«Y así como todo cambia que yo cambie no es extraño». Le parole di Mercedes Sosa accompagnavano una decina di anni fa una delle scene più significative di Habemus Papam di Nanni Moretti: la canzone si propaga lenta negli ambienti vaticani, donando una sorta di spensierata liberazione a una guardia svizzera, ai cardinali, al fuggitivo papa, interpretato magistralmente da Michel Piccoli, che cammina per le strade di Roma come un comune cittadino, e per un momento il peso degli eventi sparisce, lasciando spazio ad una melanconica allegria.

Tutto cambia in continuazione e quindi anche noi cambiamo. Anche il cinema cambia, pur rimanendo sempre lo stesso: un baluardo in cui rifugiarsi per difendersi dal marasma della vita frenetica che ci scorre ogni giorno sotto ai piedi e ci sequestra la mente. Entrare in un cinema significa entrare in un luogo sacro, una chiesa, un tempio. L’odore di velluto delle poltrone ha l’odore dell’incenso e della salvia bruciata. La celebrazione si compone delle scene che si susseguono sullo schermo. Il rito collettivo si compie ogni volta senza che ce ne accorgiamo: la sala è fatta di persone che condividono emozioni ed esperienze, ingredienti essenziali per il compimento della magia. La melanconica allegria.
Il sol dell’avvenire, l’ultimo film di Nanni Moretti uscito il 20 aprile e prossimamente in concorso a Cannes, è un tipo di celebrazione a cui vale la pena assistere. C’è la storia del cinema; la storia di un partito, il PCI del ’56 che si trova spiazzato dall’invasione sovietica dell’Ungheria; la storia di un amore, quello del regista Giovanni per la moglie Paola (Margherita Buy) che viene stroncato dalla decisione di quest’ultima di lasciarlo dopo molti anni insieme; la storia di una vita, quella di Nanni Moretti stesso che, come in tutti i suoi film (tralasciando forse Tre Piani, figlio di un romanzo altrui) mette a nudo la sua personalità consegnandoci le chiavi per entrare nel suo tempio.
«Un rito è un rito, e deve essere sempre lo stesso, altrimenti va tutto male», ce lo dice Giovanni mentre si accinge a rivedere Lola di Jacques Demy insieme alla figlia, interpretata dall’attrice Valentina Romani, come ogni volta che inizia a girare un nuovo film. Gelato e copertina all’uncinetto di “Sognid’oresca” memoria compresi. Ed è per questo che non ci si deve meravigliare di fronte alle innumerevoli citazioni che si trovano sparse per l’intero film: dal nome del circo ungherese Budavari, che arriva nel quartiere Quarticciolo di Roma accolto dalla sezione Antonio Gramsci del PCI in cui militano il sensibile giornalista dell’Unità Ennio (Silvio Orlando) e la sua innamorata Vera, interpretata da Barbora Bobulova, alle disquisizioni sulle scarpe (qui non ci sono solo le temibili pantofole ma anche gli altrettanto famigerati sabot); dalle reazioni fanciullesche di fronte ai commenti altrui alla meravigliosa sequenza di rimostranze a causa di una scena di un altro film prodotto dalla moglie Paola, giudicata inutilmente violenta, che ricorda inevitabilmente l’accusa al critico cinematografico nel primo episodio di Caro Diario. Questa volta però la mitica Vespa è sostituita dal più contemporaneo monopattino.


La struttura dei film morettiani deve essere sempre la stessa pur cambiando. Si tratta di qualcosa di più profondo di una semplice sceneggiatura: è un patto di fiducia con lo spettatore, che sa perfettamente che con Moretti si scandagliano tutti i più piccoli aspetti della psiche, che emergono e con cui non sappiamo neppure di dover fare i conti finché non entriamo in sala. Lo strazio per la fine di un amore viene sublimato dalla passione per il cinema e dai balletti immaginati e allo stesso tempo profondamente reali sulle note di Voglio Vederti Danzare di Battiato. L’ironia malinconica e catartica con cui il regista mescola piani diversi – vita privata, sogno, set – trasfigurano questo film in tanti film diversi nella stessa pellicola.
E se è vero che «Non torneranno più le merendine di quand’ero bambino, i pomeriggi di maggio, mamma! Mia madre non tornerà più! », è anche vero che andare al cinema – meglio ancora se questo cinema è il Nuovo Sacher di Roma – per vedere Nanni è come tornare da quel vecchio amico che non vedi da cinque anni, sapendo che lo troverai diverso, ma sempre lo stesso. Che potrai ridere con lui ricordando vecchie storie, grazie a quel codice linguistico e relazionale che conoscete soltanto tra di voi, ma che ci sarà anche il momento per la nostalgia e per la paura del futuro, con qualche lacrimuccia di contorno. Niente che però non si possa affrontare con un po’ di musica italiana o di Aretha Franklin sparata a volume altissimo mentre si guida di notte sul lungotevere di Roma, diretti verso un buon «gelatino».
Perché il segreto è quello di giocare a far sul serio e di continuare ad avere speranza nel futuro, in quel sol dell’avvenire che intravediamo come una luce nel buio mentre veniamo confortati da chi ci conosce e ci vuole bene, dalle nostre passioni, dal grande cinema che non deve essere grande solo quando è pronto a stupirci con colpi di scena fantasmagorici o picchi di sceneggiatura di invidiabile originalità, ma anche perché rinsalda legami preesistenti e ci permette di continuare ad emozionarci come bambini. È proprio il caso dell’ultimo capolavoro di Nanni Moretti.
