Post in evidenza

Una domenica al Mattatoio con Gioia Salvatori, Giovanni Truppi e Daniele Parisi ma senza litigare

Ci sono persone che da sempre detestano la domenica. Persone che se potessero la cancellerebbero direttamente dal calendario. Così, di colpo, via. Che poi, se davvero riuscissero in questa impresa, finirebbero per trasformare anche il sabato, che prenderebbe il suo posto, nel giorno peggiore della settimana. Perché è questo che non sopportano quelli che odiano la domenica: il suo precedere l’inizio, il suo essere sulla soglia, il suo scivolare lentamente e pigramente nel lunedì, costringendoci così a ricominciare sempre, anche quando non ci sentiamo affatto pronti.

La domenica, sentinella davanti alla porta degli impegni e delle responsabilità, conserva anche in sé tutti gli umori e le sensazioni dei giorni che la precedono, come quella sedia su cui svogliatamente appoggiamo i vestiti fino a farla scomparire. La domenica sei costretto a metterli a posto, a riporli nell’armadio. E così anche i ricordi. Perché riaffiorano di più, come se ogni domenica contenesse in sé tutte le altre, quelle che l’hanno preceduta, quelle che ormai non ci appartengono più. È per questo che ci si appiglia con così tanta forza alla malinconia. Nell’infanzia quel giorno significava solo una cosa: tornare a scuola. Chissà se un po’ di quella sensazione si annida ancora in noi, se è precisamente ancora a quella che la nostra mente si riconnette ogni volta che questo giorno inesorabilmente arriva. 

Da qui l’idea e il titolo del quinto e ultimo appuntamento di Ghost Track, che si è tenuto naturalmente – senza neanche dirlo – di domenica e più precisamente l’ultima domenica di ottobre, al Mattatoio, all’interno della Galleria delle Vasche della Pelanda. Ghost Track è un progetto del Romaeuropa Festival dedicato ai nuovi formati della parola e della scena, uno spazio in cui prendono forma insieme elementi di comicità, poesia e diverse incursioni musicali. 

Protagonista di tutti gli appuntamenti è stata Gioia Salvatori, attrice e autrice che accoglie gli spettatori nello spazio intimo della Pelanda come fossero ospiti che sono venuti a trovarla a casa, tanto che a chi arriva viene offerto anche del buon vino rosso perché – come dice l’autrice – il mondo pesa. Soprattutto la domenica. E i suoi pezzi comici e la sua energia, proprio come il buon vino, hanno il potere di alleggerire e farci ridere di situazioni che noi tutti almeno una volta, a modo nostro, abbiamo vissuto. E questo modo autentico e spregiudicato di raccontare di sé, delle proprie relazioni amorose, dei propri fallimenti, sapendo cogliere anche nei momenti più difficili – come quello della rottura – l’aspetto paradossale, assurdo, ridicolo e naturalmente comico,  è puramente catartico. E proprio all’interno  di questa dimensione autobiografica che diverte e contagia, si sono inseriti ma senza litigare gli ospiti della serata: Giovanni Truppi e l’attore Daniele Parisi. Truppi ha regalato al pubblico due brani: L’uomo buono muore e naturalmente Domenica, contenuta nell’album Il mondo è come te lo metti in testa. Poi, in modo assolutamente pacifico, si è lasciato intervistare da Gioia Salvatori. 

Truppi è il cantautore che nella nostalgia non ha paura di affondare ma che, anzi, attraverso la sua musica e i suoi testi, la rende quasi una forza vitale, un pozzo profondo in cui sprofondare e da cui riemergere tutte le volte che ne sentiamo il bisogno, senza per questo sentirci troppo in colpa. E se è vero che, come dice Troisi durante un’intervista di Gianni Minà insieme a Pino Daniele, la sofferenza in amore è un vuoto a perdere, da cui solo i cantautori guadagnano qualcosa, allora questo vale soprattutto per le canzoni di Truppi, che riescono a farci sentire meno soli la domenica ma anche tutti gli altri giorni. Per come scavano nei nostri sentimenti, perché ci fanno capire che non c’è niente di male nella nostra tristezza e che non siamo strani se continuiamo tanto a desiderare qualcosa che non riusciamo mai ad afferrare senza capire poi veramente di che cosa si tratti, come il suo testo Cercavo la felicità esprime magnificamente. E forse è proprio per questo che la domenica è il giorno che più somiglia al mondo poetico di Truppi, a questo senso di finitezza che pervade le cose più belle. È per questo che molto spesso la domenica si finisce per litigare? Perché non sappiamo fare i conti con quello che finisce? Ed è la strofa di chiusura di Domenica a ricordarcelo: 

Ma qui si tratta solo di ingannare il tempo

Tanto alla fine si va a finire sempre

Che la domenica la gente litiga

Daniele Parisi, invece, ha letto alcuni suoi testi dal respiro calviniano, che ci riportano  alle atmosfere de Gli amori difficili, per quel modo leggero – lì dove Calvino con leggerezza intende planare sulle cose dall’alto – di raccontare le incomprensioni, i non detti, le ossessioni, le paure di chi vive una relazione amorosa e lo fa intensamente. E così procede Parisi, isolando un elemento, portandolo all’esasperazione, esattamente come fanno gli innamorati. Emblema di quest’ironia è il racconto che Parisi fa di un uomo che dopo la fine della sua storia d’amore decide di buttarsi dall’aereo ma mentre precipita riceve un messaggio di lei che forse ci ha ripensato e che quindi forse… Ma lui non fa in tempo a finire di leggerlo che si è già schiantato a terra. Sulla stessa scia si inserisce il pezzo comico insieme a Gioia Salvatori. Qui siamo di fronte a una coppia che decide di congedarsi in modo alquanto originale: cenando per l’ultima volta insieme all’aeroporto finendo, però, ancora una volta per litigare con il sottofondo gli annunci dei voli che stanno per partire, voli che li porteranno definitivamente a destinazioni diverse. 

Alla fine dell’incontro, nel salutare il pubblico, Gioia Salvatori ha confidato quanto questi appuntamenti, a cui hanno preso parte altri ospiti (tra cui Ilaria Gaspari, Barbara Chicciarelli, Valerio Aprea, Cristina Pellegrino etc), le abbiano fatto bene e quanto ne avesse bisogno. E come darle torto. Alla fine, ci si sente meno soli e meno tristi proprio come dopo aver ascoltato un brano di Truppi. 

Videoclip de “La Domenica” di Giovanni Truppi

Post in evidenza

Giffoni 53: indispensabile come i sogni

“Se puoi sognarlo, puoi farlo”, diceva Walt Disney o forse qualcuno dei suoi collaboratori. Quel che è certo, è che questa frase è stata fatta propria da quello che può essere a tutti gli effetti definito il Walt Disney italiano: Claudio Gubitosi, creatore nel 1971 del Giffoni Film Festival, il Festival di cinema per ragazzi più grande del mondo, che ormai solo Festival non è più: è luogo di incontro, occasione di scambio, spazio dove ogni giovane si sente accolto e libero.

Giffoni Valle Piana è un comune di 11.500 abitanti nella provincia di Salerno, circondato dai Monti Piacentini. Arrivando dal capoluogo, ci si lascia pian piano alle spalle il salsedinoso ambiente marino, per addentrarsi tra le montagne, le coltivazioni, le piante, la brezza leggera quando viene sera. Si giunge così a Giffoni, il convento di San Francesco sulla sinistra, la Cittadella del cinema, sempre in espansione, sulla destra. Il paese è attraversato dal fiume Piacentino – ora quasi secco ma pronto a rifocillarsi dalle prossime piogge – oltre il quale si trova il centro storico, la piazzetta Umberto I, il Giardino degli Aranci, i vicoli. Proprio tra queste strade e piazze, trascorreva la sua infanzia Claudio, quel bambino destinato a realizzare il suo sogno e a renderlo patrimonio mondiale, dimostrando come un’idea possa nascere e crescere in qualsiasi ambiente, persino il più piccolo e sperduto, e diventare un patrimonio globale, in uno spazio di crescita da portare con sé dovunque si vada.

Così ogni anno, gli ultimi giorni di luglio, la cittadina accoglie centinaia di migliaia di ospiti. Quest’anno, dal 20 al 29 luglio, si è svolta la 53esima edizione, dedicata al tema “INDISPENSABILI”, perché indispensabili sono i giovani, e ancora di più i loro sogni.  Ho avuto il privilegio di far parte della giuria nella categoria GENERATOR +18 (dai diciotto anni all’infinito), per la quale sono stati proiettati sette film provenienti da ogni parte del mondo, presentati dai loro registi e interpreti, sempre pronti a rispondere alle numerose e attente domande dei giurati. A vincere nella categoria Generator +18 è stato l’unico film italiano in concorso: “Il più bel secolo della mia vita”, diretto da Alessandro Bardani, interpretato da Sergio Castellitto e Valerio Lundini, distribuito in Italia da Lucky Red. Si tratta di una storia incentrata su una legge italiana secondo la quale, il figlio non riconosciuto alla nascita, può conoscere l’identità dei genitori biologici solo al compimento del centesimo anno di età. Così Giovanni, un trentenne adottato, incontra Gustavo, unico centenario non riconosciuto e insieme a lui parte per un viaggio ricco di emozioni, imprevisti e scoperte. È un’opera in grado di riproporre i toni della vera commedia all’italiana, di far ridere e piangere di fronte alla poesia del vivere e di ricordare a tutti i giurati che la giovinezza è in fondo in qualche modo eterna, proprio come tra l’altro dimostra l’esempio di quell’eterno ragazzo che è il direttore Claudio Gubitosi.

(www.italyformovies.it)

Nelle altre categorie, a trionfare sono state opere di cui protagonisti sono ragazzi alla ricerca del loro posto nel mondo, proprio come i ragazzi giurati fanno a Giffoni, con la fortuna che quello è un luogo protetto, dove saranno sempre accolti e ascoltati. Così, nella categoria Elements + 6 ha vinto “A cat’s life”, di Guillame Maidatchevsky, il viaggio di Clémence e del suo gattino nella campagna francese, in quella +10 “Lioness”, la cui protagonista è Rosi, una quattordicenne con più talento calcistico che fiducia in se stessa. I giurati della sezione Generator +13 hanno votato invece il film francese “The fantastic three”, di Michael Richter, che racconta la storia di tre adolescenti inventivi e volitivi costretti a fare i conti con la dura realtà della periferia. Infine, per i Generator +16 ha trionfato il lungometraggio “Normal,” diretto da Olivier Babinet, in cui la quattordicenne Luci, che si prende cura del padre affetto da sclerosi multipla, elabora con lui un piano complesso per far credere ai servizi sociali che i due vivono una vita perfettamente normale.

Le opere rimaste fuori dai riconoscimenti sono ugualmente dense di significato, inaspettate, sempre in grado di aprire una finestra nuova su angoli di mondo inesplorati. Ed è così che a Giffoni accadono i miracoli, attraverso l’incontro con gli autori di queste opere, pronti a svelare le loro fragilità e i loro punti di forza. 

Oltre agli autori dei film in concorso, nella sezione “Workshop” abbiamo avuto la possibilità di conoscere registi, sceneggiatori, attori, produttori e altre figure professionali del mondo del cinema, mentre i ragazzi della sezione “Impact” incontrano importanti personalità del mondo contemporaneo, con le quali si confrontano su tematiche attuali, controverse, in cerca di soluzioni. Emblematico è il caso di Giorgia, ventisettenne siciliana, che, di fronte al ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha manifestato, in lacrime, tutta la propria incertezza per il proprio futuro: “Io le confesso, ministro, che ho molta paura, per il mio futuro. Io personalmente soffro di eco-ansia e alle volte penso che io non ho un futuro, perché la mia terra brucia. In questi giorni in Sicilia sta bruciando tutto. E io non so se voglio avere figli, sinceramente, ministro, io non lo so. Quindi la mia domanda è: lei non ha paura per i suoi figli, i suoi nipoti, non so?”. Il ministro ha cominciato a rispondere tremebondo: “Io ho la forza del dubbio, te lo dico sinceramente. Ma abbiamo il dovere, o io ho il dovere della carica che ricopro, ho il dovere verso di voi, e ho il dovere verso i miei nipoti”, e alle lacrime della ragazza ha aggiunto le sue.

“Chi non viene a Giffoni non può capire Giffoni”,  così ha terminato il suo discorso di chiusura di questa edizione del Festival il suo creatore e direttore, Claudio Gubitosi. In effetti, per capire appieno il fenomeno di questo festival e l’energia che sprigiona, occorre viverlo in prima linea, per sperimentarne l’euforia che continuamente si alimenta e moltiplica, che stimola i ragazzi che ne fanno parte, che li spinge a credere nei loro sogni, a portare avanti le loro visioni, perché ciò che inizia a Giffoni migliora davvero il mondo. Truffaut nel 1982 lo aveva descritto come “il più necessario dei Festival”, oggi sappiamo che necessario non basta più, perché un festival come questo non può essere che indispensabile. 

(www.giffonifilmfestival.it)

Post in evidenza

Il sol dell’avvenire: il cinema confortante di Nanni Moretti

«Y así como todo cambia que yo cambie no es extraño». Le parole di Mercedes Sosa accompagnavano una decina di anni fa una delle scene più significative di Habemus Papam di Nanni Moretti: la canzone si propaga lenta negli ambienti vaticani, donando una sorta di spensierata liberazione a una guardia svizzera, ai cardinali, al fuggitivo papa, interpretato magistralmente da Michel Piccoli, che cammina per le strade di Roma come un comune cittadino, e per un momento il peso degli eventi sparisce, lasciando spazio ad una melanconica allegria.

