Ritratti di donne che hanno conquistato la Mostra del Cinema di Venezia

La mattina presto al Lido di Venezia soffia un venticello piacevole, una fresca aria settembrina carica dei buoni propositi che ogni inizio porta con sé. Qualche bicicletta sfreccia già, l’odore di dolci invade la via della Palabiennale, la sala dove alle otto del mattino vengono proiettati i film in concorso, dopo l’anteprima serale. Mi affretto, alla Mostra del Cinema sono puntualissimi e non mi piace arrivare a film già iniziato, anche se Monicelli diceva che vederlo dalla metà è la più grande lezione di sceneggiatura. 

Ho visto trenta film in nove giorni: in Concorso, Fuori Concorso, Sezione Orizzonti, Giornate degli Autori, iniziando dalla Palabiennale, passando poi per le sale Darsena, Corinto, Giardino, Casinò, Volpi, fino a concludere nella meravigliosa Sala Grande. Eravamo in centinaia, a volte migliaia, a osservare, in religioso silenzio e attenzione totale, le immagini che, una dopo l’altra, scorrevano davanti ai nostri occhi, fino al buio finale. E allora arrivavano gli applausi, scroscianti, condivisi, prolungati, sempre meritati, per la fatica e la caparbietà di chi realizza un sogno, di chi prova a cambiare la realtà attraverso il cinema. Perché, come ci ha ricordato la sceneggiatrice e regista francese Céline Sciamma durante una Masterclass alle Giornate degli autori, il cinema sì, può ancora cambiare il mondo.

Tutte le pellicole presentate hanno infatti saputo a loro modo cogliere conflitti, umori, sensazioni e malesseri dei nostri tempi: la paura della morte in una società sempre più materialista, il disorientamento di fronte all’imprevedibilità della crisi climatica, il generale senso di inadeguatezza e di perdita di ogni punto di riferimento, l’incomunicabilità generazionale, fino alla depressione giovanile, che il film The son, di Florian Zeller, affronta nel modo più onesto e profondo che esista, rivelando tutta la nostra disarmante impotenza di fronte a un fenomeno buio e spaventoso, che siamo spesso purtroppo incapaci di riconoscere e fronteggiare.

Più di ogni altra cosa, però, molti di questi film hanno saputo raccontare storie di donne, forti e fragili insieme, abusate, maltrattate, derise, ferite, umiliate, negate. E mai come ai nostri giorni, nei quali il tasso di abusi, violenze e femminicidi è terribilmente alto, certe vicende richiedono attenzione e ascolto.

Princess di Roberto De Paolis, presentato nella sezione “Orizzonti”, fotografa la quotidianità di una giovanissima prostituta nigeriana che passa giornate interminabili nella pineta di Castel Fusano, in attesa di clienti che spesso non arrivano, o non pagano, o pagano troppo poco. Avendo avuto la fortuna di lavorare come attrice nell’opera prima di De Paolis, Cuori Puri, presentata nella sezione “Quinzaine des Réalisateurs” al Festival di Cannes nel 2017, so bene come il regista abbia a cuore una resa del reale quanto più fedele e diretta possibile, senza forzature né orpelli estetici. È questo il suo modo di raccontare storie che conosciamo bene, che pervadono la nostra realtà quotidiana, ma che continuiamo ad ignorare: se la ragazza nigeriana seduta accanto a noi sull’autobus sta andando a prostituirsi in qualche luogo periferico della città, noi, infatti, non ce lo chiediamo nemmeno. Princess è una diciottenne che non ha armi per difendersi, sa solo di avere un compito: guadagnare dei soldi, tutto il resto non conta. Finché l’incontro in pineta con un uomo che al sesso a pagamento non sembra interessato affatto, scuote le sue convinzioni e le fa sentire di essere capace di amare, anche se forse non ancora abbastanza forte da smettere di farsi del male.

