Not just a perfect day

Uscita dalla sala, ho notato la ragazza addetta alle pulizie svuotare i cestini e spazzare. Una volta uscita dal cinema, ho fatto caso a una piccola lavanderia pubblica, alle lavatrici aperte, alle centrifughe ferme. Le chiamerei suggestioni, se non avessi appena visto un film di Wim Wenders. E Wenders insegna come prepararsi alla vita dopo il film e come prestare attenzione a tutto ciò che ci circonda con un nuovo sguardo. Fare esperienza insieme agli altri, in una dimensione collettiva, aperta, come la sala cinematografica, ci prepara di nuovo alla vita dopo il film.

Ogni giorno Hirayama si prepara per accogliere, propiziare l’esistenza attraverso gesti che scandiscono la sua quotidianità, conferendo a questa un ritmo, il ritmo di una liturgia, non solo privata. Non è un caso che la parola greca eitourghia significhi “servizio pubblico”, in quanto composta da lḗiton (“il luogo degli affari”) ed érgon, “opera”. Gesti, opere, servizi resi alla comunità, silenzi e sorrisi descrivono Hirayama, le sue giornate, e gradualmente rivelano  il suo passato, la sua storia. Il culto, di cui è espressione questa liturgia che non traccia confini tra privato e pubblico, è l’attenzione che investe e ri-investe ogni giorno tutte le cose di una sacralità creaturale.

Con la stessa dedizione con cui coltiva le sue piante, con cui legge un libro la sera prima di addormentarsi, con la costanza con cui cambia rullino e fa sviluppare le fotografie fatte durante il giorno, con la gratitudine e la curiosità che gli fanno sollevare gli occhi verso il cielo ogni volta che esce di casa o fa una pausa al lavoro per contemplare gli alberi, gli arabeschi di luci e ombre che si riflettono sui muri, con l’attenzione e la discrezione con cui va incontro a ciascun essere umano che incontra, Hirayama pulisce i bagni pubblici di Tokyo, ogni giorno. 

Ogni giorno il suo risveglio somiglia a una rinascita, la rinascita concomitante della natura, il risveglio dell’attenzione verso tutte le cose e verso tutti gli esseri. Ogni giorno nella solitudine e nel silenzio di Hirayama fioriscono l’attenzione e l’accoglienza, la solitudine diviene spazio, quello della sua casa che scopriamo man mano, man mano che tutte le porte si aprono e la luce del giorno illumina le stanze, uno spazio luminoso, un raggio di sole che attraversa la finestra e rende visibile l’invisibile. Lo spazio della sua casa, usata solo per dormire, dare acqua alle piante e conservare, e quello architettonico e bizzarro delle toilette di Tokyo, un luogo altro da cui guardare alla vita della grande metropoli, al suo via vai, al suo ritmo disarmonico, meccanico, disattento.

L’idea del film è nata a Tokyo e non avrebbe potuto essere realizzata altrove.

Mi piace se una storia e la sua ambientazione sono entrambe una necessità.

Wim Wenders

È Tokyo la metropoli futurista per eccellenza (a metà tra quella di Lost in translation di Sofia Coppola e di Tokyo Story di Ozu), ma nonostante l’ultra modernità i giapponesi non hanno dimenticato l’essenziale. È a Tokyo che dei bagni pubblici, costruiti durante la pandemia, disegnati da importanti architetti che hanno conferito bellezza ad un bene comune, possono diventare simbolo del «gioioso senso del vivere insieme» che, in Giappone, si è rafforzato proprio a seguito della reclusione collettiva vissuta da tutti noi. Un simbolo della cura delle cose comuni come fossero mie. Hirayama, una volta concluso il suo turno, va a lavarsi in una lavanderia pubblica dove c’è anche un piccolo salotto in cui ritrovarsi con con altri uomini, va a cenare nei soliti posti, sedendosi al solito posto eppure riesce sempre a notare qualcosa di diverso attorno a lui. 

È la lingua giapponese che ha una precisa parola per descrivere la luce che filtra tra gli alberi: komorebi. Parola che nasce dall’unione di tre radici semantiche: ki, “albero”; more, “perdere”, “gocciolare”; hi, “sole”, “giorno”. È il percorso della vita: una nascita ed una continua rinascita attraverso l’esperienza della perdita intesa come metamorfosi, mutevolezza, e della fugacità intensa come forza vitale. 

Il contrappunto di luci e ombre nella vita di Hirayama viene sfumato facendosi komorebi: lasciando trapelare la luce (alla fine) ma solo attraverso l’ombra, quella della solitudine quando non ha nessuno da accogliere, quella del passato che ci insegue e ci trova diversi, cambiati. L’ombra di Hirayama la si intravede una notte: c’è un uomo, con la sua divisa da lavoro, che non va a cenare al solito posto, non prende il solito piatto, ma beve e fuma una sigaretta. Un Hirayama che cede al superfluo, al vizio, abbandona per un attimo l’essenziale, e sembra cedere proprio al suo passato, senza schiacciarne l’ombra e scoprendo che due ombre, quelle di due esseri umani, non si fanno più scure se sovrapposte, se insieme, se coincidenti. 

Amo le toilette ma non volevo farci né un lavoro fotografico né un documentario, perché so che i luoghi non vengono conservati bene nei documentari. 