©Fandango ©RanZag, da Habemus Papam di Nanni Moretti

Tutto cambia in continuazione e quindi anche noi cambiamo. Anche il cinema cambia, pur rimanendo sempre lo stesso: un baluardo in cui rifugiarsi per difendersi dal marasma della vita frenetica che ci scorre ogni giorno sotto ai piedi e ci sequestra la mente. Entrare in un cinema significa entrare in un luogo sacro, una chiesa, un tempio. L’odore di velluto delle poltrone ha l’odore dell’incenso e della salvia bruciata. La celebrazione si compone delle scene che si susseguono sullo schermo. Il rito collettivo si compie ogni volta senza che ce ne accorgiamo: la sala è fatta di persone che condividono emozioni ed esperienze, ingredienti essenziali per il compimento della magia. La melanconica allegria.

Il sol dell’avvenire, l’ultimo film di Nanni Moretti uscito il 20 aprile e prossimamente in concorso a Cannes, è un tipo di celebrazione a cui vale la pena assistere. C’è la storia del cinema; la storia di un partito, il PCI del ’56 che si trova spiazzato dall’invasione sovietica dell’Ungheria; la storia di un amore, quello del regista Giovanni per la moglie Paola (Margherita Buy) che viene stroncato dalla decisione di quest’ultima di lasciarlo dopo molti anni insieme; la storia di una vita, quella di Nanni Moretti stesso che, come in tutti i suoi film (tralasciando forse Tre Piani, figlio di un romanzo altrui) mette a nudo la sua personalità consegnandoci le chiavi per entrare nel suo tempio.

«Un rito è un rito, e deve essere sempre lo stesso, altrimenti va tutto male», ce lo dice Giovanni mentre si accinge a rivedere Lola di Jacques Demy insieme alla figlia, interpretata dall’attrice Valentina Romani, come ogni volta che inizia a girare un nuovo film. Gelato e copertina all’uncinetto di “Sognid’oresca” memoria compresi. Ed è per questo che non ci si deve meravigliare di fronte alle innumerevoli citazioni che si trovano sparse per l’intero film: dal nome del circo ungherese Budavari, che arriva nel quartiere Quarticciolo di Roma accolto dalla sezione Antonio Gramsci del PCI in cui militano il sensibile giornalista dell’Unità Ennio (Silvio Orlando) e la sua innamorata Vera, interpretata da Barbora Bobulova, alle disquisizioni sulle scarpe (qui non ci sono solo le temibili pantofole ma anche gli altrettanto famigerati sabot); dalle reazioni fanciullesche di fronte ai commenti altrui alla meravigliosa sequenza di rimostranze a causa di una scena di un altro film prodotto dalla moglie Paola, giudicata inutilmente violenta, che ricorda inevitabilmente l’accusa al critico cinematografico nel primo episodio di Caro Diario. Questa volta però la mitica Vespa è sostituita dal più contemporaneo monopattino.

La struttura dei film morettiani deve essere sempre la stessa pur cambiando. Si tratta di qualcosa di più profondo di una semplice sceneggiatura: è un patto di fiducia con lo spettatore, che sa perfettamente che con Moretti si scandagliano tutti i più piccoli aspetti della psiche, che emergono e con cui non sappiamo neppure di dover fare i conti finché non entriamo in sala. Lo strazio per la fine di un amore viene sublimato dalla passione per il cinema e dai balletti immaginati e allo stesso tempo profondamente reali sulle note di Voglio Vederti Danzare di Battiato. L’ironia malinconica e catartica con cui il regista mescola piani diversi – vita privata, sogno, set – trasfigurano questo film in tanti film diversi nella stessa pellicola.

E se è vero che «Non torneranno più le merendine di quand’ero bambino, i pomeriggi di maggio, mamma! Mia madre non tornerà più! », è anche vero che andare al cinema – meglio ancora se questo cinema è il Nuovo Sacher di Roma – per vedere Nanni è come tornare da quel vecchio amico che non vedi da cinque anni, sapendo che lo troverai diverso, ma sempre lo stesso. Che potrai ridere con lui ricordando vecchie storie, grazie a quel codice linguistico e relazionale che conoscete soltanto tra di voi, ma che ci sarà anche il momento per la nostalgia e per la paura del futuro, con qualche lacrimuccia di contorno. Niente che però non si possa affrontare con un po’ di musica italiana o di Aretha Franklin sparata a volume altissimo mentre si guida di notte sul lungotevere di Roma, diretti verso un buon «gelatino».

Perché il segreto è quello di giocare a far sul serio e di continuare ad avere speranza nel futuro, in quel sol dell’avvenire che intravediamo come una luce nel buio mentre veniamo confortati da chi ci conosce e ci vuole bene, dalle nostre passioni, dal grande cinema che non deve essere grande solo quando è pronto a stupirci con colpi di scena fantasmagorici o picchi di sceneggiatura di invidiabile originalità, ma anche perché rinsalda legami preesistenti e ci permette di continuare ad emozionarci come bambini. È proprio il caso dell’ultimo capolavoro di Nanni Moretti.

Post in evidenza

“Le otto montagne”: l’irrimediabile conflitto tra partire e restare

C’erano una volta due bambini così diversi eppure così uguali. Potrebbe essere questo l’inizio della storia, una favola antica ambientata tra le vette, eppure così moderna nel cogliere il costante conflitto tra restare e partire, tra farsi bastare una vita confinata nel posto dove si è nati e il desiderio pulsante di andare alla ricerca, con la paura sempre latente di perdere, forse irrimediabilmente, il luogo che chiamavamo casa e le persone che sono rimaste lì.

Le Otto Montagne, scritto e diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, è l’adattamento dell’omonimo romanzo Premio Strega di Paolo Cognetti (edito da Einaudi), un racconto asciutto e potente, la storia di un’amicizia diventata la bussola di una vita intera, perché ha piantato le sue radici nei recessi più profondi dell’anima.

Se la regia sa immortalare, attraverso il formato 4:3 e l’alternanza di campi larghissimi con spietati primi piani, l’imponenza delle montagne e l’emotività dei personaggi, gli attori Alessandro Borghi e Luca Marinelli sono sublimi nel mantenere un legame fatto di sguardi calamita, piccoli gesti, lunghi silenzi e poche parole sempre in grado di colpire a fondo.

Bruno è l’unico bambino di una minuscola frazione di montagna, vive con gli zii e trascorre le sue giornate tra vacche e fango. È un ragazzino a prima vista brusco e diretto, ma a suo modo anche dolce, capace di un affetto duro. Pietro è un bambino di città, iper protetto dai genitori, riservato, abituato a guardare il mondo dalla finestra più che a sporcarsi le mani. Quando i genitori di Pietro affittano un appartamento nella frazione dove vive Bruno per l’estate, i due bambini trovano presto un linguaggio comune e il loro incontro diventerà la base dell’amicizia più inaspettata e autentica, un rapporto che supererà, nel corso degli anni, le amarezze, i lutti e le distanze, anche quando sembreranno insormontabili.

La montagna non è solo nevi e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all’altro, silenzio, tempo e misura.

Mi dissi che forse quest’altro padre l’avevo avuto sempre lì e non me n’ero mai accorto, per quanto era ingombrante il primo.

Pietro, da bambino schivo, diventerà un ragazzo insofferente, incapace di separarsi dai suoi silenzi e di aggredire il mondo come vorrebbe, come Bruno, a suo modo, è stato sempre capace di fare. E Bruno infatti, una volta sfumata la possibilità di crescere con la famiglia di Pietro in città a causa di un padre ostile, trova il suo posto tra le vette che lo hanno cresciuto, dove sembra felice e continua negli anni a passeggiare con il padre di Pietro, anche quando Pietro in montagna si rifiuta di tornare.

Sarà proprio la morte del padre di Pietro a riunire i due ragazzi, che si ritroveranno a costruire insieme una baita, per mantenere una promessa. Sempre presente è infatti la riflessione sull’eredità paterna con la quale un figlio si ritrova ineluttabilmente a fare i conti e sul conflitto tra la necessità  di seguirla e quella di cercare il proprio destino.

I due ritroveranno presto l’intesa di quando erano bambini, ma ora l’età adulta li mette di fronte a responsabilità diverse. Bruno prova ad aprire un’azienda, incontra una donna tramite Pietro, la sposa e hanno una bambina. Pietro invece inizia ad esplorare le montagne del Nepal: torna, parte, ritorna, riparte. Mentre Bruno sembra aver trovato il suo posto nel mondo, o meglio aver trovato il senso della propria vita all’interno di un luogo che era sempre stato suo, Pietro continua a vagare, irrequieto, infelice.

Stavo imparando che cosa succede a uno che va via: che gli altri continuano a vivere senza di lui.

Ma la felicità è un’illusione soltanto, una condizione impossibile da mantenere e spesso, i luoghi che ce la donano, sono gli stessi che poi ce ne privano, in un equilibrio instabile difficilissimo da mantenere. Così, quella tanto amata montagna, diventa per Bruno ossessione e prigione. Il fallimento della piccola azienda che gestiva con la moglie e il rifiuto totale di adattarsi a qualsiasi altro lavoro e a scendere dalle vette provocano la crisi del suo matrimonio: lei se ne va con la bambina, Pietro è dall’altra parte del mondo e Bruno è solo, ancora una volta, con la montagna.

Siete voi di città che la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cosa che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente.

Ora che Pietro sta iniziando a trovare una sua dimensione nel suo continuo andirivieni, che sta iniziando a pubblicare con un piccolo editore, che si sta, forse, persino, innamorando in Nepal, Bruno è invece completamente perso, e su quelle vette si perderà per sempre lasciandosi seppellire dalla neve. E allora chi ha imparato di più? Chi ha vagato per le otto montagne o chi è rimasto sul picco al centro del mondo, senza scenderne mai? Impossibile stabilirlo, perché impossibile è capire il senso di un’esistenza mentre la si vive. Certo è che, questa moderna favola antica, è un inno all’importanza dei legami e delle relazioni umane, l’unico modo per non perdersi in un mondo che è inevitabilmente troppo grande per noi.

Da mio padre avevo imparato, molto tempo dopo avere smesso di seguirlo sui sentieri, che in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare. Che nelle vite come la mia e la sua non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia. E che non resta che vagare per le otto montagne per chi, come noi, sulla prima e più alta ha perso un amico

Immagini tratte dal sito ufficiale “Vision Distribution”.

Post in evidenza

Scorpione

Caro Scorpione,
da oggi il sole ti illumina e per un mese cerca di penetrare la tua corazza per arrivare a scaldarti il cuore. Lo so, è difficile lasciar scoprire cosa si cela dietro la tua armatura, ma ricorda che Marte ti protegge se ti lasci cullare dalle acque di Plutone.

Ti pruderà il pungiglione molte volte in questo periodo e già ti vedo là, guardingo e sospettoso mentre pensi a come farla pagare al tuo compagno di banco che ti ruppe il compasso in seconda media.

RILASSATI. Pensa che anche uno scorpioncino di tutto rispetto come Robert Louis Stevenson (13 novembre 1850) aveva i suoi buoni motivi per essere nervoso: cagionevolissimo di salute, era costretto a passare gran parte del suo tempo in ambienti più salubri della sua fredda Scozia. Non è certo un caso che abbia scritto Dr. Jekyll e Mr.Hyde!


Ma io ti invito a focalizzarti su un’altra grande opera dello stesso autore: L’isola del tesoro. Un luogo sperduto di cui l’autore non fornisce neppure le coordinate per lasciare che il lettore, come il giovane protagonista Jim Hawkins, si perda nell’ignoto mosso soltanto dalla curiosità e dal fascino per l’avventura. Uno spazio protetto dagli oceani, raggiunto soltanto dai più impavidi: per lo più pirati spregiudicati come Long John Silver. Una bella similitudine per te, caro il mio animaletto permalosetto. Anche tu sai essere enigmatico ed insidioso come un’isola perché ciò che nascondi è misterioso, profondissimo e di grande valore, come un tesoro. Lascia che venga alla luce.

L’illustrazione è di Ginevra Vacalebre.

Axel Munthe, lo stregone di Anacapri

Sono tanti, per secoli hanno camminato su questa Terra, malinconici membri di una stirpe ormai quasi estinta, amati e odiati, spesso temuti, a volte disprezzati, morti nella gloria o nello scherno, hanno inseguito una vita avventurosa, più simile a un sogno, o a un incubo, che al noioso e lineare succedersi del tempo: sono gli eclettici, gli eccentrici di tutte le epoche, persone curiose, che hanno impreziosito il loro Tempo di passione, fervore e utopia e si sono dedicate con singolare genio alle arti più disparate, alla scienza, alla stregoneria, a tutte queste cose insieme.

Sull’isola di Capri, oltre le boutique di lusso e i turisti ingioiellati, in alto, dove il profumo di miele e fiori diventa antico e il mare scintilla da lontano, c’è la dimora di uno di questi uomini straordinari: Villa San Michele, la casa di Axel Munthe.

A sentire lo stesso Axel Munthe, che ne parla nel suo capolavoro La storia di San Michele, quando a diciott’anni mette piede per la prima volta sull’isola di Capri viene colto da una specie di invasamento estatico. Come se quella terra avesse per millenni aspettato il suo arrivo: il giovane svedese inizia a saltellare di qua e di là, ogni cosa che vede gli sembra avvolta da una bellezza primigenia; quando scorge i famosi faraglioni decide che deve scalare il più alto – l’invasamento lo spinge a un’azione eroica e insensata – e viene fermato solo dal buon senso della bella Gioia, l’isolana che lo sta accompagnando. Girovagando per l’isola, nella terra smossa Axel trova pezzi di colonne e marmi intarsiati. Rimane stupito dall’abbondanza di tanti reperti, ma soprattutto dall’indifferenza degli isolani: Gioia gli dice che si tratta di cose senza valore, «roba di Timberio», roba, cioè, appartenuta a una delle dodici ville che l’anziano e ombroso imperatore Tiberio fece costruire sull’isola, e dove, nel marzo del 37 d.C, morì, depresso e con il volto sfigurato da un terribile eritema. La cattiva reputazione che lo circondava gli è sopravvissuta per lunghi anni: a Capri la «roba di Timberio» viene trattata con disprezzo, si pensa porti sfortuna.

