Smarginare tra la strada, la fotografia e il romanzo

È passato più di un anno da quando ho iniziato ad abbozzare questo testo: ero appena arrivata a Napoli, più disorientata di quanto credessi. Persa tra le strade della città e le possibili vie della mia vita, ho provato a tradurre in scrittura questo flusso confusionario di pensieri che, almeno fino a ieri, non ero più riuscita a mettere in ordine.

Dopo un pomeriggio piuttosto pesante al lavoro, sono andata al cinema con l’intenzione di vedere Licorice Pizza, ma il film non era in programma e così sono finita nella minuscola sala in cui proiettavano La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal – tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante –, del quale ero comunque in attesa.

Uscita dal cinema, ancora trafitta dal film, mi è arrivata la notizia della morte di Letizia Battaglia.

Ho capito allora che era giunto il momento di rimettere mano a questi cocci di pensieri sparsi e, allo stesso tempo, connessi.

1. Smarginare attraverso lo sguardo

L. Battaglia, La bambina con il pallone, La Cala (Palermo), 1980

È in questa immagine che le figure di Letizia Battaglia ed Elena Ferrante si incrociano e sovrappongono inconsapevolmente, costrette dalla mia necessità di creare relazioni, dando un volto ai personaggi dei libri e una storia alle persone immortalate nelle fotografie. Capelli un po’ arruffati dall’aria di mare e dalla polvere sollevata nel giocare per strada, sguardo penetrante e interrogativo – quasi inquisitore –, espressione corrucciata: sono questi i dettagli che mi erano rimasti impressi de La bambina con il pallone e che hanno fatto ri-emergere dagli abissi della mia scarsa memoria questa fotografia mentre leggevo le descrizioni di Lila ne L’amica geniale.

«Era arruffata, sporca, alle ginocchia e ai gomiti aveva sempre croste di ferite che non facevano mai in tempo a risanare. Gli occhi grandi e vivissimi sapevano diventare fessure dietro cui, prima di ogni risposta brillante, c’era uno sguardo che pareva non solo poco infantile, ma forse non umano».

La miccia di questa connessione è stato lo sguardo: uno sguardo che è uguale e diverso allo stesso tempo, che racconta un dolore che è intimo e comune. È uno sguardo «forse non umano» che catalizza, che si rende finestra su vite parallele destinate a intersecarsi.

La storia di Lila, della bambina col pallone e delle tante altre protagoniste (o possibili tali) dei ritratti di Ferrante e di Battaglia è la storia, infatti, di soggettività appartenenti a mondi, luoghi e tempi differenti, accomunate però dalla subalternità che caratterizza il loro essere «donne, più o meno giovani, ritratte nella relazione con le molteplici oppressioni agite dal dominio patriarcale», come scrive Isabella Pinto nel suo libro Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività, riprendendo la stessa autrice.

È in questa rete di rimandi che racconto e fotografia si dissolvono, che la finzione della narrazione e i confini della fotografia si infrangono nella realtà, in una quotidianità fatta di violenza patriarcale e delle forme di resistenza e di lotta che le si oppongono.

È nel 1980 – anno in cui la fotografia viene scattata – che Lila per la prima volta ha chiaro il concetto di smarginatura e cerca di spiegarlo a Lenù.

«[…] Questa sensazione si era accompagnata a una nausea e lei aveva avuto l’impressione che qualcosa di assolutamente materiale, presente intorno a lei e intorno a tutti e a tutto da sempre, ma senza che si riuscisse a percepirlo, stesse spezzando i contorni di persone e cose rilevandosi. […] Nell’occasione in cui mi fece quel racconto, Lila disse anche che la cosa che chiamava smarginatura, pur essendole arrivata addosso in modo chiaro solo in quell’occasione, non le era del tutto nuova. Per esempio, aveva già avuto spesso la sensazione di trasferirsi per poche frazioni di secondo in una persona o in una cosa o un numero o una sillaba, violandone i contorni. […] Ma quella notte di Capodanno le era accaduto per la prima volta di avvertire entità sconosciute che spezzavano il profilo del mondo e ne mostravano la natura spaventosa. Questo l’aveva sconvolta».

La natura spaventosa del mondo, fatto di brutture e violenze, si palesa anche a Eugenia – bambina che ricorda quelle ritratte da Battaglia o Ferrante –, protagonista del racconto Un paio di occhiali,  che apre la raccolta Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese.

Quando Eugenia finalmente indossa il suo primo paio di occhiali e riesce a mettere a fuoco il mondo attorno a sé, la reazione non è di entusiasmo: vedere il mondo in maniera più nitida significa rendersi conto che, in realtà, non è poi così bello.

Significa individuare le relazioni di potere e le linee di oppressione che caratterizzano la nostra società, svelandone l’impalcatura gerarchica e la sostanza di privilegi e soprusi.

Ed è proprio perché viviamo in un mondo che crolla a pezzi, in cui noi stessi siamo a pezzi, che è fondamentale riconoscersi e allearsi, unirsi per essere quantomeno dei pezzi uniti anziché sparsi.

2. Riconoscersi e abitarsi

«Ancora non mi sono chiari i nostri rapporti. So che certe immagini del mio passato sono entrate nei suoi sogni; che posso scacciare la sua paura opponendole la mia resistenza. So che abito il suo sangue e la linfa dell’albero, ma sento che non mi è concesso di cambiare la sua sostanza, né di usurparle la vita. Lei deve vivere la sua vita; io sono soltanto l’eco di un sangue che appartiene anche a lei»

Gioconda Belli, La donna abitata

La bambina con il pallone vede ritratta una di quelle numerose bambine immortalate da Battaglia, nelle quali la fotografa si rivede e nelle quali rivive.

