Nel dicembre del 2013, in occasione dei novant’anni di Italo Calvino, fui fortunata abbastanza da poter ascoltare Pietro Citati, scomparso a febbraio di quest’anno, dialogare con Paolo di Paolo alla Biblioteca Nazionale di Roma. In quel periodo, alla Biblioteca, c’era anche la mostra dedicata al lavoro editoriale di Calvino; si chiamava I libri degli altri.
Negli appunti che presi quel giorno, e che chiesi a Citati di firmare prima che lasciasse la sala, scrissi di come mi colpì, appena arrivata, vedere che già sedeva a fianco di Di Paolo e osservava, senza un’espressione particolare, la trentina di persone di fronte a sé.
L’incontro venne introdotto dal Dott. Osvaldo Avallone: «Mi dispiace se ci sono editori in sala, ma questa cosa devo dirla. Calvino non intendeva l’editoria come un fenomeno di marketing, come oggi, piuttosto come un’attività di produzione culturale che doveva lasciare un segno e una presenza». Partendo da questo, sottolineò la stabilità delle sue scelte editoriali e il suo impegno a garantire una possibilità di accesso all’opera perché questo «per Calvino non era solo un obbligo legale, ma una missione di libertà, un impegno da uomini liberi».
Calvino e Citati, Di Paolo raccontò, si erano conosciuti intorno ai vent’anni e quando gli chiese come lo ricordasse, Citati, che parlava con la stessa eleganza della sua prosa, descrisse Calvino come «uno scrittore pomeridiano» e «uno degli uomini più fedeli che abbia mai conosciuto». Disse anche che tre giorni prima di morire, Calvino era «contentissimo, anche se rimpiangeva di aver passato l’estate a scrivere Lezioni americane perché diceva di non essere un critico».
«Era un uomo lieto, faceva schizzi, ritratti. Poi invecchiando cambiò molto. Viveva di pensieri, di sensazioni rielaborate. Diventò un grande malinconico». Citati indicò Palomar come un esempio di questo cambiamento: «Palomar è un libro malinconico; non lo è invece Se una notte d’inverno un viaggiatore». E aggiunse: «Si trasformò anche nei gusti di lettore. Divenne un appassionato di Musil».
Secondo i dottori, Citati continuò, Calvino sarebbe dovuto morire trentasei anni prima: «Non si rendeva conto di essere così fragile. Aveva bisogno di progettare. Doveva inventare un altro mondo, non poteva continuare a parlare sempre dallo stesso. Era bravissimo nel suo lavoro editoriale, in modo speciale per il risvolto che è un’arte un po’ dubbia, serve a far vendere un libro. Lui sapeva fondere la verità di quello che pensava con il corteggiare il pubblico».
«Calvino», disse Citati, «era un puro e non amava l’impurità. Amava moltissimo la purezza, e questa era il suo tratto distintivo».
Le Cosmicomiche non era piaciuto molto a Citati: «Anche se…ora che ci penso, l’ho presentato allo Strega. Era sempre un libro di Calvino!», e parlò di Calvino uomo: «Era molto amato dalle donne. Frequentò Elsa De Giorgi… eh, quello era il periodo delle contesse! Fu un periodo terrificante; lui fuggì senza lasciarle il suo numero! Lei lo seguiva e andava in giro con la pistola. Giulio Einaudi, preoccupato, lo fece sorvegliare dalla polizia. Una volta Italo era in casa con una donna (e si sentì in pericolo), vide la polizia, pensò alla De Giorgi e la fece arrestare. Fu molto difficile tirarla fuori!».
All’incontro seguirono alcune domande. Io chiesi del rapporto tra Calvino e Pasolini; ero interessata alle loro opinioni controverse sulla società italiana contemporanea. Citati disse: «Erano due autori molto diversi. Non credo che Pasolini capisse Calvino, perché Calvino non aveva passione politica. Però facemmo un viaggio tutti e tre in Persia nel ’72 o ’73. Mi sembrava che Italo non guardasse… era molto distratto». Ma dopo una piccola pausa disse, contento, che si era sbagliato, che Calvino anni dopo quel viaggio ne fece delle descrizioni dettagliate e allora lui capì che « inconsciamente coglieva tutto, rielaborava tutto nella memoria».
«Gli anni ’70 non erano anni piacevoli, erano anni fatti di luoghi comuni», continuò.
«E il presente?», chiese Di Paolo: «Come se lo immagina Calvino a novant’anni? Secondo lei, gli piacerebbe il presente?», «Non piace più a nessuno il presente!» rispose Citati. «Non capisco perché dovrebbe piacere a Calvino».
Alla fine della conversazione, lo aiutarono a indossare il soprabito verde scuro e lui si allontanò, claudicante e solo, appoggiato al suo bastone, per i corridoi della Biblioteca.
Negli anni seguenti, a una cosa non ho mai smesso di pensare, e negli anni ho continuato a ripeterla agli amici. Soprattutto mi sembra ancora di sentire quella stessa voce, chiara e rassicurante, dire: «Due anni dopo la morte di Italo l’ho sognato. Lui mi diceva che non era morto. Mi diceva che il tragico non è la forma essenziale del mondo».