Quando già sta per farsi sera, Axel arriva in cima ai settecentosettantasette scalini della Scala Fenicia, unica via d’accesso ad Anacapri fino al 1877. Qui trova i resti della cappella medievale di San Michele, su un terreno brullo, pieno di marmi colorati, dove un vecchio, mastro Vincenzo, coltiva la vite. Mentre Axel riposa, affascinato dallo splendore del luogo, viene colto da una visione, una figura ammantata gli predice il futuro: quella terra, che gli darà grandi gioie e immensa bellezza, sarà sua, ma a costo di enormi fatiche, e soprattutto a prezzo di un male che lo affliggerà negli ultimi anni della sua vita. La figura gli svela che anche a Tiberio fu chiesto di stringere un patto simile: avrebbe potuto ritirarsi a Capri se avesse accettato di essere ricordato nei secoli come malvagio e folle. Axel, seppure spaventato, accetta il proprio destino e decide di precipitarsi in Francia per finire gli studi da medico e iniziare a guadagnare dalla professione. Per coronare il suo sogno gli serviranno infatti soldi e tempo.

Una postilla: questo articolo sarà affollato di elementi e personaggi ai quali sarà difficile credere, nonostante Axel Munthe affermi di raccontare solo la verità. Ma questo è lo stile e la sostanza dei suoi racconti: è impossibile distinguere il vero dal falso. Per fortuna alcune cose sono storicamente verificabili, per cui possiamo dire con certezza che è vero che Axel Munthe scrive La storia di San Michele su suggerimento di Henry James, più volte ospite della casa; e che ospiti della stessa casa saranno altri personaggi illustri, da Oscar Wilde alla principessa d’Assia Mafalda di Savoia, alla quale La storia di San Michele è dedicata.

A soli diciott’anni, dunque, questo giovane svedese aspirante medico decide di consacrare la propria vita a un sogno, anzi, a un luogo, il pezzo di terreno sull’isola di Capri dove sorgerà la sua dimora, il suo rifugio dal mondo. L’attaccamento quasi ossessivo alla villa costituisce il fulcro di La storia di San Michele, uno strano ibrido, come il suo autore, tra autobiografia, cronaca storica, romanzo e fiaba. Anche se fu un libro di successo, non troverete La storia di San Michele tra i libri apprezzati dalla critica: troppo eclettico lo stile, troppo confusa la poetica, che nel giro di poche pagine passa dal positivismo al misticismo, dalla scienza alla superstizione; troppo ingombrante l’autore, che infarcisce la cronaca di divagazioni liriche, a tratti grottesche, si dipinge protagonista di avventure inverosimili, eroe medico e filantropo, amico degli animali (a Capri riesce a impedire la caccia agli uccelli, praticata da secoli), sciamano (in Lapponia, racconta, in un villaggio lo riconoscono come tale).

A un critico del «Daily News» che gli rimprovera le «storie sensazionali» e mette in dubbio la credibilità delle sue avventure risponde piccato, facendo mostra del suo lato più permaloso e vanesio:

«Certamente dev’essere più piacevole sedersi comodamente in una poltrona e scrivere delle storie sensazionali che sudar freddo tutta la vita per raccogliere il materiale; più facile descrivere la malattia e la morte, che combatterle; inventare sinistri intrighi, invece di essere da questi travolto senza preavviso! Ma perché non raccolgono il loro materiale da sé, questi scrittori? […] Leopardi, il più grande poeta dell’Italia moderna, che invocava la morte in squisite rime da quando era ragazzo, fu il primo a fuggire quando il colera scoppiò a Napoli. Anche il grande Montaigne, le cui serene meditazioni sulla morte sono sufficienti a renderlo immortale, scappò come una lepre quando la peste scoppiò a Bordeaux.»

Nonostante lo scetticismo dei critici, il libro si divora come un romanzo d’avventura e non a caso fu un best seller dell’epoca, tra i libri più venduti per anni; avvinti dall’eloquenza e dalla scaltrezza del narratore, si mette facilmente da parte l’incredulità e ci si lascia incantare. Anche perché Axel Munthe disegna di sé un’immagine che in fin dei conti fa simpatia; non è mai perfetto e oscilla sempre tra luce e oscurità, tra egoismo e filantropia; è un uomo capace di fare carriera come medico imbrogliando le ricche dame parigine (divertentissime le pagine in cui racconta di come si è arricchito diagnosticando alle signore nevrotiche e annoiate la colite), ma anche di affrontare con incredibile coraggio il colera a Napoli e il terremoto a Messina (ecco perché tanto livore contro Leopardi e Montaigne). Dimostra in più occasioni di essere eccentrico rispetto alle convinzioni del suo tempo e precursore di idee moderne: profondamente animalista, contrario all’idea di omosessualità come malattia mentale, lottò contro i metodi brutali usati nei manicomi arrivando a litigare con il famoso neurologo e ipnotista Jean-Martin Charcot, rovinandosi la carriera da psicologo.

È commovente, in ogni caso, che un uomo con una vita così avventurosa, corteggiato dagli ambienti più illustri dell’Europa dell’epoca, rimanga sempre così legato alla piccola isola italiana prescelta dalla sua anima quando era giovane. Quella tra Axel Munthe e Villa San Michele è infatti la storia d’amore tra un uomo e un luogo, uno degli esempi più flagranti di questo tipo d’amore platonico. La costruisce quasi da solo, contando sull’aiuto degli isolani e dei disegni dell’architetto e artista Aristide Sartorio. Generata a immagine e somiglianza del suo creatore, la casa è piena di opere d’arte scelte per la bellezza e il valore simbolico, soprattutto opere greche e romane, ma anche egizie e etrusche. Ci sono molti reperti, frammenti architettonici trovati sul terreno durante la costruzione e oggetti che Munthe portò dai suoi viaggi. L’opera più bella e più ammantata di mistero è una Sfinge di 3200 anni in granito rosso, che Munthe volle collocare su una balaustra accanto alla cappella medievale, così come gli era stato ordinato nella visione che, sostiene, l’aveva condotto al suo ritrovamento. 

«Tutto quello che avvenne è troppo strano e fantastico per essere tradotto in parole scritte, e poi non mi credereste se tentassi di farlo. Non so bene io stesso dove il sogno finisse e dove avesse principio la realtà. […] Interrogate la grande Sfinge di granito, che sta accovacciata sul parapetto della cappella di San Michele. Ma domanderete invano. La Sfinge ha mantenuto il suo segreto per 5000 anni. La Sfinge manterrà il mio».

Appena varcata la soglia della villa si entra nella Loggia delle sculture, accolti dalla vegetazione e da un panorama mozzafiato sul Golfo di Napoli. Qui si trova la Tavola Cosmatica, un mosaico del Dodicesimo secolo che Munthe trovò a Palermo, dove veniva usato come lavatoio. Poco più avanti è collocata una preziosa opera in marmo bianco risalente alla prima età imperiale, un dono delle suore di clausura di Napoli, come ringraziamento per il suo aiuto durante l’epidemia di colera. Passeggiando per la casa si coglie l’intenzione di viverla in continuità con il paesaggio, un concetto molto di moda adesso, ma meno scontato all’epoca. All’aria e alla luce è permesso di attraversare la villa senza ostacoli, l’arredamento è sobrio e spoglio. Viene facile immaginare la quiete della vita in quelle stanze, lo scorrere del tempo attraverso le stagioni miti e il profumo dei fiori.

Le quasi cinquecento pagine del libro portano a un epilogo amaro, ma predetto: Axel Munthe in vecchiaia rimane afflitto da una terribile malattia agli occhi, e la luce intensa che filtra dalle finestre di Villa San Michele gli procura un fastidio insopportabile. Così deve andare via dal luogo che gli ha donato tanta gioia. Ultranovantenne, muore a Stoccolma nel 1949,  lasciando la villa allo Stato svedese. Oggi la proprietà è di una fondazione svedese che l’ha trasformata in un museo.

Il consiglio è di visitare l’isola in uno dei mesi in cui è meno affollata, comprare La storia di San Michele in una delle librerie di Capri, e lasciarsi coinvolgere dalle storie incredibili che vi sono raccontate; in un giorno di sole visitare la casa, consapevoli che si tratta di un luogo magico, fissato nel tempo e nell’anima del suo creatore, Axel Munthe, lo stregone di Anacapri.

«La mia casa sarà aperta al vento e alle voci del mare – come un tempio greco – e luce, luce, luce ovunque».

“Il compagno” di Isabella Delle Monache: una mappa per orientarsi nel tempo e nello spazio

Fin dalle prime pagine Il compagno, romanzo d’esordio di Isabella Delle Monache, trascina il lettore come un vortice, la cui direzione riesce ad essere tanto lineare e progressiva, verso una fine ineluttabile e predeterminata, quanto invece, allo stesso tempo, costantemente in movimento, creando un racconto vitale, rischioso, pieno di dinamismo interno, e di possibilità inesplorate, aperto nel suo esito.

È un viaggio alla ricerca di una mappa per orientarsi nel tempo e nello spazio, ovvero alla ricerca di segni e tracce per trovarsi, perdersi, salvarsi all’interno di quei sentimenti contraddittori, pericolosi e inevitabili che rappresentano il movimento verso un altro da sé. Come forse è possibile solo a vent’anni. Elena conosce Diego su un treno: si odorano, si annusano, si sentono, si guardano attraverso quegli occhi cerulei così simili e così diversi. Si scrutano, incompleti e totali come solo a vent’anni si può essere, ognuno dentro ad un proprio mondo letterario e immaginario, che, talvolta, condividono – e che pare possano davvero condividere solo con l’altro.

Il mondo è contemporaneo e tecnologico, eppure Elena e Diego attraversano la loro attrazione e il loro amore in un tempo sospeso, indeterminato e circolare, dentro ad un turbinio di passioni letterarie, cinematografiche e artistiche che sono di oggi, ma anche di ieri. Ognuno di loro vede nell’altro un’avanguardia, sospesa tra passato e futuro: ventenne colto, discontinuo, malmostoso e sofisticato lui, quasi esistenzialista nella sua eleganza antica e nel suo essere rivoluzionario in modo irritante e novecentesco; emotiva, fantasiosa, poetica, instancabilmente curiosa e fremente lei, dentro ad una ricerca femminile e femminista di emancipazione, in perenne tensione con la propria educazione perbene da jeune fille en fleur.

Ma poi il libro diventa molto di più: una riflessione sull’impossibilità di essere autentici nell’amore, l’amore di “due anime incapaci di restare”. Eppure la speranza rimane forte e brillante e, in qualche modo, in questa precarietà l’incontro è ancora possibile: “conoscersi è luce improvvisa” e tutto il processo dell’amore diventa quello di “catturare ciò che è imprendibile, il tempo”. Essere rotti, come gli oggetti della casa di Genova in cui Elena passa “giorni ingarbugliati e storti” e dove forse, riflette lei, “eravamo rotti anche noi che la abitavamo”, è in realtà il preludio di una vera autenticità. Dove il riflesso della fragilità dell’altro diventa il proprio e l’amore, anche transitorio, è in grado di cambiare il mondo. Ma cambiare il mondo è anche, per Elena, più che la tensione rivoluzionaria di Diego, figlio ribelle di una famiglia aristocratica, ora affiliato a “Fuoco Proletario”, la capacità di osservare la realtà con profonda consonanza, attraverso lo sguardo appassionato, sociale, umano che riserva a tutte le persone che le aprono le porte durante la vendita del giornale del “Partito” a cui lui la trascina.

Attraverso una storia d’amore che, come un piano inclinato, procede ineluttabile verso la sua conclusione, Isabella delle Monache ci consegna il racconto di un’Italia precaria e in cambiamento, sofferente e piena di vita, abitata da ventenni pieni di passione e, allo stesso tempo, tratteggia il ritratto intimo di una profonda difficoltà di comunicazione tra un giovane uomo e una giovane donna, incastrati in modo inevitabile nelle proprie solitudini.

Il compagno di Isabella Delle Monache, Serradifalco Editore, 2025

Foto in copertina di Mariano Doronzo

Dreaming Abruzzo e altri viaggi irresponsabili

Riusciranno i nostri eroi a cambiare uno pneumatico e arrivare in Abruzzo?

Complice il caldo torrido di luglio – qualcuno direbbe l’umidità – ho fatto la scelta vigliacca e irresponsabile di abbandonare la Versilia, dove ogni estate i miei familiari si rifugiano, per ritirarmi qualche giorno in un luogo non troppo distante – così ingenuamente pensavo – in cui non fossi mai stata e, soprattutto, fresco: l’Abruzzo.

Viaggiare irresponsabilmente significa non prendere accorgimenti, come per esempio l’idea che scappare da un luogo significhi scappare dai propri problemi esistenziali, che (spoiler) ti perseguiteranno per tutte le cinque ore di viaggio; sottovalutare la potenza del karma, ovvero che se fino a quel momento l’avevi tirata a tutti quelli che sui social media vedevi sorridere e galleggiare in luoghi ameni, di certo non potevi aspettarti di goderti la tua vacanza last-minute in santa pace; e ultimo, ma non per importanza, viaggiare risparmiando – o meglio, credendo di risparmiare – con una compagnia di autobus a lunga percorrenza, convinta di aver fatto la scelta più economica, intelligente, comoda e sostenibile, insomma, l’affare del secolo.