«Le bambine sono io a cercarle, con molta emozione: quando incontro la ragazzina imbronciata, sulla soglia dell’adolescenza, magra con le occhiaie, i capelli lisci, sono io. E quando la fotografo è come se facessi un incontro di bambina con bambina».

Battaglia, tramite la fotografia, dissolve i confini che separano la sua pelle dal resto del mondo, raccontando una realtà a cui appartiene e rappresentando una pluralità di volti, una polifonia di vissuti e resistenze, di soggettività ai margini della società, delle città e dei quartieri.

«Amo fotografare le donne perché sono solidale: devono ancora superare tanti ostacoli verso la felicità, in questa società maschilista che le vuole eternamente giovani, belle, con una concezione dell’amore che spesso, in realtà, è solo possesso. E cerco gli occhi profondi e sognanti delle bambine: mi ricordano me stessa a dieci anni, quando mi resi conto, di colpo, che il mondo non era poi così bello. Ecco perché le bimbe che ritraggo non ridono mai: le voglio serie nei confronti del mondo, come lo sono stata io».

Immagine che contiene persona, esterni, donna, edificio

Descrizione generata automaticamente
L. Battaglia, Vicino la chiesa di Casa Professa, Palermo, 1991

Ogni vita è in realtà l’intreccio di storie differenti, è l’affermazione di sé attraverso la dissoluzione dei propri confini e l’abitazione con altri vissuti passati e presenti.

3. Gomitoli di relazioni e affetti

Immagine che contiene persona, donna, edificio, inpiedi

Descrizione generata automaticamente
L. Battaglia, Amiche, Cefalù, 1981

Amiche o Le amiche geniali?

La realtà ritratta da Battaglia e Ferrante è una quotidianità fatta di relazioni e amicizie, di rapporti che permettono di riconoscersi nelle differenze e, attraverso queste, resistere, crescere e arricchirsi.

Non si tratta di relazioni di tipo speculare, ma di rapporti che innestano un processo di reciproco riconoscimento e vicendevole influenza, di legami che si alimentano e vivono in maniera vorace, insaziabile di vita, di conoscenza, di metamorfosi.

Accade a Lila e Lenù, come anche accade a Laura e Alina, le amiche de La figlia unica di Guadalupe Nettel: nell’altra ci si (ri)conosce e nell’assenza dell’altra una parte di noi si perde, creando un vuoto non altrimenti colmabile.

«Quanto più amiamo una persona, tanto più fragili, più insicuri ci sentiamo a causa sua. Ho capito quanto fosse importante la presenza di Alina nella mia vita. Esistono esseri senza i quali non ci si può concepire in questo mondo. E per me Alina era uno di quelli. Se fosse scomparsa, una parte di me se ne sarebbe andata con lei».

4. Strumenti per riprendersi «il mondo ovunque sia»

Per Letizia Battaglia il bianco e nero è lo strumento che permette di raccontare la realtà in tutta la sua intensità e complessità, elementi che i colori rischierebbero di far sbiadire, non permettendo di cogliere le sfumature, le luci e le ombre, la particolarità dei luoghi, delle cose, delle persone.

È una realtà che Battaglia è in grado di raccontare perché da lei stessa incarnata, perché abitata dalle persone da lei ritratte.

Per Elena Ferrante esistono prospettive diverse, i vissuti di bambine, di donne, di soggettività spesso taciute, di «personalità diasporiche» che – come scrive Pinto – «abitano, costruiscono e raccontano temporalità postumane».

Esiste un altro tipo di sguardo, imprevisto e posizionato, che irrompe nella narrazione dominante e ne infrange le regole, creando spazi inediti, raccontando immaginari impensati e storie nuove.

Esistono, infatti, infinite storie dentro la Storia, esiste un’irriducibile pluralità di soggetti, di forme di vita e di relazioni, esistono bisogni e desideri inascoltati e, allo stesso tempo, sovversivi.

Esiste la storia di una bambina nata e cresciuta in un rione povero di Napoli, esiste la storia di una bambina che vive e gioca tra le strade di Palermo, esistono innumerevoli storie di bambine che corrono tra le vie di tante altre città del Sud.

Abitare i margini, adottare uno sguardo attraverso il quale riconoscersi e creare connessioni sovversive, tessere relazioni di amore e di lotta.

Fuoriuscire dalla norma, raccontare un’altra storia.

Letizia Battaglia: il nome di quella che è stata una grande fotografa, forse il nome che potrebbe avere ognuna delle bambine da lei ritratte.

Immagine che contiene testo, edificio, vecchio, dipingendo

Descrizione generata automaticamente
Letizia Battaglia ritratta da Lorenzo Burlando

L’immagine di copertina è di Letizia Battaglia.

Suzanne Stein e gli alieni di Skid Row

[…] Sento che è imperativo fotografare tutto e includo nelle mie immagini il soggetto per strada che a volte è difficile da guardare. Ho fotografato molto a Los Angeles, con un interesse speciale per le persone che vivono a Skid Row. Sono stata onorata di fotografare le persone di Skid Row e le mie interazioni e i momenti condivisi con loro mi hanno cambiato per sempre. Mi interessa in particolare fotografare aspetti della vita quotidiana in modo realistico e diretto che presentino la realtà di vite vissute senza pretese. Sento fortemente i problemi di giustizia sociale e sono molto motivata a narrazioni visive che mettano in risalto queste complessità così come nella nostra vita quotidiana.