La storia di due solitudini che si incontrano è anche quella di Beyond the wall di Vahid Jalilvand, un film iraniano incentrato sulle poche ore nelle quali una donna in fuga da un conflitto riesce a nascondersi a casa di un poliziotto che è rimasto cieco, in quello stesso conflitto, poco prima. È una donna disperata, che ha perso di vista il figlio durante lo scontro. Adesso è ricercata, e trova un inaspettato complice in quest’uomo solo che, prima dell’intrusione di lei nel proprio appartamento, era in procinto di suicidarsi. Ora ha anche lui una missione da compiere: salvare una madre, in un paese dove conflitti di quel tipo sono all’ordine del giorno, dove una madre vive il rischio costante di smarrire, per sempre, i propri figli.

Un’altra madre che soffre è poi Banu, protagonista dell’omonima opera prima della giovane regista Tahmina Rafaella, che sembra rifarsi a un certo cinema iraniano recente in grado di sovrapporre abilmente drammi familiari a tensioni sociali, come avviene in “Una separazione” di Asghar Fahradi. Banu è una giovane donna che si batte per evitare che il marito le strappi il figlioletto, sullo sfondo della guerra tra Armenia ed Azerbaigian per la regione di confine del Nagorno-Karabakh, contesa fin dai tempi della dissoluzione dell’Unione Sovietica. È questo conflitto nazionale a fare da eco a quello tra Banu e il violento e subdolo marito Javid per l’affidamento del piccolo Ruslan, mentre tante donne azere continuano a perdere i loro figli a causa della violenza della guerra, che il racconto disprezza attraverso la messa in ridicolo di ogni tipo di patriottismo.

Quella della protagonista de Les enfants des autres, di Rebecca Zlotowski, è invece la realtà di una non-madre, una donna che si affeziona sempre di più alla figlia del suo compagno, che però resta sempre, inevitabilmente, figlia “di altri”. È un racconto delicato, dei piccoli malumori e delle amarezze quotidiane di una donna con un desiderio di maternità inappagato. Si può davvero essere madri di figli non propri? Forse no, però si può essere una luce, una mano tesa, un riferimento, a volte più di quanto non lo siano i genitori biologici. E può, questo, bastare davvero? Forse sì, o almeno così ci induce a credere la regista.

E poi, in concorso, c’è la storia di una madre che il proprio figlio lo perde, in un incidente domestico, per una stupida distrazione. Love life del regista giapponese Kôji Fukada, affronta il dolore di una giovane donna che, come unica espiazione del proprio senso di colpa e del dolore di madre rimasta orfana di figlio, trova la possibilità di aiutare il padre di quel bambino dal quale era ormai lontana da anni: un uomo sordo, solo, indifeso, emarginato. Il recupero di quel rapporto mette in crisi la sua attuale relazione, ma aiutare il padre del figlio ormai perso per sempre diventa l’unica causa per la quale crede che valga ancora la pena lottare.

Infine, tre intensissime storie vere: quella della sindacalista francese Maureen Kearney, interpretata da Isabelle Huppert ne La syndacaliste di Jean-Paul Salomé; la travagliata esistenza di Marilyn Monroe, fatta splendidamente rivivere dall’attrice cubana Ana De Armas, in Blonde di Andrew Dominiq; la vicenda biografica della fotografa americana Nan Goldin, nell’unico film documentario in concorso, All the beauty and the bloodshed, di Laura Poitras, capace di impiegare il documentario come grande prova di indignazione, dal forte valore politico.

Ne La syndacaliste, la sindacalista dei lavoratori di Areva, multinazionale del nucleare, scopre uno scandalo che coinvolge la sua società, trasformando così, suo malgrado, la propria vita in un incubo: pressioni, minacce, fino a uno stupro, che viene addirittura accusata di aver inscenato per attirare l’attenzione, vittima di un presunto disturbo psichiatrico. Da quel momento per Maureen, donna caparbia e volitiva, diventa essenziale dimostrare la propria innocenza, anche quando sembra totalmente intrappolata all’interno di quelle violente dinamiche del potere maschile per le quali, in fondo, in un atto di stupro, una segreta colpa femminile esiste sempre. 

