continuamente e che non sopporta l’idea di avere segreti. Entrambi hanno paura di perdersi, temono che l’altro possa morire per primo. A Babette l’esistenza senza Jack appare come una voragine spaventosa, a Jack un vero e proprio abisso. Eppure, quando li vediamo spingere un carrello al supermercato, circondati da merce sfavillante che chiede solo di essere comprata promettendo in cambio un’assoluta felicità, per un momento dimentichiamo quella paura. Morire non sembra neanche lontanamente possibile tra quelle confezioni colorate e quei prodotti che ricordano per la loro perfezione i quadri di Andy Warhol, in cui l’oggetto del consumo è esaltato in tutto il suo potere estetico. 

È ciò che Baumbach ricrea perfettamente in questo film e ciò che De Lillo esprime così: 

Mi parve che Babette e io, nella massa e varietà dei nostri acquisti, nella grassa abbondanza suggerita da quei sacchetti – il peso, le dimensioni e il numero, i disegni familiari delle confezioni e la vivacità dei caratteri, le scatole giganti, i formati famiglia con il contrassegno fosforescente dell’offerta speciale – nonché nella sensazione che provavamo di esserci riempiti di scorte – il senso di benessere, la sicurezza e l’appagamento che quei prodotti apportavano a una sorta di casetta annidata nel nostro intimo -, mi parve, dicevo, che avessimo conseguito una pienezza dell’essere che doveva risultare ignota a coloro che hanno bisogno di meno, si aspettano di meno, incentrano tutta la loro vita su solitarie passeggiate serali.

Quella pienezza dell’essere che Jack crede di aver raggiunto attraverso un benessere che tanto lo rassicura, si rivela soltanto un’illusione. Non solo i beni materiali non possono frenare la morte, né la sua né quella di Babette, ma finiscono per svelarne l’ineluttabilità. Proprio come una qualsiasi confezione di biscotti, anche Jack andrà incontro, con il tempo, al deterioramento.

Baumbach è capace più di ogni altro regista nel mostrare come i cambiamenti, soprattutto nei rapporti umani, siano sempre il risultato di un lungo processo. Quelle che all’inizio possono sembrare apparenti e insignificanti microfratture, leggeri cedimenti, si rivelano il preludio di un’inevitabile catastrofe. Ed è così che, mentre Jack è impegnato all’università nel tenere una lezione su come Hitler sia stato capace di incantare le masse, un camionista ubriaco che trasporta materiale infiammabile colpisce in pieno un treno carico di liquidi tossici. L’esplosione è immediata e in poche ore una nube ha già coperto la città, minacciando l’esistenza di Jack e della sua famiglia.

È una corsa contro il tempo, un disperato tentativo collettivo di sopravvivenza. Babette e Jack questa volta saranno costretti a fare davvero i conti con quella paura che, proprio come la nube tossica, minaccia le loro vite. E sarà proprio svuotando un secchio pieno di rifiuti – gli stessi che fino a poco tempo prima in tutta la loro bellezza e promessa di salvezza occupavano gli scaffali di un supermercato – che Jack scoprirà il punto di rottura, la frattura da cui bisogna ripartire per tenere unita, ancora una volta, la sua famiglia.