Queste parole esaltano lo scopo primario della fotografia: testimoniare. Suzanne Stein incarna propriamente questo desiderio, riuscendo ancora, dopo secoli di storia di quest’arte, a sconvolgere le nostre coscienze con immagini che non vorremmo vedere: senzatetto, malati mentali, tossicodipendenti, prostitute, criminali. Osservare realtà così profondamente crude, in un mondo considerato da noi “civilizzato”, è come assistere a uno scandalo, a una delle peggiori sconfitte dell’Occidente. Eppure, le fotografie testimoniano tale realtà con colori che arricchiscono il degrado, abbracciando calorosamente un mondo che ci trasmette amarezza.

Suzanne nasce e cresce a Philadelphia, che lascerà per cominciare a viaggiare di città in città: questo le permette di entrare in contatto con numerose realtà. Si stabilisce a Los Angeles, dove cresce suo figlio da sola tra alti e bassi. Lavora come artista visiva per lungo tempo e, dopo un viaggio in Europa con il figlio nell’estate del 2015, comincia a fotografare estranei per strada con il suo iPhone: in quel momento capisce che la fotografia sarà la sua vita. Documentare e dare voce agli emarginati diventerà la sua battaglia. Tornata dall’Europa, compra la sua prima macchina fotografica, una Fujifilm X-T1, che l’accompagnerà nel suo viaggio. 

Il potenziale illimitato e il potere espressivo della fotografia è infinitamente attraente e mi ha permesso di usare le sfide e le difficoltà che ho dovuto affrontare nella mia vita per raccontare le storie che vedo intorno a me.

Le opere di Suzanne Stein ricordano molto l’estetica di Bruce Gilden, fotografo dei primi anni ’70, che sceglie di rappresentare soggetti sgradevoli, sporchi o kitsch, resi ancora più “anormali” da ritratti grandangolari e dal flash sparato sui loro visi. Questo gli costa non poche risse e denunce. Suzanne invece cammina in punta di piedi ma nello stesso tempo instaura legami con i suoi soggetti, li rende partecipi. Stringe la mano ai senzatetto, abbraccia e tocca le persone: è una prova a cui bisogna sottoporsi per comprendere il contesto in cui si vive ed essere un vero fotografo, non semplicemente un ladro di immagini, che trae profitto dal mondo della miseria e dell’emarginazione. 

È questa la domanda che Stein si pone e che qualsiasi fotografo di strada dovrebbe porsi: qual è il confine tra sfruttamento e testimonianza? La fotografia di strada sui social network (in particolare su Instagram) sosta sul bilico rischioso tra questi due estremi. L’approccio di Suzanne può sembrare invasivo e a discapito dei soggetti, ma  è  la riflessione etica a precedere ogni suo scatto. Il fine della sua fotografia non è alimentare l’ipocrisia dei ricchi, ma riformare la società. Le disumane condizioni in cui vivono alcune persone devono portare a una presa di coscienza e a una riflessione, altrimenti è mero feticismo. L’indifferenza verso questo tipo di  problematiche, coinciderebbe con l’ “oggettificazione” di quelle persone e dunque con un atto di violenza.

La scoperta del quartiere di Skid Row cambierà per sempre Suzanne Stein.

Sembra un paradosso che proprio nel centro di Los Angeles vi sia un posto così. Il nome descrive pienamente l’essenza del quartiere: skid row è un termine che inizialmente viene usato per indicare un luogo in cui si riuniscono persone senza soldi per poi diventare un termine generico che indica una strada degradata della città. Due mesi dopo aver preso la Fujifilm, Suzanne si addentra nel centro di Los Angeles e per la prima volta vede Skid Row, dove avverte una forte tensione fra il degrado e la ricchezza artistica. Oltre ad avere un alto tasso di criminalità e povertà, la zona è patria di molti artisti, essendo in una posizione di confine fra il centro storico di Los Angeles e il distretto delle arti. Da ex-artista Suzanne viene attirata dai colori vivaci dei murales che non nascondono però il degrado: rimane colpita nel realizzare che la splendente “città degli Angeli” – e in particolar modo il suo centro – sia in realtà una discarica a cielo aperto. Suzanne, fotografando questo quartiere, vuole dissipare l’alone di falsità che invade la città di Hollywood.  La fotografa definisce Skid Row come «un fienile che sta bruciando con le porte chiuse, finché non smette di bruciare». Nonostante la stazione di polizia dietro l’angolo, le persone sono abbandonate ai loro escrementi e guardate con indifferenza sia dai passanti  sia dai poliziotti: non sono considerati esseri umani per cui non sono degni di attenzione. 

In un’intervista Suzanne ammette un iniziale timore nel camminare per le strade di  Skid Row, che ha finito per trovare con il tempo caldo e invitante. Tuttavia fotografare all’interno del quartiere è molto rischioso se non si ha familiarità con gli abitanti.