Preda di quelle stesse dinamiche è stata, fin dalla nascita, Marilyn Monroe, di cui il regista dipinge un ritratto inedito rivelandocela in tutta la sua fragilità, fin dalle prime immagini di una bambina che non ha mai ricevuto amore, Norma Jeane . Il racconto è infatti una lotta tra Marilyn, il personaggio creato e osannato, e Norma, la vera Marilyn, una ragazza sola, esposta, ingenua, che rimane per tutta la vita la bambina indifesa che è stata. In una Hollywood spietata che sa come creare dive ma anche come distruggerle, Marilyn non ha gli strumenti per opporsi alla violenza, alla sopraffazione, alle subdole manipolazioni. Non ha il potere di decidere di non abortire, di rifiutare un film, di chiedere un compenso maggiore, di ritirarsi. È vittima di un mondo totalmente maschilista che la considera solo un pezzo di carne da portare a letto e una macchina da guadagno da spremere fino all’ultimo centesimo. Marilyn, e Norma con lei, subisce abusi ai provini, sui set, alle feste, ma viene anche presa a cinghiate dal suo secondo marito, l’eroe del baseball Joe DiMaggio, perché appare nuda su riviste patinate e continua ad interpretare ruoli che lui non gradisce. Finché, quando è ormai già entrata nell’irreversibile tunnel dell’autodistruzione, viene portata di forza nella stanza del leader del mondo libero, il presidente USA John Fitzgerald Kennedy, che masturba meccanicamente mentre lui è impegnato in una telefonata di lavoro. 

Il racconto, che alterna il colore a un cupo bianco e nero, ci conduce così per mano nei meandri della fragilissima anima di Norma, la cui voce resta però, per tutta la vita, purtroppo inascoltata.

All the Beauty and the Bloodshed, infine, intreccia il reportage della battaglia della fotografa Nan Goldin contro la famiglia Sackler, proprietaria di una casa farmaceutica responsabile della morte di centinaia di migliaia di morti per dipendenza da ossicodone, a quello della sua vita, attraverso un puntuale e intenso biopic d’archivio di un’artista femminista, provocatrice, profondamente libera e civilmente impegnata. Goldin rivive insieme a noi, in voice off, i traumi della sua vita, a partire dal suicidio della giovanissima sorella, alla dipendenza da droghe, fino ad arrivare alle numerose relazioni tossiche e violente e alla perdita di tanti amici a causa dell’AIDS. Sarebbe stato facile consegnare tutto ciò all’oblio, ma la fotografia è stata invece per lei un miracoloso antidoto alla rimozione, una via verso la salvezza. 

Ce lo confermano i suoi occhi increduli e pieni di lacrime quando, al termine della proiezione, si accendono le luci in sala. L’abbraccio tra lei e la regista è carico di gratitudine e speranza, quella speranza che il cinema, possa, in qualche modo, davvero cambiare le cose, e la vita di tante donne per le quali deve esserci ancora una possibilità.

La foto di copertina è del film All the Beauty and the Bloodshed.

La fonte delle foto: https://www.labiennale.org/it/cinema/2022

Pubblicato da Isabella Delle Monache

Isabella Delle Monache, classe 1994, nata a Città della Pieve, cresciuta a Latina, attualmente vive a Roma. Si laurea in Lingue e Civiltà Orientali all'Università La Sapienza e si diploma in recitazione presso la scuola Teatro Azione, prendendo poi parte come attrice a diverse produzioni cinematografiche. Dopo essere stata ammessa alla Scuola di Sceneggiatura dell'ANAC “Leo Benvenuti”, si appassiona enormemente al racconto cinematografico e attualmente frequenta il Master in Drammaturgia e Sceneggiatura dell’Accademia d'Arte Drammatica Silvio d'Amico. Scrive da sempre poesie e racconti. Ha viaggiato tanto e tutto ciò che ha visto o anche solo immaginato nei diversi luoghi del mondo continua a ronzarle in testa finché non trova forma nelle sue parole.

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