La scelta pareva strategica: viaggiare di notte col biglietto meno costoso così da arrivare a metà mattinata per non perdersi un minuto dell’Abruzzo e finalmente respirare ossigeno buono alle pendici del Gran Sasso.

Sveglia alle 4.00. Arrivo alle 4.40 al piazzale degli autobus con largo anticipo, dopo aver svegliato mezza Viareggio con il fragore del mio trolley dalle ruote rotte (qui è dove il karma ha cominciato a prendere appunti). Osservo la scia di giovani che scendono dai bus che costeggiano il lungomare trasportando gli avventori delle discoteche di Forte dei Marmi, constatando con un certo snobismo d’antan che quell’era per me, grazie al cielo, è passata. Con piacevole stupore, il mio autobus verde lime sopraggiunge in anticipo alla fermata e accoglie me, unica passeggera in attesa, con un tiepido sorriso del conducente, il quale mi sussurra di non fare caso al posto che mi è stato assegnato ma di sedermi dove voglio, anzi “dove trovi” dal momento che molta gente sta dormendo e non è il caso di svegliarla per una quisquilia del genere.

Mi accorgo quindi con altrettanto stupore che l’autobus è a dir poco strapieno e l’unico scampolo che le luci di cortesia  lasciano intravedere sono 30 cm di sedile gentilmente lasciatomi da una turista straniera con il physique du rôle di un’atleta del lancio del martello. Ma che importa, tanto devo dormire. 

Ci provo per i primi venti minuti, fino a quando non arriviamo a Pisa-Aeroporto dove la turista straniera mi dice qualcosa in una lingua che mi è nuova (filippino? vietnamita? cambogiano?), così che rispondo con un laconico “Pisa Airport” simulando con le braccia un aeroplano. La turista annuisce e volta gallone. Riprendo a “dormivegliare” anch’io. A Pisa San Rossore scende un po’ di gente e siccome la mia compagna asiatica ha cominciato a russare e farneticare nel sonno (in filippino? vietnamita? cambogiano?), prendo orgogliosamente postazione due file più dietro dove ci sono due sedili vuoti, perfetti per me e per il mio zaino-cuscino. Alle 6.40, l’autista 1 e l’autista 2 (quello che in teoria doveva ricaricare le batterie per il viaggio successivo) ci impongono una pausa caffè e toilette, nonostante tutti i passeggeri dormissero beatamente. “Twenty minutes!”. Il gruppo di incespicanti gufi si dirige in massa, come anime purganti, verso l’autogrill della stazione di servizio di Serravalle Pistoiese. Dopo una fila interminabile,  comincio a correre verso il pullman chiedendomi se saranno partiti senza aspettarmi. Invece vedo Autista 1 e Autista 2 intenti a cambiare uno pneumatico. Capiamo quindi che la sosta forzata serviva a permettere loro di cambiare una gomma evidentemente forata. Sorseggiando il mio cappuccio bollente, mi chiedo per un attimo se Autista 1 e Autista 2 siano veramente in grado di cambiare una ruota alta la metà di loro. Me lo chiedo perchè cominciano a essere fradici di sudore e quello che intravedo con la coda dell’occhio da uno dei loro cellulari sembra essere proprio il tutorial su come cambiare uno pneumatico, per non parlare del fatto che la loro espressione in volto è simila a quella di chi sta leggendo il  foglietto d’istruzioni di un mobile Ikea. 

Nel frattempo un ragazzo si avvicina per offrirsi di aiutare, in qualche modo. Lo farei anch’io ma non saprei da dove iniziare.

Passa un’ora e qualcuno avanza l’ipotesi di chiamare l’assistenza, d’altronde siamo in una stazione di servizio e ci sono a bordo quaranta passeggeri che avrebbero delle coincidenze da prendere una volta arrivati a Roma Tiburtina, vedi la sottoscritta. 

Autista 1 e Autista 2 rassicurano sul fatto che hanno quasi finito. 

Mi siedo su un cordolo e osservo il panorama, perlomeno grazioso: cipressi, pini marittimi e un castello diroccato fanno da cornice al non-luogo per eccellenza che è l’area di servizio e penso che alla fine poteva andare peggio, potevo trovarmi in una Highway del Texas dove non passa un cane, al più un coyote.

Dopo un’altra sosta toilette, infilo le cuffiette e accendo un podcast. Autista 1 e Autista 1 si sono tolti camicia e cravatta verde lime e si ritrovano in canottiera. Senz’altro è da elogiare l’impegno che profondono. 

Verso le 9.00 succede che Autista 1, nel dare l’ultimo giro per saldare il nuovo pneumatico – evidentemente con troppa veemenza – riesce a rompere una valvola e la ruota, quella appena cambiata, comincia a sgonfiarsi. 

Autista 1 e Autista 2 si arrendono e contattano l’assistenza.

Ormai arrivata a un livello zen, ma continuando a maledirmi per la finta partenza intelligente, trovo un nuovo passatempo: contare. Non le pecorelle, ma quanti automobilisti si fermano per una sosta col loro cane: ne conto quindici in cinque minuti. E quanti Scania ci sono in quest’area di servizio? Otto. E via così. 

A due ore e mezza dalla pausa obbligata, ci arriva un messaggio sul cellulare dalla compagnia di trasporto: “A causa del ritardo e per rendere il tempo di attesa più confortevole, puoi acquistare bevande non alcoliche e snack per un valore di €10. Conserva la ricevuta e inviala al link xsksbfwfjhjsfksfjn per richiedere il rimborso. Ci scusiamo per il disagio”. Nel medesimo istante, le anime purganti si dirigono nuovamente all’autogrill, rinfrancati dal messaggino. Altra sosta toilette.

Siamo qui da quasi cinque ore. La mia coincidenza Roma-L’Aquila è stata riprogrammata. Sarei dovuta arrivare alle 10 e mezza di mattina, arriverò alle 15.30. Forse. 

A un certo punto sento una voce strillante provenire dal bagagliaio aperto del pullman. È una passeggera straniera, molto giovane, che ha preso il suo zaino da trekking e ha in mano un pezzo d’imballaggio di cartone. Autista 2 prova in un inglese stentato a dirle che non se ne può andare, che è sotto la loro responsabilità. Scopro che la ragazza è una diciassettenne dell’Azerbaijan. Stanca dell’attesa e dell’inadempienza della compagnia verde lime, si è fatta dare un pezzo di cartone per fare autostop. Si offre di fare da interprete agli autisti un violinista toscano, un habituè delle tournée – vista la professione -, un giramondo. Le spiega che in Italia è illegale fare autostop in strade ad alta velocità, troppo pericoloso. «  «You are… COME SI DICE MINORENNE??? Very very young, you under my responsability!». Autista 2 incespica, ma da bravo napoletano si fa capire. «Anche noi non ce ne possiamo andare da qui, è compito nostro portarvi a destinazione, in un modo o nell’altro». Antonio, questo il suo nome, cerca di rasserenarci dicendo che la compagnia ha già pagato il gommista, dobbiamo solo attendere che arrivi e saremo tutti a casa per cena, lui compreso, a mangiare pasta fagioli e cozze, frittura di pesce, peperoni al forno e anguria. Il violinista traduce tutto all’azera, che si siede sconfortata nel portabagagli, sul gommone forato.  

Altra sosta toilette.   Vado dal benzinaio per farmi  restituire il cellulare che avevo lasciato a caricare. Mi tocca chiamare il b&b abruzzese e avvertire del ritardo.  . 

Mi siedo sul cordolo e ricomincio a contare i cani. Un ragazzo seduto vicino a me, dall’accento smaccatamente pisano, mi chiede dove sono diretta. Dico l’Aquila. Anche lui ha la coincidenza per l’Abruzzo ma è diretto a Pescara. Va a trovare il padre che vive lì. Gli chiedo se è la prima volta che viaggia con la compagnia verde lime. Mi dice di sì e che probabilmente sarà anche l’ultima.

Sono le 13.15 e ora inizia a fare veramente caldo. Altra sosta toilette, se non altro per l’aria condizionata dell’autogrill. Quando torno, nella parte del bagagliaio del pullman  s’è formata una cerchia di persone e c’è un gran vociferare. È arrivato Bogdan, un camionista rumeno che ci ha visto in difficoltà e s’è offerto di aiutare. «Ho tutta attrezzatura, tutto… cambio ruota in dieci minuti». Sembra essere una manna dal cielo, finalmente, ma ciò non è possibile perché, come spiega Antonio, la compagnia ha fatto partire la richiesta e già pagato il gommista – che stiamo aspettando da più di un’ora – e non possiamo accettare un aiuto esterno, seppur gradito. Bogdan è stempiato, ha baffi grigi e la pancia da bevitore di birra. Mi fa pensare a quel programma di Chef Rubio sulle trattorie di punta dei camionisti. È simpatico. Vive in Romania con la famiglia e una settimana sì e una no trasporta merce di vario tipo per tutto lo stivale. Mentre Antonio e Bogdan discutono su chi abbia più ferie dell’altro, mi accascio sulla causa dei nostri mali – lo pneumatico forato – dove prima sedeva la ragazza azera, la quale adesso chiacchiera amabilmente con il violinista.

Chiudo gli occhi: sono talmente stanca che mi sembra di sentire delle voci: Io non t’amo; e perciò non inseguirmiSon come il tuo cagnolino. O mio Demetrio… Non suscitare troppo disgusto nel mio petto, ché io mi sento male se ti vedo… T’inseguirò, e l’inferno diverrà il paradiso se morrò per la mano di chi adoro!

Ricordo di aver recitato questo dialogo al saggio di teatro ai tempi dell’università e ora mi si ripresenta davanti agli occhi sotto forma di un’ Elena neanche ventenne con un taglio biondo sbarazzino e un Demetrio un po’ più grande, con i tatuaggi e la collana buddista. Sono due ragazzi che stanno provando il dialogo da presentare al provino per l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma. 

«Lo sapevo che erano due attori!», prorompe la ragazza di fianco a me. Catia è una trentenne russofona di origina kazaka che, nonostante ciò, parla perfettamente italiano. Entrambe abbiamo interpretato Elena in Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, io a Reggio Emilia, lei a Praga. Ha studiato Lingue e interpretariato a Bologna e scopriamo di aver abitato nello stesso quartiere, vicino ai colli. Ha girato il mondo e ora sta girando l’Italia in pullman per tentare di vincere una borsa di dottorato di ricerca: arriva da Macerata e domani proverà Chieti, poi si sposterà a Bari, poi Lecce, Palermo, Napoli, infine Perugia. «Cioè in pratica stai facendo l’Interrail dei dottorati!», esclamo divertita e allo stesso tempo ammirata. Mi racconta del suo progetto di ricerca, sui racconti erotici di Anaïs Nin, e finisce a parlare di Lacan e di Gramsci, sempre utilizzando un lessico ricercato e una velocità di pensiero che neanche Chiara Valerio. Per una ventina di minuti mi dimentico quasi di essere ferma in una stazione di servizio da nove ore, con 36 gradi all’ombra, fino a quando, all’improvviso, sopraggiunge un pullman verde lime e si sentono urla di gioia: sono le 15.20 ed è arrivato il bus sostitutivo.

Increduli, raccogliamo i nostri bagagli e salutiamo Antonio e Giuseppe, non sapendo se odiarli, compatirli o ringraziarli (Bogdan è sempre lì che non molla la presa). Antonio, un po’ dispiaciuto, ci lascia andare ed esclama: «Ve l’avevo detto che saremmo stati a casa per cena, mi raccomando fate i bravi guaglioni!». E così la sottoscritta insieme alla futura dottoranda kazaka, l’autostoppista azera, il violinista, il ragazzo pisano, la turista asiatica (filippina? vietnamita? cambogiana?), e il resto dei passeggeri, Elena e Demetrio compresi, ce ne risaliamo sull’altro pullman, puri e disposti a salire alle stelle.

Scritti dal finestrino

Lo so, il titolo richiama moltissimo la ben nota raccolta di immagini “foto dal finestrino” di Ettore Sottsass. Mi viene da pensare a chi, tra me e lui, abbia avuto più occasioni di osservare storie dal finestrino, di crearne delle altre o raccontarne di proprie. Non lo saprò mai, eppure, indubbiamente, anche Ettore, come me, avrà avuto a che fare con i finestrini. C’è poi questa strana abitudine di pensare che le storie e le immagini dal finestrino debbano sempre, o solitamente, riguardare l’altra parte del finestrino. Quella che, sia che siamo su un treno o su un bus o su un aereo, si trova al di là di un pezzo di vetro. Quella che ci scorre dietro rapida. Quella che ci corre vicina affannosa. Quella parte che nell’arco di pochi secondi passa dall’essere una distesa di campi di papaveri ad essere la corsa di torrenti prosciugati. Quella parte che fa venire una strana malinconia e una strana voglia di pensare e, perché no, anche di piangere. Ma perché nessuno parla mai di quella parte al di qua del finestrino? Esatto, di quella parte che ci riguarda, di quella parte dove noi siamo seduti. È di quella parte, che alle volte ci verrebbe voglia di isolare in una sfera, che io scriverò. O almeno di una piccola parte di essa. Della carrozza sette posto cinquantotto sul treno Chiavari – Salerno.