Nelle sue foto i colori saturati rappresentano al meglio l’essenza del quartiere e trasmettono emozioni. Secondo Stein nella street photography c’è un abuso del bianco e nero, che impedisce di rappresentare e percepire al meglio certi aspetti del soggetto. Il colore, la focale grandangolare, la crudezza delle immagini e l’aspetto particolare dei soggetti rende gli scatti di Suzanne rappresentazioni di una realtà completamente aliena, oggetto di scandalo. Senza questo tratto estremo, probabilmente le immagini di questi soggetti non produrrebbero lo stesso effetto negli occhi di chi guarda. 

Preponderante nelle sue foto è anche l’intensità della luce quando il sole è più alto nel cielo: questo elemento trasmette un senso di desolazione, che è evidente nello scatto intitolato Le scarpe di Jerry. Nella foto Jerry siede lungo la Crocker Avenue e ha i piedi sanguinanti. È stato ferito anni prima da un’arma da fuoco con conseguente cecità parziale, deficit dell’udito e problemi cognitivi. Giace lungo la strada sotto il sole che picchia e le sue scarpe (in primo piano) sono quasi completamente consumate.

Stein include nel suo progetto anche gli animali, in particolare i cani, per i quali condivide la passione con il fotografo Elliott Erwitt.  La fotografa però va molto oltre la raffigurazione del loro aspetto buffo e tenero: gli animali sono infatti nella stessa condizione dei padroni, entrambi non sono considerati persone agli occhi della società. Proprio perché condividono il medesimo destino, gli emarginati di Skid Row aiutano gli animali, che vengono maltrattati in modo orribile e vivono in condizioni pietose. 

Nella serie di foto di Skid Row Suzanne racconta anche la vita di molte donne: queste immagini sono testimonianze di vite che altrimenti non sarebbero mai raccontate. Ad esempio c’è Christine, che ha problemi di tossicodipendenza e vive in mezzo a una strada (Towne Avenue). Suzanne non pone censure nel rappresentare le problematiche di questa donna: ci sono, infatti, immagini in cui Christine si buca con la siringa. Le critiche lanciate a questo tipo di foto sono il risultato di pregiudizi, causati dalla scomoda consapevolezza di un mondo che non ci appartiene in quanto privilegiati. Suzanne porta sulle sue spalle il peso di queste storie, ma ritiene che tutto questo sia necessario per sensibilizzare le persone. 

Sempre a Towne Avenue incontra Doreen, che vive dentro una tenda da campeggio insieme al suo compagno: in questa serie di foto  Stein non solo mette in luce le loro problematiche (principalmente legate alla droga), ma anche la forte intimità di due persone affiatate, che al di là di ogni problema saranno sempre unite. Questa intimità viene rappresentata senza alcuna censura, ad eccezione di quella di Instagram.

A Stanford Avenue conosce invece Leanna, una donna anziana che vive in un monolocale al The Lamp Lodge, dove ha accumulato montagne di spazzatura e oggetti, provocando un’infestazione di scarafaggi e roditori. Passa tutto il giorno ad elemosinare e frugare nella spazzatura per sopravvivere e, nonostante ciò, si dedica a curare i gatti randagi. È comune pensare che una persona in condizioni precarie non si preoccuperebbe mai di altri esseri viventi: questa è una visione individualista radicata nella società. Nessuno sa cosa vuol dire essere Leanne: non le si può dire cosa dovrebbe o non dovrebbe fare. Leanne prova empatia per altri esseri che, in quanto viventi, sono vulnerabili come lei.

La fotografia di Suzanne Stein è un grido disperato contro la precarietà della vita e l’ingiustizia della società. Queste persone e questi  animali sono trattati come semplici ombre, puri oggetti, giocattoli abbandonati come nel cimitero dei peluche a Stanford Avenue.

Lo scopo di Suzanne è farci scendere dalle nostre torri d’avorio e farci scavare sottoterra. Fatto ciò, possiamo scegliere se tornare sulla torre o rimanere sottoterra. C’è una terza alternativa: porsi ai limiti, proprio quello che fa  Stein. Portare alla luce chi vive nell’ombra e imparare a vivere con loro. 

Tra deumanizzazione e umanizzazione c’è allora un confine sottile, dipende tutto dallo scopo del fotografo e dal modo in cui viene utilizzata la fotografia. Nella propaganda e nella pubblicità il soggetto non è umano, in quanto già prima dello scatto abbiamo deciso che non lo è. 

Ricordo ancora la volta in cui, passeggiando, ho visto una persona scattare una foto a un senzatetto che dormiva: se l’ intenzione era forse quella di documentare delle problematiche sociali, il rispetto per quella persona era sicuramente passato in secondo piano. Aveva deciso che la scelta del senzatetto non avrebbe contato  nulla, dal momento che aveva scattato una foto mentre dormiva, un momento in cui ognuno dovrebbe essere al sicuro.

Suzanne invece considera ogni soggetto che scatta una persona, trattando con dignità anche gli animali: nelle didascalie di ogni foto è sempre presente il nome di chi è ritratto. Il nome è tra le prime cose che diciamo quando conosciamo una persona, ci rende conoscibili all’altro: una persona senza un nome non viene considerata tale, rimane un fantasma che vaga nella nostra mente e rimane ai margini. Questa è l’essenza della fotografia, questa è la potenza dell’obiettivo nel costruire legami. 

Tutte le fotografie sono tratte dall’archivo Suzanne Stein

La banalità dell’ (in)esistenza: “Un uomo che dorme” di Georges Perec

Qualche tempo fa circolava in rete un video dell’attrice e danzatrice statunitense Margaret Qualley tratto da una scena della serie Maid, che la vede protagonista: sulle note della canzone dei Pixies Where is my mind – riarrangiata al pianoforte senza voce -, la ragazza viene letteralmente risucchiata dal suo divano, fino a scomparire totalmente. Non è un atto involontario: è lei stessa a lasciarsi assorbire, quasi a voler scomparire del tutto. 