Il cielo sopra Berlino conserva la città meglio di qualsiasi documentario perché racconta una storia di angeli

Ciò che custodisce l’essenza di Tokyo e dei giapponesi è la storia di Hirayama, di un semplice addetto alle pulizie dei bagni pubblici della città. Un soggetto e un lavoro insoliti, una scelta che ci ri-abitua alla vita, come fa Jim Jarmusch con Paterson, l’autista di autobus che legge William Carlos Williams e scrive poesie ispirandosi alle conversazioni dei passeggeri udite sull’autobus.

La maestria di Wenders sta nel rappresentare una quotidianità sempre uguale e sempre diversa al contempo, in cui accade un eterno e sempre diverso ritorno dell’uguale, si rinnova la fedeltà al divenire, alla metamorfosi incessante, quella lenta e quasi invisibile, impercettibile, la tensione alla vita dell’essere cessa di essere angosciosa e si fa delicata, lenta, lenta come il curare, il coltivare.  

Un’altra volta è un’altra volta, adesso è adesso

Con queste parole Hirayama risponde a sua nipote, una luminosa ombra del passato che si ripresenta, una ragazzina molto educata, con due lunghe code di cavallo, che gli domanda quando andranno a vedere il mare al di là del ponte che li separa da esso. Le sue parole, ripetute dalla giovane, diventano i versi di una canzone inventata. Parole che rievocano quelle che formano la callida iunctura oraziana “carpe diem”. Il senso delle callidae iuncturae latine è quello di accostare una parola quotidiana ad un’altra che di solito non accompagna la prima, e così creare un accostamento inaspettato. In questo caso il sostantivo “giorno” è accostato ad un un verbo agricolo, quello che traduciamo come “cogliere” in realtà indica l’atto concretissimo di cogliere qualcosa con lacerazione lenta. È come se la celebre massima “cogli l’attimo” venisse a sovrapporsi, a coincidere con quella che invita a cogliere i frutti maturi.

Il ‘carpere’ è il prendere il chicco da un grappolo, un petalo da un fiore, una foglia da una pianta, il frutto da un albero

Ivano Dionigi

Non a caso Hirayama porta con sé una piccola foglia comparsa alla base di un albero posto vicino a un parco giochi e che un senzatetto ogni giorno abbraccia danzandovi intorno. Un gesto simbolico con cui scava nel terreno più fertile delle nostre vite, quello in cui omnia sunt communia. Tutte le cose sono in comune.

La monotonia è pegno di sincerità

Lo scriveva Pavese riferendosi alla cadenza del racconto, alla ritmica del raccontare. Un ritmo, qualcosa che ritorna. Ritorna nella monotonia di Hirayama, il gioco di luci e ombre creato dagli alberi, sempre uguale e diverso, ritorna il vagabondo che danza muovendo le mani nell’aria e abbraccia gli alberi, ritorna la ragazza col caschetto biondo per restituirgli la musicassetta e ascoltarla un’ultima volta nel suo minivan. Tutto quello che ha visto, vissuto in una giornata ritorna in bianco e nero, sotto le sue palpebre, quando la sera chiude gli occhi. Volti, cortecce, chiome di alberi, cerchi di luci e ombre si sovrappongono, rumori e silenzi si fondono. Tutto viene custodito con cura.

Mi sembrava sbagliato concepire uno “spartito” per questa semplice quotidianità. […] il suo gusto musicale ci ha regalato una colonna sonora della sua vita: Velvet Underground, Otis Redding, Patti Smith, i Kinks, Lou Reed e molti altri, oltre alla musica giapponese di quel periodo.

Wim Wenders

Non una partitura strumentale ma le musicassette che ascolta in macchina, il ritmo delle sue canzoni preferite. I pieni e i vuoti in arpeggio della ballata folk-rock dei The Animals, nella versione originale e in quella giapponese scritta da Maki Asakawa in cui si allenta la tensione della rabbia e questa si fa canto, il ritmo reggae e giocoso di Redondo Beach di Patti Smith, la continua alternanza di alti e bassi di Perfect Day (Lou Reed), la sua lentezza e il suo crescendo che culmina nella potente Feeling good di Nina Simone, scandita da continui climax ascendenti. Tutti i suoni, ma anche tutte le luci e le ombre che filtrano dalle foglie degli alberi, vengono orchestrati, nella scena finale, nel lungo primo piano finale e dallo sguardo in macchina di Hirayama che piange e ride allo stesso tempo, dando vita ad un luminoso chiaroscuro e ad un’unica sinfonia, quella di un giorno perfetto che è ogni giorno. Tutto quel che fa Wenders è declinare al plurale il perfect day di Reed. 

Pubblicato da Lucrezia Ceglie

Nata ad Acireale nel 2000. Laureata in Lettere moderne con una tesi che indaga il rapporto tra letteratura, arti visive, società e utopia attraverso la poesia visiva. Attualmente iscritta al corso di laurea magistrale in Filologia moderna, indirizzo comparatistico, presso l'Università degli Studi di Catania. Crede nella letteratura come sapere comprensivo e comparativo, pari e colloquiante, come un colloquio tra i mondi del mondo. Umanista e (quasi) filologa comparatista, anche cinefila démodé appassionata di cinema d'autore.

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