Chiavari – Salerno: che tratta da folli. Quasi tutta la costa ovest della nostra penisola. È strano: se cerco di individuare le zone che percorro con il treno, non riesco ad inquadrarle da un punto di vista fisico. La sola cosa che riesco a fare è collegarle o creare dei confini fra di loro pensando agli accenti linguistici che le abitano. Ecco, mi sarebbe d’aiuto un apparecchio in grado di registrare e riprodurre tutti i suoni che attraversano le “c” aspirate dei bar di Pisa per poi arrivare alla veracità delle “c” strascicate dei borghi romani, fino alla necessità dei salernitani di usare le mani quanto più possibile, come se le parole non bastassero per comunicare. Ora che ci penso, ogniqualvolta prenoto un treno, un bus o un aereo cerco sempre di scegliere il posto finestrino. Prevalentemente perché, essendo alta, se occupassi il corridoio mi verrebbe solo voglia di stendere le gambe per poi addormentarmi e far inciampare tutti. Secondo poi, perché mi infastidirebbe da morire non potermi abbandonare a un sonno profondo, obbligata a stare in costante allerta e assecondare le richieste di chi si voglia alzare, costringendomi a fare altrettanto. E poi perché beh, il finestrino è fantasioso. È come un diario.

Foto di Ilaria Palmieri

Su quel treno facevo rimbalzare mani e occhi fra due letture altrettanto interessanti per quanto diverse nella loro intensità: un bel tomo, pesante anche al tatto, del mio tanto amato Tiziano Terzani, in un’edizione che qualsiasi grafico avrebbe voglia di ridisegnare tanto è anonima e, dall’altra parte, una breve ma di difficile comprensione opera di Ettore Sottsass in un amabile formato. Nell’incrocio fra i testi trovo un interessante connessione che riguarda anche me. Sottsass invita i lettori a scrivere solo immensi diari. Il tomo di Terzani che tanto mi appassiona altro non è che uno dei suoi diari, pubblicato postumo dalla moglie Angela. Io mi trovo accanto a un finestrino che per me è un diario. Eppure questa volta non riesco a isolare quella parte al di qua del finestrino. Non come vorrei. Tutti accanto a me sembrano avere un’ incontenibile voglia di parlare. Parlare fra di loro, parlare da soli, parlare al telefono e sì, anche parlare con me. Il mio essere infastidita da questa situazione mi è monito di tutte le volte in cui io, con i miei sproloqui, infastidisco altri. Ma in fondo la mia parlantina è spesso oggetto di risate, quindi, forse, va bene così. In tutto ciò credo di aver creato sul viso quell’espressione stolta di chi trasporta sui connotati facciali un pensiero avuto. Avuto a mente. Eppure l’espressione la leggeranno tutti quelli che sono seduti di qua dal finestrino. Sto dando a tutti la mia espressione. La gente potrebbe chiedere. 

Mentre le mie mani e i miei occhi scorrevano fra due libri, ce n’era un terzo a richiamare la mia attenzione. Apparteneva alla signora seduta accanto a me. Una suora. Tutto di lei era in contrasto con la mia persona. Si potrebbe dire che il mio al di qua del finestrino e il suo fossero due mondi diversi. Ma lo spazio che condividevamo era lo stesso. Ho pensato che sarebbe stato bello provare a creare uno spazio, lei ed io. Che strana idea. Ma deve averla colta. Chissà, sicuramente sarà stata colpa, ancora una volta, di quella mia espressione facciale che mi tradisce sempre. Così, dopo vari tentativi di dialogo da parte della suora e dopo svariati tentativi da parte mia di far intendere quanto fossi presa dalle mie letture, mi sono tolta gli occhiali e li ho appoggiati sul tavolo. Solo così ho potuto osservare quello che avevo dato per scontato. Il suo al di qua era costituito da una borsa che solo le suore possono avere, sì, proprio stile suora, un rosario e quel libro. Credevo che fosse un libro di preghiere. Lo avevo dato per scontato. Al suo interno il biglietto cartaceo del treno e sopra, in pila, un telefonino degli anni ottanta. Non era un libro di preghiere. Quello era un libro di poesie. Tutto il resto invece era come avevo inteso.

Foto di Ilaria Palmieri

Continuava a chiedermi in quale stazione fossimo. Come se non lo annunciassero dalla voce meccanica e lenta degli altoparlanti del vagone ogni mezz’ora. Poi ho capito, voleva raccontarmi la sua storia. Non ho avuto chissà che intuizione, me l’ha proprio detto esplicitamente. Ero in trappola. Da un lato le mie amate letture e i pensieri che scorrevano e con loro la calma e la meditazione dopo la vacanza, dall’altro una vecchietta con una pelle che mi ricordava quella di mia nonna Aurora. Non avevo mai rivisto una pelle come la sua. Ma la suora ce l’aveva. Rosea e pendente, morbida nelle sue rughe. Decisi di ascoltarla, o meglio, di assecondare la sua richiesta. Bianca Rosa avrebbe compiuto novant’anni il seguente dicembre. Proprio come mio nonno Vittorio. Le vicinanze, fisiche e simboliche, tra lei e i miei nonni avevano cominciato ad incuriosirmi. Suora Paolina aveva vissuto fra Spagna, Ecuador e Bolivia. Il modo in cui pronunciava i nomi delle principali città mi ha fatto capire che lei lo spagnolo non lo avesse dimenticato. Ho provato a camuffare la mia ignoranza ma lei lo ha colto e mi ha subito spiegato cosa fosse la congregazione delle suore Paoline. Non nego che questa volta ho mentito nel trasmettere al mio viso un’ espressione di profondo interessamento. Le storie delle suore non hanno mai fatto troppo per me. La storia di Bianca Rosa invece aveva iniziato ad interessarmi, soprattutto quando mi ha confessato di aver paura di viaggiare.

Lei, una grande viaggiatrice, aveva paura di scendere dal treno. Aspettava frenetica il momento del controllo biglietti. Così ha chiesto a me di assisterla. Ogni tanto apriva quel suo libro di poesie. Leggeva, rapida, qualche riga e poi richiudeva subito, come se tra quelle parole ci fosse il suo ricordo di vita. Il ricordo di come si dovrebbe vivere. Chissà. Bianca Rosa era più avventata di me. Lei era su quel treno da prima di me. La sua tratta aveva avuto origine a Torino. E così mi rivela di essere piemontese, delle Langhe. Rimango ancora stupita. Piemontese è anche mia nonna Raimonda. Bianca era tornata a casa per l’avviamento del processo di beatificazione di un suo antenato. O per lo meno questo è ciò che ho compreso. Per fortuna mi ha lasciato uno di quei santini con il nome di tale avo. Potrei cercare e ricordare. Credevo che non volesse sapere nulla di me. Era così bello ascoltarla, provare a entrare nelle sue parole per fare qualche domanda in più. Ma Bianca andava dritta con il racconto. Non era un dialogo quello. Lei mi stava rovesciando addosso la sua storia. E la cosa mi piaceva da matti.

Foto di Ilaria Palmieri

Poi, dal nulla, ha taciuto. Mi ha guardata dritta negli occhi e poi ha guardato le mie mani abbronzatissime e piene di anelli. Mi ha riguardata, questa volta concentrandosi sugli occhiali da sole vintage che tenevo sulla testa a mo’ di cerchietto e mi ha rivolto queste parole: si vede che hai voglia di vivere. Mi disse che, vagamente, le ricordavo lei alla mia età. Mi disse che quando la chiamavano al telefono in quegli anni lei rispondeva dicendo “pronto chi è, io sono la ragazza più felice del mondo”. Nel raccontarlo muoveva il suo corpo come a riprodurre quella vitalità che di certo avrà avuto nel pronunciare quelle parole al telefono. 

Davanti a noi erano seduti una mamma e un bimbo con gravi problemi di salute. Dall’altra parte del corridoio, ma sempre al di qua del finestrino, c’erano il marito di lei e l’altro figlio, adolescente e perfettamente sano. Il più piccolo dei figli si dimenava. A lui non è stato dato il dono della parola, per cui, per esprimersi, emetteva così tanti suoni gutturali e si muoveva così tanto con il corpo da non potermi indurre a far altro che rispondere a Bianca Rosa “anche lui ha tanta voglia di vivere”. Ed è così che quell’ al di qua del finestrino si è ampliato ed è diventato uno spazio. Siamo stati noi a crearlo. La famiglia presentava forti connotati arabi. Erano svedesi. Il loro inglese era perfetto e, a loro dire, anche il mio. Così racconto della mia infante vita londinese. Sul viso del marito una dolce espressione di conferma gli taglia un sorriso. Bianca Rosa però non capiva l’inglese e ho cominciato a fare da tramite in quello spazio. Si è creata così tanta vita. Ci siamo condivisi così tante conoscenze. Spieghiamo loro cosa e dove visitare di Roma. Gli svedesi venivano da una gita a Pisa. Con vergogna confesso di non esserci mai stata. Ci andrò, prometto.

Per un momento, con la coda dell’ occhio, ho guardato al di là del finestrino. Eravamo in zona Tiburtina. Inutile dire che Bianca Rosa, come ogni anziano, aveva avuto, durante l’intero viaggio, l’ansia di prepararsi alla discesa ad ogni stazione. Così quel tratto Tiburtina – Roma Termini ce lo siamo fatte in piedi. La aiutavo con le valigie. E poi è successo. Si è letteralmente appiccicata al finestrino. Entrambe le mani premevano sudate il vetro. Poi ha appoggiato anche il naso. Ma gli occhiali erano di intralcio e con un leggero sussulto l’hanno fatta allontanare. Bianca Rosa guardava al di là del finestrino. Voleva capire da che parte fosse la piattaforma da cui saremmo scese per cercare sua sorella che la sarebbe venuta a prendere. Ma il finestrino, fino all’ultimo, non rivela mai dove sarà la piattaforma. Così lei era lì: inchiodata. Mi chiese di scendere prima di lei, per farle da scudo, così disse. Precisiamo che Bianca Rosa non sarà stata tanto più alta di un metro e cinquanta. C’è chi vede in me una giraffa e chi ci vede uno scudo. Bel gioco di sfumature. Avevo salutato rapidamente ma calorosamente gli svedesi, lasciandoli ad immaginare il racconto della mia esperienza in Svezia che avevo appena condiviso. Provenivano da Malmo. Ed io ci ero stata.

Il treno inizia a frenare e con lui tutto quell’ al di qua del finestrino della carrozza sette. Da bravo scudo quale sono scendo e poi aiuto Bianca Rosa a fare altrettanto. Con gli occhi cerco la sorella che avrebbe dovuto essere lì. Ma non vedo nessuno. Mi rendo conto di aver cercato inconsciamente qualcuno i cui connotati avevo solo potuto immaginare. Come dice Bruno Munari, l’immaginazione non si pensa, si vede. Ed è così che ho individuato quella piccola sorella, ancora più minuta di Bianca Rosa, a dimenarsi fra le valigie più alte di lei per farsi vedere. Bianca Rosa, seppur rispettosa, non era mai stata, in tutto quel viaggio, gentile con me. Eppure, appena incontrata la sorella, l’ha presa per la mano e le ha detto: “abbraccia questa ragazza. Ha fatto tanto per me”. Ora, definirlo un abbraccio sarebbe metaforico e futuristico. Credo che da fuori saremmo apparse come due figure in un quadro di Munch. Io alta e ricurva su un piccolo bocciolo anziano e tremolante.

L’ al di là del finestrino, questa volta, come sfondo.

Cenere in Bocca di Brenda Navarro: il dolore che scatena la rivoluzione

Ho intervistato Brenda Navarro – attivista, esperta in studi di genere e scrittrice messicana – in un corridoio dipinto di giallo in occasione della presentazione a Più libri più liberi 2023 del suo nuovo romanzo, Cenere in bocca, edito in Italia da La nuova frontiera con traduzione di Gina Maneri. Una scrittura reale e potente, che costringe il lettore a fare i conti con il dolore di non sentirsi a casa in nessun luogo, di non avere gli strumenti necessari per gestire la propria sofferenza. In queste pagine c’è una corda tesa tra il Messico e la Spagna, c’è la violenza di genere e c’è la storia di una famiglia non propriamente tradizionale, ammesso che la famiglia tradizionale esista (SPOILER: non esiste). Ma in fondo a tutta questa oscurità si nasconde la speranza, anche se all’inizio si fa fatica a scorgerla. Ma lasciamo che sia direttamente l’autrice a raccontarcelo. 

Hola Brenda, ¿Qué tal?  Questo romanzo parla di tante cose: l’emigrazione, la famiglia, la violenza di genere, il Messico. Ma qual è, secondo te, la vera forza generativa di questa storia?

Io credo che sia il dolore. È sempre il dolore che si insinua e lega tutti i personaggi tra di loro. Innanzitutto, il dolore della protagonista per il suicidio di Diego, suo fratello, ma anche per il fatto di riconoscere di non essere più una bambina e di dover necessariamente diventare adulta. Poi, c’è il dolore della madre per aver abbandonato i suoi figli, il dolore della nonna nel vedere tutta la sua famiglia partire, il dolore del Messico che è totalmente latente e il dolore della Spagna, che finisce per non comprendere le persone immigrate che la sostengono: lo Stato spagnolo sta rinunciando a una grande opportunità di riconfigurarsi ed evolversi. Quindi non penso al dolore in senso strettamente fisico ma come principio trasformatore: se non hai un dolore fisico o emozionale rimani dove sei. Quando invece è il dolore che muove te o la società è il momento in cui accadono le cose. A me interessa che accadano cose nella letteratura. Credo che Cenere in bocca nasca esattamente da quest’esigenza.

Quindi il dolore come motivazione. A tal proposito, un aspetto che mi ha molto interessato è la relazione tra i due fratelli, Diego e la protagonista. Tra loro c’è una sorta di polarizzazione: due modi differenti di affrontare la vita. Come hai costruito questa relazione? C’è qualcosa di autobiografico?