È così che inizierei a descrivere il romanzo di Georges Perec Un uomo che dorme. È un libro, di fatto, senza trama. E forse l’unico modo per parlarne è attraverso citazioni testuali.

Il protagonista è un ragazzo di venticinque anni – uno studente squattrinato a Parigi – che una mattina, anziché alzarsi, vestirsi, uscire e andare a fare un esame di sociologia all’università, decide di restare sul divano e di non muoversi da lì, di non considerare più il mondo esterno, ma di incantarsi a guardare il labirinto di crepe sul soffitto. Tutto comincia da quel non-gesto, da quell’atto volutamente mancato.

Mettiamo che tu abbia venticinque anni, o giù di lì. Studi o lavori, ma sei in crisi. Sei talmente in crisi che tutto intorno a te scorre e non riesci a stare al passo, non riesci a seguire il flusso. Niente ti colpisce, e ogni gesto, azione, movimento intorno a te comincia a non avere più un senso. Tutto inizia a diventare indifferente, inconsistente, manchevole di un reale peso specifico.

Qualcosa si stava rompendo, qualcosa s’è rotto. Non ti senti più – come dire? – sorretto: qualcosa che ti sembrava, e ti sembra, t’avesse finora confortato, scaldato il cuore, restituito il sentimento della tua esistenza, quasi della tua stessa importanza, dandoti l’impressione di aderire al mondo e di esservi come immerso, comincia ora a venir meno.

Se hai letto questo passaggio e ti ci ritrovi, se sei in quella soglia d’età in cui tutti procedono, mentre tu sei in crisi, allora faresti bene a leggere Un uomo che dorme – scritto nel 1967 quando Perec aveva trent’anni -, ristampato da Quodlibet nel 2020 (dopo la prima edizione del 2009)  nell’ottima traduzione italiana di Jean Talon e con la postfazione di Gianni Celati. 

Mi scuso in anticipo se ti ho dato del tu, cara/o lettrice/lettore, ma voglio farti entrare nella narrazione, proprio come fa Perec, che utilizza sempre la seconda persona singolare. «Un’unica voce che continua a dire tu, disvelando l’illusorietà di un io personale – sottolinea, infatti, Giovanna Piazza in Squadernauti (22 settembre 2020) -, sebbene le vicende riguardino, in fondo, sempre un unico personaggio. Una voce narrante interna, eppure lontana, capace di non identificarsi con alcunché di particolare, ma solo con il flusso, con il tempo».

Stiamo parlando di una delle maggiori glorie della letteratura francese contemporanea. Nato e vissuto a Parigi, figlio di ebrei polacchi, Georges Perec (1936-1982) è venuto giovanissimo agli onori letterari con il suo romanzo d’esordio Le cose (1965), nel 1967 – anno di pubblicazione di Un homme qui dort – diventa membro dell’OuLiPo (acronimo dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero “officina di letteratura potenziale”), di cui faceva parte anche Italo Calvino: un gruppo (non ristretto) di scrittori e matematici di lingua francese fondato nel 1960 da Raymond Queneau, che mira a creare opere usando, tra le altre, la tecnica della scrittura vincolata detta anche a restrizione. È autore, tra gli altri, de La disparition (1969), W ou le souvenir d’enfance (1975), Je me souviens (1978); il suo romanzo più celebre, La vita istruzioni per l’uso (1978) è stato tradotto in tutto il mondo.

Nell’accingermi a leggere questo piccolo capolavoro, mi sono subito ricordata di un altro libro letto esattamente un anno fa, analogo nella tematica: Naif.Super del norvegese Erlend Loe (Iperborea, 2002).

La mia vita è strana ultimamente; è arrivata a un punto in cui ho perso interesse per tutto

Prima o poi capita a chiunque di svegliarsi una mattina e trovare che la vita non abbia senso. E la pandemia di certo ha amplificato questo sentimento. Al protagonista di Naif.Super succede il giorno del suo venticinquesimo compleanno – una data scoglio (anche chi scrive ha venticinque anni) – il quale, dopo una sconfitta a croquet col fratello, di colpo si rende conto che niente più quadra. E così abbandona l’università, il lavoro saltuario al giornale, la stanza in affitto, vende i suoi scarsi beni e si rifugia nell’appartamento del fratello in viaggio di lavoro, dove passa le giornate sdraiato sul divano a pensare, per cercare di capire se è possibile recuperare la voglia e il senso del vivere. 

E non si tratta solo dell’espressione del malessere della generazione di internet e della globalizzazione, spersa tra l’infinito numero di possibilità e conoscenze di cui non sa che farsene, la miriade di competenze che il mercato del lavoro ci chiede di continuo, i troppi stimoli connessi a un alto senso di inadeguatezza e incertezza verso il futuro, ma anche di una sostanziale rimessa in questione del mondo esistente. La banalità dell’esistere. Il protagonista comincia ad annotare tutto facendo elenchi – di quello che ha e che non ha, di quello di cui sa troppo, di quello che lo entusiasmava da piccolo, di quello che gli piace –, come formule incantatorie per ritrovare un contatto con se stesso, per verificare cos’è davvero il tempo. 

Questa è la tua vita. Questi i tuoi averi. Puoi fare l’esatto inventario del tuo magro capitale, il preciso bilancio del tuo primo quarto di secolo. Hai venticinque anni e ventinove denti, tre camicie e otto calzini, qualche libro che non leggi più, qualche disco che non ascolti più. Non hai voglia di ricordarti di nient’altro, né della tua famiglia, né dei tuoi studi, né delle tue vacanze, né dei tuoi progetti. Hai viaggiato, e dei viaggi non ti resta nulla. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare, aspettare solamente finché non ci sia più niente da aspettare: che venga la notte, che suonino le ore, che i giorni fuggano, che sfumino i ricordi.

Il tempo. Vero motore incalzante dell’opera di Perec. Ma anche il vero protagonista, che però è anche antagonista. Sempre Piazza evidenzia: «Una tensione silenziosa innerva potentemente le pagine di questo libro, quasi che il senso del racconto sia semplicemente nel ritmo, nel dispiegamento incessante della vita del protagonista. 

Il tempo, che su tutto veglia, ha trovato tuo malgrado la soluzione. Il tempo, che conosce la risposta, ha continuato a scorrere.

La lotta contro la ciclicità del tempo, come direbbe Daniele Benati, parafrasando Flann o’Brien: «Con l’andar del tempo tutto ricomincia daccapo». 

Tutto ricomincia, tutto comincia, tutto continua. 

La vita, in fin dei conti, non è altro che un far trascorrere il tempo: Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare.

Quante volte mi è capitato di passare le giornate per inerzia, a chiedermi dove mi stesse portando ciò che stavo facendo, cosa mi aveva portato a essere quello che ero in quel momento. «C’è qualcosa che ha ancora senso fare? Tutto il nostro affanno dove ci porta?». Mi chiedevo. Frustrata e senza vie d’uscita, se non quella di attendere l’ora per mettermi a dormire e non pensare più. Ma poi, ecco che il mattino dopo mi svegliavo e ricominciava un altro giorno pressoché identico al precedente. E ho sempre pensato che la mia frustrazione dipendesse dal mio umore, dai miei problemi, dalla mia età, o più in generale dal mondo troppo grande e incomprensibile. 

Questa fornace, questa graticola che chiamiamo vita, questi miliardi di intimazioni, moniti, esaltazioni e disperazioni, questo mare di obblighi a non finire, quest’eterna macchina per produrre, macinare, scialacquare, trionfare su ogni insidia e ricominciare da capo, questo dolce terrore che vuole regolare ogni giorno e ogni ora della tua esile esistenza.

E allora ho capito che un ruolo di primo piano lo giocava la città. 

Da quando mi sono trasferita in una città più grande, il tempo ha iniziato a scorrere in maniera diversa. La mia presa sul mondo faticava a concretizzarsi. Avevo cominciato ad arrivare sempre in ritardo. Non riuscivo a gestire le mie giornate. Non avevo niente di particolare da fare, eppure il tempo non era mai abbastanza. E questo loop infinito aveva generato ancora più ritardo. Ma il tempo non si può arrestare. È una partita persa: puoi provare a ordinarlo, scegliendo di sottometterti al suo incedere incalzante. E così cominci a organizzarti per filo e per segno le cose da fare, le persone da vedere, le cose da comprare, gli obiettivi a breve e lungo termine. Ma non è così semplice. Qualcosa naturalmente ci sfugge. 

Se non potevo farmi amico il tempo, almeno potevo tentare di rendermi amica la città. Allora ho iniziato a esplorarla, a passeggiare. A muovermi dentro di essa con la consapevolezza che la stavo attraversando: il mio spostarmi non era più un moto a luogo forzato  da A  a B.

Camminata interminabile, instancabile. Cammini come un uomo che porta valigie invisibili, cammini come un uomo che segue la propria ombra. […] Flâneur minuzioso, nictòbata perfetto, ectoplasma che un lenzuolo svolazzante farebbe passare erroneamente per un fantasma, che non spaventerebbe neanche dei bambini piccoli.

Il protagonista vaga per Parigi senza aprire bocca, senza desiderare più nulla, tra la folla dei Grands Boulevards, per i caffè, le panchine dei giardinetti, il lungosenna, i musei, i monumenti, sonnambulo turista in casa propria.

Georges Perec al Caffè de la Marie a Parigi

Vaghi qui e là, ma la folla non ti trascina più, la notte non ti protegge più. Cammini ancora, sempre, camminatore infaticabile, immortale. Cerchi, aspetti. Vai scarpinando nella città fossile, con l’intatta pietra bianca delle facciate restaurate, i bidoni della spazzatura pietrificati, le sedie ormai vuote dove un tempo si sedevano le portinaie; vai scarpinando nella città morta, i ponteggi abbandonati accanto agli edifici sventrati, i ponti portati via dalle nebbie e dalla pioggia. Città putrida, città ignobile, orrenda. Città triste, luci tristi nelle strade tristi, clown tristi nei music-hall, code tristi davanti a cinema tristi, mobili tristi in negozi tristi. Stazioni buie, caserme, capannoni. Le lugubri brasserie che si susseguono lungo i Grands Boulevards, le vetrine orribili. Città rumorosa o deserta, livida o isterica, città sventrata, saccheggiata, maculata, città irta di divieti, di sbarre, di inferriate, di serrature. La città-carnaio: gli stantii mercati coperti, le baraccopoli mascherate da grandi complessi urbani, i bassifondi nel cuore di Parigi, l’insopportabile orrore dei boulevard polizieschi: Haussmann, Magenta; Charonne.