Credo possa essere autobiografico il fatto che ho una sorella e perciò so bene cosa significhi il concetto di fratellanza e inoltre credevo che fosse importante parlarne perché nel mio primo romanzo (Case Vuote n.d.r.) avevo trattato il tema della maternità e di come noi donne viviamo molte oppressioni a riguardo, quindi mi sembrava interessante cambiare il punto di vista e indagare come i figli e le figlie vivono la maternità e come si genera l’alleanza tra fratelli. Sono convinta, e a volte ho paura di dirlo pubblicamente, che l’unica relazione in cui il mercato e il sistema non sono riusciti ad entrare perfettamente è quella tra fratelli. I fratelli e le sorelle sono le uniche persone all’interno del concetto di “famiglia tradizionale” che sono uguali, sempre in contrasto con il potere della madre e del padre, e questa complicità, questo volersi bene odiandosi allo stesso tempo, mi sembra che sia il grande motore della società, ciò che permette che continuiamo ad esistere. Non importa se odi tuo fratello perché potrai contare sempre su di lui, non importa quanto siate diversi perché ci sarà sempre qualcuno a cui potrai rivolgerti quando sei triste. 

Poi mi piaceva questo fatto che i due fratelli protagonisti fossero come il giorno e la notte: lei che parla sempre molto, lui molto silenzioso. Questa dualità nella forma di rappresentarli è come la dualità che esiste in Messico: da un lato gli uomini che sono maltrattati perché sono poveri, perché non corrispondono all’idea dell’uomo bianco in un Paese che quasi lo esige (in questo caso la Spagna), silenziosi, che non sanno esprimere il proprio dolore; dall’altro lato la donna che per la sua capacità di usare la parola come mezzo di espressione sostiene la stessa vita. In questo senso per me è stato importante parlare di fratellanza. 

A me sembra che Diego prenda una decisione molto chiara suicidandosi, più netta rispetto alle scelte di sua sorella, che comunque si trova a prendere decisioni importanti. Mi ha colpito molto questo distacco…

Sì, è in quel momento che avviene un confronto vero con la sorella, perché lei continua a domandarsi il motivo per cui Diego abbia compiuto quel gesto, raccontandosi che gli voleva bene ma conscia anche del fatto che fosse diventato un ragazzo insopportabile, un ladro, un bugiardo. Mentre per lei il suicidio del fratello rappresenta uno spartiacque fra il capriccio dell’adolescenza e il coraggio di diventare adulta e di riconfigurare il suo dolore e il suo modo di stare al mondo, Diego decide di non restare in questo mondo. A un certo punto del romanzo dice: «A che serve rimanere in questo mondo? A fare il soldato in Messico o a essere una persona che non riesce ad adattarsi in Spagna?». Suicidandosi è come se avesse affermato: «Almeno questa decisione è mia, non lo hanno scelto per me gli altri senza che io stesso non lo abbia già deciso».

C’è un passaggio molto emozionante, quando la protagonista comincia a mettersi la cenere del fratello morto in bocca, come se volesse incorporarlo dentro di sé. Ho trovato un richiamo antropologico in questo gesto perché, come saprai, presso molte popolazioni dell’America Latina e quindi anche del Messico, ci sono molte celebrazioni legate ai morti, dove addirittura si “mangiano i morti” attraverso cibi antropomorfi, come a rappresentare un ciclo continuo tra la vita e la morte. Perché la tua protagonista mangia suo fratello?

Io credo che non se ne renda conto e ora che me lo dici, certo, c’è un dolce in Messico che si chiama pan de muerto, che è buonissimo tra l’altro, e che mi manca moltissimo vivendo in Spagna…

Pan de muerto

Sì, lo conosco bene, piace tanto anche a me (ridiamo n.d.r.)!

Ecco appunto… Comunque per tornare a noi, la metafora della cenere in bocca mi sembrava perfetta per rappresentare il dolore che fisicamente si manifesta nella digestione. Anche lei lo dice nel romanzo, che tutto quello che le succede finisce per farle sentire dolore allo stomaco, quindi probabilmente doveva smaltire il dolore causato dalla perdita del fratello, integrandolo al suo corpo per poterlo superare, trasformandolo in rabbia prima e in accettazione poi. Ma non avrebbe potuto farlo senza prima averlo parzialmente digerito. Non è una metafora molto chiara ma è molto spirituale: non c’è dolore che non passi per le nostre viscere.

Questo romanzo parla anche di femminicidio e di violenza di genere. Uno degli ultimi casi che qui in Italia tutti ricordano è avvenuto nel mese di novembre 2023 quando una ragazza di 22 anni, Giulia Cecchettin, è stata uccisa dal suo ex fidanzato, come succede ogni giorno a moltissime donne. Il 25 novembre qui a Roma c’è stata una grande manifestazione del movimento femmminista e transfemminista Ni una menos, a cui hanno partecipato circa 500.000 persone. Ti volevo chiedere, Brenda, qual è la situazione della violenza di genere oggi in Messico? Pensi che stia migliorando qualcosa riguardo la sensibilizzazione delle persone anche da parte del governo?

Il Messico è uno stato femminicida, e io ne sono profondamente convinta. Ci sono molte intellettuali e scrittrici che lo hanno spiegato sicuramente meglio di me, nel loro ambiente si parla molto della Pedagogia della crudeltà e di quello che significa femminicidio, che non è soltanto la reiterazione del “noi continuiamo a fare quello che vogliamo con il corpo delle donne, incluso ucciderle”. Io non vedo alcuna soluzione, ogni giorno in Messico le donne vengono uccise, c’è una violenza normalizzata, c’è una totale mancanza di responsabilità da parte dello Stato e non credo che questo possa cambiare. Quello che sta cambiando è la presa di coscienza delle donne: stanno nascendo molte reti tra di noi. Ricordo che durante una manifestazione, molto probabilmente quella dell’8 marzo, una donna ad un certo punto ha detto: «Il mio aggressore è qui vicino!» e si è creata una catena di donne che l’hanno accompagnata a denunciarlo proteggendola, per impedire che quest’uomo si avvicinasse. Questo tipo di azioni le compiamo senza il permesso dello Stato e credo che siano il motivo per cui continuiamo a sopravvivere, in Messico, in Spagna o in Italia, in tutto il mondo.

Quindi per te la soluzione saranno le reti di supporto reciproco tra donne…

Sì, oltre all’attivismo e alla disobbedienza civile.

In Cenere in bocca c’è anche un tema musicale. Infatti, Diego, il fratello della voce narrante, ascolta i Vampire Weekend, una rock band originaria di New York. Perché hai scelto questa band? C’è qualche motivo in particolare?

Sì, innanzitutto a me piacciono e poi c’è anche un’altra ragione: sono i tipici universitari, bianchi, privilegiati che nelle loro canzoni parlano di temi politici senza realmente mojarse, cioè senza che ciò li riguardi direttamente. I loro testi però sono molto politici e trattano questi argomenti in maniera molto allegra e questo mi fa arrabbiare perché io non riesco a scrivere qualcosa di allegro. Mi sembrava una grande metafora di come un ragazzo razzializzato, povero, si voglia rifugiare in questo sogno americano o europeo che non riuscirà mai a raggiungere, e quindi l’unica maniera di viverlo è tramite la musica. Volevo anche fare un’autocritica del perché mi piaccia la musica di questo tipo e del perché io abbia così interiorizzato il sogno americano. Di questo mi sono resa conto solo vivendo in Spagna, perché in Messico gli Stati Uniti sono molto vicini e le aspirazioni si costruiscono molto in questa direzione, mentre vivendo in Europa è stato più facile per me “disamericanizzarmi”.

La band statunitense Vampire Weekend

Brenda, a questo punto, mi è rimasta un’unica cosa da chiederti: dov’è la speranza in questo romanzo? Ammesso che ci sia…

Io credo che il momento in cui viene fuori in maniera evidente è quando la protagonista dice: «Io ho due madri». La storia comincia con lei che è arrabbiatissima con la madre, sentendosi una sua vittima e finisce con la consapevolezza che la madre è anche una donna e che può contare non solo su di lei ma anche sulla sua compagna Jimena, e pensa che forse può stare tranquilla sul concetto di maternità, sul fatto di essere figlia e sul fatto di sapere che la famiglia non deve essere per forza “tradizionale” ma che gli affetti, le relazioni tra donne – ma vale lo stesso per gli uomini – risiedono non nel cercare ciò di cui si ha bisogno all’esterno ma nel tirare fuori il meglio da ciò che si ha. Questo credo che dia molta speranza perché è quello che rimane a tutte le persone che non possiedono mezzi di produzione né soldi, che probabilmente non avranno mai la pensione: la compagnia e gli affetti. 

L’affetto è alla base della rivoluzione e voglio ripetere questa cosa: non esiste movimento sociale, politico, femminista e non, che abbia cambiato tanto il mondo se non con questa sola arma. Questo è semplicemente meraviglioso.

Cenere in bocca (titolo originale: Ceniza en la boca), Brenda Navarro, trad. Gina Maneri, La Nuova Frontiera, Roma, 2023, pp. 192, € 17,90

Not just a perfect day

Uscita dalla sala, ho notato la ragazza addetta alle pulizie svuotare i cestini e spazzare. Una volta uscita dal cinema, ho fatto caso a una piccola lavanderia pubblica, alle lavatrici aperte, alle centrifughe ferme. Le chiamerei suggestioni, se non avessi appena visto un film di Wim Wenders. E Wenders insegna come prepararsi alla vita dopo il film e come prestare attenzione a tutto ciò che ci circonda con un nuovo sguardo. Fare esperienza insieme agli altri, in una dimensione collettiva, aperta, come la sala cinematografica, ci prepara di nuovo alla vita dopo il film.

Ogni giorno Hirayama si prepara per accogliere, propiziare l’esistenza attraverso gesti che scandiscono la sua quotidianità, conferendo a questa un ritmo, il ritmo di una liturgia, non solo privata. Non è un caso che la parola greca eitourghia significhi “servizio pubblico”, in quanto composta da lḗiton (“il luogo degli affari”) ed érgon, “opera”. Gesti, opere, servizi resi alla comunità, silenzi e sorrisi descrivono Hirayama, le sue giornate, e gradualmente rivelano  il suo passato, la sua storia. Il culto, di cui è espressione questa liturgia che non traccia confini tra privato e pubblico, è l’attenzione che investe e ri-investe ogni giorno tutte le cose di una sacralità creaturale.

Con la stessa dedizione con cui coltiva le sue piante, con cui legge un libro la sera prima di addormentarsi, con la costanza con cui cambia rullino e fa sviluppare le fotografie fatte durante il giorno, con la gratitudine e la curiosità che gli fanno sollevare gli occhi verso il cielo ogni volta che esce di casa o fa una pausa al lavoro per contemplare gli alberi, gli arabeschi di luci e ombre che si riflettono sui muri, con l’attenzione e la discrezione con cui va incontro a ciascun essere umano che incontra, Hirayama pulisce i bagni pubblici di Tokyo, ogni giorno. 

Ogni giorno il suo risveglio somiglia a una rinascita, la rinascita concomitante della natura, il risveglio dell’attenzione verso tutte le cose e verso tutti gli esseri. Ogni giorno nella solitudine e nel silenzio di Hirayama fioriscono l’attenzione e l’accoglienza, la solitudine diviene spazio, quello della sua casa che scopriamo man mano, man mano che tutte le porte si aprono e la luce del giorno illumina le stanze, uno spazio luminoso, un raggio di sole che attraversa la finestra e rende visibile l’invisibile. Lo spazio della sua casa, usata solo per dormire, dare acqua alle piante e conservare, e quello architettonico e bizzarro delle toilette di Tokyo, un luogo altro da cui guardare alla vita della grande metropoli, al suo via vai, al suo ritmo disarmonico, meccanico, disattento.

L’idea del film è nata a Tokyo e non avrebbe potuto essere realizzata altrove.

Mi piace se una storia e la sua ambientazione sono entrambe una necessità.

Wim Wenders

È Tokyo la metropoli futurista per eccellenza (a metà tra quella di Lost in translation di Sofia Coppola e di Tokyo Story di Ozu), ma nonostante l’ultra modernità i giapponesi non hanno dimenticato l’essenziale. È a Tokyo che dei bagni pubblici, costruiti durante la pandemia, disegnati da importanti architetti che hanno conferito bellezza ad un bene comune, possono diventare simbolo del «gioioso senso del vivere insieme» che, in Giappone, si è rafforzato proprio a seguito della reclusione collettiva vissuta da tutti noi. Un simbolo della cura delle cose comuni come fossero mie. Hirayama, una volta concluso il suo turno, va a lavarsi in una lavanderia pubblica dove c’è anche un piccolo salotto in cui ritrovarsi con con altri uomini, va a cenare nei soliti posti, sedendosi al solito posto eppure riesce sempre a notare qualcosa di diverso attorno a lui. 

È la lingua giapponese che ha una precisa parola per descrivere la luce che filtra tra gli alberi: komorebi. Parola che nasce dall’unione di tre radici semantiche: ki, “albero”; more, “perdere”, “gocciolare”; hi, “sole”, “giorno”. È il percorso della vita: una nascita ed una continua rinascita attraverso l’esperienza della perdita intesa come metamorfosi, mutevolezza, e della fugacità intensa come forza vitale. 

Il contrappunto di luci e ombre nella vita di Hirayama viene sfumato facendosi komorebi: lasciando trapelare la luce (alla fine) ma solo attraverso l’ombra, quella della solitudine quando non ha nessuno da accogliere, quella del passato che ci insegue e ci trova diversi, cambiati. L’ombra di Hirayama la si intravede una notte: c’è un uomo, con la sua divisa da lavoro, che non va a cenare al solito posto, non prende il solito piatto, ma beve e fuma una sigaretta. Un Hirayama che cede al superfluo, al vizio, abbandona per un attimo l’essenziale, e sembra cedere proprio al suo passato, senza schiacciarne l’ombra e scoprendo che due ombre, quelle di due esseri umani, non si fanno più scure se sovrapposte, se insieme, se coincidenti. 

Amo le toilette ma non volevo farci né un lavoro fotografico né un documentario, perché so che i luoghi non vengono conservati bene nei documentari. 

Il cielo sopra Berlino conserva la città meglio di qualsiasi documentario perché racconta una storia di angeli

Ciò che custodisce l’essenza di Tokyo e dei giapponesi è la storia di Hirayama, di un semplice addetto alle pulizie dei bagni pubblici della città. Un soggetto e un lavoro insoliti, una scelta che ci ri-abitua alla vita, come fa Jim Jarmusch con Paterson, l’autista di autobus che legge William Carlos Williams e scrive poesie ispirandosi alle conversazioni dei passeggeri udite sull’autobus.

La maestria di Wenders sta nel rappresentare una quotidianità sempre uguale e sempre diversa al contempo, in cui accade un eterno e sempre diverso ritorno dell’uguale, si rinnova la fedeltà al divenire, alla metamorfosi incessante, quella lenta e quasi invisibile, impercettibile, la tensione alla vita dell’essere cessa di essere angosciosa e si fa delicata, lenta, lenta come il curare, il coltivare.  

Un’altra volta è un’altra volta, adesso è adesso

Con queste parole Hirayama risponde a sua nipote, una luminosa ombra del passato che si ripresenta, una ragazzina molto educata, con due lunghe code di cavallo, che gli domanda quando andranno a vedere il mare al di là del ponte che li separa da esso. Le sue parole, ripetute dalla giovane, diventano i versi di una canzone inventata. Parole che rievocano quelle che formano la callida iunctura oraziana “carpe diem”. Il senso delle callidae iuncturae latine è quello di accostare una parola quotidiana ad un’altra che di solito non accompagna la prima, e così creare un accostamento inaspettato. In questo caso il sostantivo “giorno” è accostato ad un un verbo agricolo, quello che traduciamo come “cogliere” in realtà indica l’atto concretissimo di cogliere qualcosa con lacerazione lenta. È come se la celebre massima “cogli l’attimo” venisse a sovrapporsi, a coincidere con quella che invita a cogliere i frutti maturi.

Il ‘carpere’ è il prendere il chicco da un grappolo, un petalo da un fiore, una foglia da una pianta, il frutto da un albero

Ivano Dionigi

Non a caso Hirayama porta con sé una piccola foglia comparsa alla base di un albero posto vicino a un parco giochi e che un senzatetto ogni giorno abbraccia danzandovi intorno. Un gesto simbolico con cui scava nel terreno più fertile delle nostre vite, quello in cui omnia sunt communia. Tutte le cose sono in comune.

La monotonia è pegno di sincerità

Lo scriveva Pavese riferendosi alla cadenza del racconto, alla ritmica del raccontare. Un ritmo, qualcosa che ritorna. Ritorna nella monotonia di Hirayama, il gioco di luci e ombre creato dagli alberi, sempre uguale e diverso, ritorna il vagabondo che danza muovendo le mani nell’aria e abbraccia gli alberi, ritorna la ragazza col caschetto biondo per restituirgli la musicassetta e ascoltarla un’ultima volta nel suo minivan. Tutto quello che ha visto, vissuto in una giornata ritorna in bianco e nero, sotto le sue palpebre, quando la sera chiude gli occhi. Volti, cortecce, chiome di alberi, cerchi di luci e ombre si sovrappongono, rumori e silenzi si fondono. Tutto viene custodito con cura.

Mi sembrava sbagliato concepire uno “spartito” per questa semplice quotidianità. […] il suo gusto musicale ci ha regalato una colonna sonora della sua vita: Velvet Underground, Otis Redding, Patti Smith, i Kinks, Lou Reed e molti altri, oltre alla musica giapponese di quel periodo.

Wim Wenders

Non una partitura strumentale ma le musicassette che ascolta in macchina, il ritmo delle sue canzoni preferite. I pieni e i vuoti in arpeggio della ballata folk-rock dei The Animals, nella versione originale e in quella giapponese scritta da Maki Asakawa in cui si allenta la tensione della rabbia e questa si fa canto, il ritmo reggae e giocoso di Redondo Beach di Patti Smith, la continua alternanza di alti e bassi di Perfect Day (Lou Reed), la sua lentezza e il suo crescendo che culmina nella potente Feeling good di Nina Simone, scandita da continui climax ascendenti. Tutti i suoni, ma anche tutte le luci e le ombre che filtrano dalle foglie degli alberi, vengono orchestrati, nella scena finale, nel lungo primo piano finale e dallo sguardo in macchina di Hirayama che piange e ride allo stesso tempo, dando vita ad un luminoso chiaroscuro e ad un’unica sinfonia, quella di un giorno perfetto che è ogni giorno. Tutto quel che fa Wenders è declinare al plurale il perfect day di Reed. 

“Senza disturbare nessuno” di Luca Giachi


L’autore mi assicura, con un filo di emozione ancora indomita, che per lui la scuola è stata un vero calvario. E aver cambiato liceo tra il biennio e il triennio delle superiori ha solo in parte alleggerito il carico: di certo non ha sconfitto un suo forte sospetto, che la scuola è il luogo meno indicato per promuovere lo sviluppo della persona, vulnerabile per acclarata verità oggettiva, che è lo/la studente, ed è l’ultimo posto dove si riesca ad apprezzare il gusto della lettura come esperienza di vita in formato alternativo all’esperienza diretta da cui siamo incessantemente travolti.


Luca Giachi, autore di Senza disturbare nessuno, romanzo Giunti destinato in un primo momento alla collana ARYA (libri per Young Adults) e poi approdato nella collana Waves (Onde, come il magnifico romanzo della nostra cara Virginia Woolf, capace nella prima pagina di farci provare il mal di mare), ci ha offerto queste sue osservazioni, semplici e accorate, al Parco Nemorense, durante la presentazione dello scorso 25 luglio, tra le 19 e le 20, davanti a un pubblico numeroso e molto partecipe, sorvegliati, io e lui, dalle brave libraie di L’Altracittà, libreria non universitaria di via Pavia, e da un vento quasi fresco che ha alleggerito non poco la suggestiva ma temuta calura estiva.


Il Parco Nemorense è uno dei luoghi del romanzo: è il parco dove il protagonista, Enrico, diciottenne bocciato alla maturità nel 2017, veniva portato a giocare da bambino da sua madre, Caterina, che ora, come docente di sostegno, si prende cura di Simona, bambina disabile, figlia del libraio titolare di Tra Le Righe in viale Gorizia, e sorellina di Valeria, dalla capigliatura colorata e piercing e tatuaggi sparsi, che Enrico, il giovane protagonista e voce narrante, conosce già, perché Valeria invece l’anno prima è riuscita a superare l’esame di stato e ora circola libera e felice nel mondo.


Poi un libro lega tra loro queste persone, due di loro in particolare: la raccolta delle poesie di Antonia Pozzi – Caterina, madre dolce e remissiva di Enrico, ne ha fatto dono ad un uomo che non è il padre di Enrico ma è proprio il padre di Valeria e Simona, il libraio di Viale Gorizia appunto. Prima di dirvi quale ruolo fondamentale, ma un po’ avrete cominciato a figurarvelo, hanno in questa storia libri e librai, biblioteche e bibliotecarie, poesia e poeti, e poi romanzi e romanzieri/e, e cantanti e canzoni, penso sia giusto trattenerci ancora un po’ sui luoghi del romanzo, che sono poi due, significativamente esplorati, e, per così dire, “viaggiati”.


Sia detto per inciso: l’impressione è che sia dominante nel romanzo, cioè c’è al suo fondo, un’idea dinamica di relazione tra le persone, e delle persone coi luoghi, e anche dei luoghi tra loro, non solo come quinte o sfondi, ma come interagenti con attori e vicende per le loro peculiari caratteristiche e qualità, segnaletici anche della valutazione sociale di questo convulso mondo di personaggi, bisognosi di esporsi o viceversa creature civili e pacate che hanno scelto vite appartate per proteggere la parte più tenera e vulnerabile di sé.


I due luoghi sono Roma e Fregene. Roma con i suoi quartieri diversi, tante piccole città dentro la macro città eterna, versioni diverse di umanità conviventi profondamente distanti: il nostro protagonista e io narrante viene dal quartiere Trieste e si muove verso il Quarticciolo dove frequenta la biblioteca, e verso il Quadraro Vecchio dove va ad una festa di saluto della sua amica bibliotecaria, dieci anni più grande di lui e molto sensibile all’Enrico potenziale forte lettore che lei sa educare nel modo più civile e gentile che c’è, con l’esempio e con l’ascolto. Poi c’è l’EUR, quartiere futurista romano, bellissimo e straniante, dove lavora il padre di Enrico: uomo meticoloso diligente preciso (parole che Enrico non gli lesina, spingendo sull’effetto alienante che queste qualità possono avere su chi lavori e basta) su cui, anche grazie a questo figlio che sempre più prende quota ai suoi occhi come persona, cala una coltre lenta di incertezza e destabilizzazione, fino a spingerlo a cambiare vita. E c’è il Parco degli Acquedotti con i concerti (gruppo di turno: i Citrosodina Alcolica, un nome che è tutto un programma) dove i ragazzi e le ragazze si ritrovano per poter andarci a pogare.


E Fregene, con la sua famosa miracle beach, evocata con un nome appena appena ritoccato ma per chi conosce il posto subito riconoscibile, e soprattutto ritratta esattamente nel luogo un po’ glamour e un po’ sparone che in effetti è, con i suoi cocktail a bordo mare e i suoi tramonti rituali e idolatri, con le ragazze in micro-bikini praticamente attrici di film americani, con le Smart parcheggiate storte e a sfregio cioè apposta in divieto di sosta, e col proprietario, zio del nostro protagonista, fratello di sua madre: due persone agli antipodi, lo zio, descamisado e tutto esteriore, un po’ buzzico, la madre viceversa dolce riservata silenziosa. S’aggiungono Mario, barman mago dei cocktail, e Silvia, che serve ai tavoli sotto lo sguardo triste di lui.

Il nostro protagonista, “piccolo Enrico”, rifiutato dalla scuola e dalla prof di Italiano, e ancora incagliato al punto d) di un suo decalogo ideale (cioè all’impossibilità per adesso di perdere la verginità con Marta che lui crede di amare) ha questo lavoretto estivo come punizione (pure!): dal 1° luglio della disgraziata torrida estate della bocciatura entra nello staff della miracle beach, alle dipendenze di suo zio, e così avvia la spola tra Roma e Roma, tra Roma e Fregene, tra i tramonti glamour sul mare e la casa dei nonni dove da bambino ha passato estati lunghe e felici. E lì fa delle scoperte magnifiche e cruciali sul fronte del tema centrale del libro, che ha, l’autore, giustamente reclamato, nel corso della nostra presentazione, come archetipo universale: il rapporto di un figlio con sua madre. Un tema profondo che intrattiene una relazione forte con
l’urgenza, fattasi oramai irrimandabile per il protagonista, di prendere in mano il proprio destino e cominciare a comprendere le persone fondamentali della propria vita: un’esigenza che passa per lui anche attraverso un rapporto finalmente franco e libero con i libri e la poesia, con i grandi scogli che la scuola ti mette davanti finendo per sbarrarti la strada con domande inutili e pretestuose (come nelle interrogazioni della prof di Italiano), e con la sensazione, parole testuali, che alla fine quegli anni siano stati un’occasione persa.


Il suono che fa da colonna sonora a questo rapporto, dolce affettuoso protettivo, e a tutto il libro, è il silenzio. Il silenzio come deserto affettivo prima o disconnessione d’affetti, suono del ritrarsi in una vita rinunciataria, vissuta senza disturbare nessuno, e poi come convivenza e corrispondenza ritrovata, come comprensione del figlio che ricomprende sua madre, finalmente vista non solo dalla parte del cuore ma come donna, proprio come suo padre, con cui non c’era mai stata vera condivisione profonda, in questo passaggio e grazie a questa crisi, diventa finalmente una persona rivelandoglisi molto meno invincibile, molto meno
determinato.


Un romanzo come storia di un giovane che cresce insieme a quanti condividono il suo percorso e cambiano con lui: non un romanzo di formazione in senso stretto, ha reclamato da qualche parte l’autore, ma discussione in forma di narrazione del rapporto, sì, di un figlio con sua madre, ma, di più, aggiungo io, del rapporto degli adolescenti (creature in cruciale maturazione) col mondo degli adulti (prepotente e già categorizzato), che, spesso in modo drammatico e oppositivo, passa attraverso la scuola.


In questo dettaglio, la ribellione ad essere etichettati a forza, c’è un po’ il nocciolo tematico del libro come il tratto saliente del protagonista, e dopotutto il cuore della poetica di questo autore, giunto al terzo romanzo – i primi due pubblicati con Hacca: Oltre le parole (2008, Mondello Opera Prima) e Come una canzone (2017).


Dopotutto questo romanzo è anche la rivendicazione di un diritto all’ascolto che Enrico rivolge a degli adulti sordi ad ogni richiamo perché intenti a stabilire cosa è meglio per formarlo, cioè incasellarlo, come cittadino, senza nessun riguardo per la felicità, per esempio, o per la sincera e urgente espressione di sé, da salvaguardare per lui e per tutti i ragazzi e le ragazze come lui: una libertà di essere a cui dopotutto anche Marta, presunta fidanzatina, pare aver già rinunciato visto che parla o scrive, dice Enrico, come una pubblicità.


In chiusura, due doverose osservazioni.