A differenza della sottoscritta, che cercava uno stimolo per viversi la città senza l’affanno del tempo, l’uomo che dorme attraversa la città da solo. Si lascia avvolgere dalla notte, ma non si lascia scalfire dagli avvenimenti esterni. Passa da un cinema a un bistrot, da un viale alberato a un vicolo buio, senza che ciò desti in lui il minimo turbamento. Quasi un’anima infernale, un morto che cammina, un essere zoomorfo, non tanto diverso dai Dubliners di James Joyce, sentenziato dal climax: Sei un pigro, un sonnambulo, un’ostrica.

Errare infinitamente, trovare il sonno e una certa pace del corpo: abbandono, sfinimento, deriva, assopimento. Sprofondi, ti lasci scivolare, molli: cercare il vuoto, fuggirlo, camminare, fermarti, sederti, metterti a tavola, appoggiarti sui gomiti, sdraiarti.

Una Parigi notturna, quella dei caffè aperti tutta la notte, che sembra essere fatta apposta per i gatti, i topi e i viandanti come lui.  

Rimani in piedi, quasi immobile, con un gomito appoggiato al bancone di vetro, spessa lastra traslucida coi bordi arrotondati, fissata con bulloni di rame alla base in cemento, mezzo girato verso tre marinai che si accaniscono su un flipper. Bevi vino rosso o un espresso.

Rileggo questo passaggio e non posso non pensare a I nottambuli di Edward Hopper. Mi sono sempre chiesta a cosa mirasse quello sguardo tetro e fisso, quel senso di solitudine e di spettralità che aleggia nelle figure delle opere del grande pittore americano, e l’ho ritrovato qui, nell’uomo che dorme di Georges Perec.

I nottambuli (Nighthawks), Edward Hopper (1942)

Vaghi, ciondoli, vaghi. Cammini. Tutti i momenti si equivalgono, tutti gli spazi si somigliano. Non hai mai fretta, non ti perdi mai. […] Non vai neanche più a zonzo, perché i soli che possono andare a zonzo sono quelli che rubano il tempo di farlo, che si ingegnano per strappare minuti preziosi ai loro orari.

«Un uomo che dorme presenta i sintomi della depressione – dice Agnès Verlet, Magazine Littéraire – Il personaggio del libro di Perec sente in un primo momento “una specie di stanchezza”, “un disagio insidioso” che lo spinge a non svegliarsi, a non muoversi e a ridurre il suo universo alla contemplazione del soffitto. E lì, improvvisamente nota le crepe. Partendo da quella scoperta, l’uomo farà l’inventario di ciò che costituisce la sua vita». Gli elenchi di prima. Come a voler mettere un ordine al caos della vita moderna, oltre che odierna.

«Che cos’è, se non una specie di Hikikomori il protagonista di Un uomo che dorme, lo studente che cade in uno stato di torpore e d’indifferenza?» Suggeriva Marco Belpoliti nel 2016 (la Repubblica, 1 ottobre 2016). Una vita senza sorprese, al riparo da tutto.

Come un prigioniero, come un pazzo in cella. Come un topo che nel dedalo cerca una via di fuga, percorri Parigi in tutti i sensi. Come un affamato, come un messaggero latore di una lettera senza indirizzo.

«Sebbene respinga espressamente l’idea di ribellione, la sua è una ribellione contro il dover essere, contro l’imperativo dell’attività. L’uomo che dorme è un Robinson cittadino, che gode dello straniamento» (Riccardo De Gennaro, L’Unità – 12 aprile 2009). L’uomo che dorme è l’uomo del Novecento, è l’uomo dell’inazione, dello smarrimento, è Amleto. 

La tua stanza è il centro del mondo. […] la tua stanza è la più bella delle isole deserte, e Parigi è un deserto che nessuno ha mai attraversato. Non hai bisogno di nient’altro che di questa pace, di questo sonno, di questo silenzio, di questo torpore. Che i giorni comincino e che i giorni finiscano, che il tempo scorra, che la bocca si chiuda, che i muscoli della nuca, della mascella, del mento si rilassino completamente, che soltanto il sollevarsi della cassa toracica e il battito del cuore testimonino ancora del tuo paziente restare in vita.

Atarassia, inazione. Come quei mesi nei quali non siamo stati da nessuna parte, quando è apparso quell’oscuro desiderio di ritirarsi dal mondo senza scomparire del tutto, tentando la strada dell’indifferenza. E ci potremmo stupire di quanto sia facile essere indifferenti alle cose, anche oggi, allontanandoci da quello che sta succedendo nel mondo proprio in questi giorni. 

Alla vita nelle mansarde parigine, come quella descritta da Perec ne L’uomo che dorme, è dedicato il reportage di Carolina Germini scritto al tempo del primo lockdown, che raccoglie la storia sull’isolamento parigino di alcuni studenti italiani, i loro racconti dalla proprie chambre de bonne: https://tresequenze.com/2020/05/13/storie-di-un-isolamento-parigino/

La trappola: quest’illusione pericolosa di essere – come dire? – inespugnabile, di non offrire alcuna presa al mondo esterno, di scivolare sulle cose, intoccabile, gli occhi sbarrati che guardano avanti, tutto percependo, fino ai minimi particolari, ma nulla conservando.