La prima è che c’è anche molta allegria e comicità in questo libro, insite entrambe proprio nelle situazioni e in alcune delle persone in esse coinvolte. Fenomenale, per esempio, la prof di Italiano, la Zornolotti (un nome che è tutto un programma, crasi ed epitome delle peculiarità del personaggio), l’unica a non cambiare veramente ma a rivelare semmai un lato mondano del tutto insospettabile, infine sottratta in calcio d’angolo alla caratura di pura caricatura da un minuscolo riferimento che vi lascio il gusto di scoprire. Forte poi Mario, il cocktail barman: a prima vista uno come Fabris (ricordate Compagni di scuola?), destinato invece a mostrare tutta la sua dignità di persona compiuta, benché resti a lungo affezionato al proprio personale crollo.


La seconda fa riferimento alla presenza già accennata della musica, nelle gemme dei Clash e degli Smiths, malinconica felicità o felice malinconia in note, a cui si aggiungono le scoperte degli American Football e dei Black Flags, fino a certi gruppi rock-pop de noantri che rifiutano le etichette di genere per ammettere di fare musica improbabile. Sarà appena il caso di ricordare che: l’autore è musicista (chitarrista); in uno dei primi capitoli, attraverso l’io-narrante, affida l’inventario del proprio caso alla struttura compositiva della canzone; il secondo romanzo di questo autore, già lo si diceva, si intitola proprio Come una canzone.

In casi come questo, viene voglia di chiedersi perché un ragazzo come Enrico, diciottenne nel 2017, aderisca idealmente e affidi la propria espressività alla musica degli anni ’70 e ’80, e, a dispetto di tutto, l’unica risposta che si riesce a trovare è che si trattava proprio di ottima musica.

Al fondo più in fondo, la vera domanda è: cosa rende attuale ciò che è repertorio e in alcuni casi già classico? La risposta, questo romanzo, che tutto sommato racconta la conquista di sé con sempre più convinta presa sulla realtà da parte del protagonista-narratore Enrico e il suo sempre più lucido giudizio sul mondo e sulla vita, la affida al protagonista nascosto, allo sparring partner occulto dell’io narrante: Giacomo Leopardi!

Mare fuori, dentro Napoli

Mare fuori è una delle serie tv del momento: le prime tre stagioni hanno registrato record di spettatori e il fermento per l’uscita della quarta stagione è palpabile nell’aria. La serie ha fatto incetta di premi ai Ciak d’oro Serie tv ed è stata incoronata Serie dell’anno ai Nastri d’Argento 2023.

Mare fuori parla di detenzione minorile, di Napoli e, nel corso delle stagioni, affronta una serie di altri temi – in maniera più o meno approfondita e condivisibile – legati alle vite dei personaggi (dall’immancabile camorra alla violenza di genere, dai suicidi in carcere al fenomeno culturale della trap). 

Ma dove finisce la realtà e dove inizia la fiction? Quali i pregi e quali le criticità di questo prodotto? 

Le problematiche che emergono sono perlomeno due: l’ambientazione della serie e la rappresentazione che questa fa del carcere.

Vivo a Napoli da nemmeno tre anni e certamente non mi è possibile comprendere a fondo le dinamiche della città, ma la quotidianità qui vissuta, l’attività svolta con realtà anticarcerarie del territorio, la visione della serie e il confronto con persone a me vicine hanno innescato una serie di riflessioni che vorrei condividere, anche nella speranza che possano portare a ulteriori momenti di ragionamento e confronto collettivi.

Napoli tra set e realtà 

Mare fuori è ambientata a Napoli, set di tanti altri prodotti culturali degli ultimissimi anni, come, ad esempio, È stata la mano di Dio (P. Sorrentino, 2021), La vita bugiarda degli adulti (2023) e Piano Piano (N. Prosatore, 2023), giusto per citarne alcuni e senza la volontà di esprimere pareri a riguardo.

Napoli è la città di Liberato – progetto musicale tra realtà e real neapolitan experience – e dei Nu Genea, oramai noti ben oltre il territorio partenopeo. 

Da anni è invasa da orde di turisti che la immortalano, usano e gettano via. Anche la passione per la propria squadra di calcio è stata in parte turistificata. Gli Airbnb infestano il centro storico e non solo: il tempo di una spesa e nel tuo palazzo è già sbucato un nuovo b&b, e i prezzi di friggitorie, pizzerie, bar e ristoranti lievitano insieme ai prezzi degli affitti e delle case. Lo stesso non vale però per i salari. 

È una città divorata dagli occhi, dalle orecchie e dalle papille gustative di chi se la mangia per poi spesso sputare nel piatto, ed è una città che, a sua volta, divora chi la abita.

Napoli è anche la città in cui il Movimento di Lotta – Disoccupati “7 novembre” scende costantemente in piazza per reclamare diritti, lavoro e reddito, ottenendo in cambio da parte delle istituzioni silenzio, manganellate e repressione giudiziaria.

È una delle ormai tante città con affitti folli in cui le case vengono occupate – con tutti i problemi burocratici e penali a ciò annessi che le persone occupanti si trovano ad affrontare – e in cui attivisti politici e abitanti reclamano il diritto ad abitare la propria città.

A Napoli, a marzo 2020, è stato ucciso Ugo Russo, un ragazzo di 15 anni freddato a colpi di pistola da un carabiniere fuori servizio durante il tentativo di rapina – con una pistola giocattolo – dell’orologio Rolex del militare. Il colpo letale sarebbe stato esploso mentre Ugo era già in fuga. Il carabiniere, dopo tre anni di indagini e di fase preliminare del procedimento penale, è stato rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario. Il 12 luglio il processo innanzi alla Corte di Assise di Napoli è stato rinviato al 27 settembre.

Sempre a Napoli, a marzo 2023, Francesco Pio Maimone, diciottenne di Pianura, quartiere nella periferia occidentale della città, mentre era in giro con degli amici sul lungomare di Mergellina, è stato ucciso da un proiettile vagante esploso da un suo coetaneo.

Napoli è una di quelle città in cui se sei dei quartieri poveri e/o periferici e vieni ucciso, scattano prima le indagini sulla tua vita, sul tuo contesto familiare e sociale, e poi sulla dinamica dei fatti.

È la città dallo stereotipo facile e dalla comprensione decisamente più difficile.

Cattivi ragazzi

Nel mezzo di questo vortice di immagini, suoni, odori, persone e notizie è più agevole aggrapparsi a categorie semplici anziché immergersi in ragionamenti complessi, alimentando così, da un lato, la falsa idea di una “vera Napoli”, e, dall’altro, un sempre più profondo divario tra “la gente per bene” e “i malavitosi”, tra i bravi e i cattivi ragazzi.

Il collocamento nell’una o nell’altra categoria avviene sulla base di una serie di elementi, tra cui, innegabilmente e principalmente, la classe. 

E, sulla base di questa ripartizione, se sei benestante e commetti un delitto, tendenzialmente rimani comunque una brava persona; se sei povero, già si sapeva che eri un criminale. 

“Ugo non era solo quell’errore” afferma sua zia in uno dei diversi momenti organizzati dal  Comitato Verità e Giustizia per Ugo Russo. 

La risposta per affrontare una serie di problematiche della città, tra cui la dispersione scolastica, la disoccupazione, il lavoro in nero e la mancanza di servizi pubblici – dai trasporti alla sanità, dalle scuole alle spiagge libere –, può soltanto essere l’adozione di politiche sociali.

Fondamentale, inoltre, è non ridurre tutto a criminalità organizzata, narrazione invece spesso adottata dall’amministrazione territoriale (sia comunale sia regionale) e da quella giudiziaria, le quali riescono così ad ottenere gioco facile nella repressione dei fenomeni sociali.

C’è davvero il mare fuori? 

All’interno di questo apparente caos dotato in realtà di sue logiche di oppressione e sfruttamento (certamente più complesso di quanto riportato in questo articolo), si inserisce Mare fuori, serie tv ambientata in un carcere minorile a Napoli. 

Se, da un lato, il prodotto ha il pregio di aver portato a un livello di massa la questione della detenzione minorile e una serie di altri temi più o meno sviluppati nel corso degli episodi attraverso la narrazione delle storie di vita dei personaggi, dall’altro lato, pecca sotto diversi punti di vista, tra cui, come anticipato, la rappresentazione della realtà detentiva. 

Mare fuori racconta il carcere come una famiglia, una comunità, adombrando in gran parte la rigidità e la violenza dell’istituzione carceraria, soprattutto minorile. 

Il penitenziario rompe i legami con il mondo esterno e i propri cari; al suo interno possono nascere rapporti di solidarietà e affetto, ma per volontà (o costrizione) delle persone detenute, non certamente per predisposizione fisiologica dell’istituzione. 

Per tali e altre ragioni, il carcere non è un luogo in cui le persone desiderano tornare. 

Il problema di Mare fuori è la rappresentazione, in alcune storie, di quella che pare quasi essere un’acritica predilezione del carcere al mondo esterno.

Tenendo ferma questa problematicità, ciò mette però in luce una dinamica brutale della nostra società, da affrontare da un’angolazione prospettica differente da quella assunta dalla serie tv. Nel mondo “libero” esistono infatti situazioni di estrema marginalità, caratterizzate da povertà, mancanza di una casa, di una rete familiare e sociale, alcol/tossicodipendenza, problemi legati alla salute mentale. A determinare queste situazioni è un sistema economico-sociale di sfruttamento e produzione di queste stesse marginalità, responsabile, inoltre, della mancanza di servizi idonei, strutture e supporti. 

Si tratta di situazioni talmente marginali che le persone – ferme restando le paure e le  aspre critiche nei confronti del sistema carcerario, nonché la speranza di uscirne il prima  possibile e di non farci ritorno – a volte finiscono con l’affermare di aver trovato nel carcere la possibilità di avere un letto, dei pasti, delle cure e una formazione, non avendo nulla e nessuno ad attenderle fuori. 

Il punto non è, però, riconoscere un’umanità al carcere, ma affermare la disumanità della società nella quale viviamo, che ricorre a un’istituzione violenta come quella penitenziaria per il contenimento di problematiche sociali, non offrendo possibilità alternative. Il carcere non è la cura, il carcere fa parte del problema, ed è superabile solo attraverso una trasformazione radicale della società nella quale viviamo.

La sanzione del carcere, inoltre, non termina con il fine pena, ma influenza anche la vita dopo l’esecuzione della condanna, soprattutto per quel che riguarda la ricerca di un lavoro e l’effettiva possibilità di trovare un proprio posto nella società. 

La domanda sorge quindi spontanea: esiste davvero il mare fuori dopo il carcere? Esisteva prima?

Gioventù reclusa

Secondo il diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione redatto dall’associazione Antigone, i ragazzi detenuti negli Istituti Penali per Minorenni (IPM) al 15 marzo 2023 sono 380, di cui 12 ragazze. I ragazzi stranieri costituiscono il 46,8% del totale dei ragazzi detenuti, ovvero 178. Tra loro, le ragazze sono 5.

Sebbene l’applicazione della pena carceraria sia inferiore in caso di commissione di reati da parte di soggetti minorenni rispetto a quanto avviene in caso di soggetti adulti, il calo di presenze registrato durante la pandemia da Covid-19 ha mostrato come il ricorso al carcere potrebbe essere ulteriormente contenuto.

Analizzando le cause della detenzione e la tipologia di reati commessi, emerge come, anche in ambito minorile, la reclusione non sempre si basi sulla gravità del reato né costituisca l’extrema ratio.

“Come Antigone va ripetendo da molti anni – si legge nel rapporto –, continua ad essere vero che il sistema, il quale nel complesso ha funzionato nell’intento di rendere residuale il ricorso al carcere, lo ha fatto meglio per alcuni e peggio per altri: meglio per chi aveva maggiori garanzie relazionali anche prima del reato, peggio per chi ne aveva di meno”.

A riprova di ciò, il numero di stranieri aumenta all’aumentare dell’afflittività della pena.

Infine, si legge nel rapporto che le norme sull’ordinamento penitenziario minorile, introdotte nel 2018, che prevedevano ad esempio le visite prolungate (di maggiore durata rispetto al semplice colloquio in presenza e da svolgersi in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti), faticano a tradursi in pratica.

La questione, ancora una volta, è guardare al carcere come al problema e non come alla soluzione, e provare a riflettere ed agire sulle problematiche sociali e strutturali che stanno a monte della detenzione e del sistema penale minorile.

Oltre la serie, nella quotidianità della città 

E mentre tutt* parlano di Mare fuori, i tribunali, su impulso dell’amministrazione della città, hanno imposto la cancellazione del murale con il quale parenti e solidali chiedevano verità e giustizia per la morte di Ugo Russo, rimosso da questi ultimi a marzo 2023.

Non è la prima volta che murales dedicati alla richiesta di verità e giustizia per l’uccisione di giovanissimi vengono rimossi dietro volere dell’amministrazione locale. Era già successo, ad esempio, con il murale dedicato a Luigi Caiafa, morto per mano di un poliziotto durante una rapina anche in questo caso fatta utilizzando una pistola giocattolo. Luigi era un giovane di Forcella, quartiere contraddittorio di Napoli la cui strada centrale è ormai utilizzata come galleria di accesso al parco giochi che è diventato il centro storico.

L’amministrazione della città in cui è ambientata la serie tv (che, nel terzo episodio della terza stagione, Doppia vendetta, raccontando la vicenda di Salvo, probabilmente trae ispirazione da quella di Ugo) è infatti interessata a rendere visibile ciò che porta turismo e fa profitto, non ciò che rende evidenti le contraddizioni e le discriminazioni sociali del territorio.

Probabilmente se Ugo Russo fosse stato un personaggio di Mare fuori il suo murale non avrebbe dovuto essere cancellato e sarebbe anzi diventato una meta turistica.

Ma questa è un’altra storia, perché quella di Ugo, invece, è una storia reale.

Al pari di quella di Davide Bifolco, George Floyd, Nahel e tant* altr* ancora.