Un uomo che dorme «non è né un romanzo né un’autobiografia, né un autoritratto né un’autofinzione: è tutte queste cose insieme», sempre per citare Verlet.

In un mondo che ci appare incomprensibile – e i fatti delle ultime settimane ne sono più che mai la prova – la letteratura ci viene in soccorso. Lo dice anche Nicola La Gioia in un bellissimo articolo intitolato “La realtà ci chiama per essere squarciata” (Review, 29 gennaio 2022). E allora Perec ci offre la sua solidarietà.

Un uomo che dorme è un libro da leggere e rileggere, sottolineando magari i passaggi più importanti, le frasi che parlano per noi. Tenerlo sul comodino per sfogliarlo qualora ne avvertissimo il bisogno. Magari proprio oggi.

Milano e la sua nebbia

L’inverno appena terminato ha visto ricomparire, nelle campagne del milanese e per una manciata di mezze giornate pure in città, una illustre meneghina che negli ultimi anni pareva essere emigrata chissà dove: la nebbia. Questo, come ogni ritorno più o meno atteso, ha scontentato alcuni e reso felici altri. In ogni caso, il potenziale suggestivo della città ne ha beneficiato parecchio. Milano, con la nebbia, regala scorci da copertina del Dottor Jekyll e Mister Hyde o dei Racconti fantastici di Gautier. E proprio ai libri mi sono rivolto per scoprire qualcosa di più sull’eminenza grigia che da sempre condiziona atmosfere, umori e meteorologia del capoluogo lombardo.

Il primo testo che ho sfogliato è dello storico inglese John Foot: Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, edito da Feltrinelli nel 2003. Si tratta di un saggio che esamina alcuni passaggi chiave attraverso cui Milano, nella seconda parte del secolo passato, si è resa protagonista delle grandi trasformazioni sociali, politiche ed economiche italiane. Foot considera un arco temporale che va dagli anni Cinquanta al Duemila, e descrive «la microstoria di una città», «prendendo spunto da certi microelementi – quartieri, spazi, luoghi, eventi, film, programmi televisivi, strade, immigrati, oggetti di design e di consumo» utili a «spiegare i macrocambiamenti che hanno permeato la maggior parte delle cronache e delle ricostruzioni storiche».

Un capitolo molto interessante, nel saggio, è dedicato al rapporto tra Milano e il cinema. E quando si parla di film milanesi, spesso si finisce per parlare anche di nebbia: motivo ricorrente, come fa notare Foot, nelle rappresentazioni cinematografiche della città. Quasi un effetto speciale che le condizioni metereologiche mettono a disposizione del regista, la nebbia avvolge e confonde, raffredda e nasconde. Il fitto grigiore di certe giornate invernali, immortalato in pellicole come Miracolo a Milano o Rocco e i suoi fratelli, riflette l’anima del capoluogo di una regione, la Lombardia, che «angoscia con dolcezza» secondo un’intuizione di Pasolini – autore tra l’altro di un noir ambrosiano, uscito in volume come sceneggiatura, dal titolo La nebbiosa. Ma attenzione: la scighera, per sua natura, mente ed è beffarda. Scrive Foot: «Sarebbe interessante analizzare più a fondo la psiche di una città la cui identità sembra essere definita, dal punto di vista fisico e meteorologico, dall’impossibilità di essere vista». Riguardo alle aree al margine della metropoli, e alle rivisitazioni cinematografiche che di esse sono state proposte, il saggio parla di una periferia «piatta, grigia e perennemente immersa nella nebbia». La scighera come emblema di Milano e del suo hinterland: tanto sul set quanto nella realtà. «Si dice che un vero milanese nasca “con la nebbia nei polmoni”» ricorda a questo proposito Foot. «Quella nebbiolina color Santambrogio fuori le finestre» la ritrasse magistralmente Gadda ne L’Adalgisa, condensando, in sette parole, secoli e secoli di milanesità.

Le voci dialettali per nominare la nebbia, in Lombardia, sono diverse. Scighera è la più nota, e secondo alcuni dialettologi può essere usata solo per un certo tipo di bruma umida e accecante; ma ci sono anche: borda, fumana, gheba (o ghiba), lova e golp (cioè lupa e volpe, a indicare «la voracità» della foschia «che inghiotte tutto», come viene spiegato nella dettagliatissima pagina sulla scighera curata da Pietro Cociancich per il sito del Comitato per la Salvaguardia dei Patrimoni Linguistici). Bianciardi, ne La vita agra, scriveva: «La chiamano nebbia, se la coccolano, te la mostrano, se ne gloriano come di un prodotto locale». Una volta negli stadi di calcio italiani, quando in campo scendeva una delle due squadre meneghine, la tifoseria avversaria intonava un coro divenuto ormai motivetto pop e cult: «C’avete solo la nebbia». Questo sfottò contiene una verità sottile, illusoria: quando la città e le campagne vengono invase dai banchi di nebbia, Milano ha solo lei, e tutto il resto, come per magia o per inganno, sparisce.

Foto di Michele Castelli

La scighera è ciò che esiste di più simile, in natura, alle pozioni capaci di rendere invisibili i personaggi dei cartoni animati; ed è il fenomeno metereologico che meglio avvera il fiabesco. Incantesimi, misteri. Milano si ricorda di possederne soprattutto durante gli inverni «lunghi gelidi nebbiosi» raccontati in alcune pagine di Un po’ di febbre dal poeta Sandro Penna.

Questo lato oscuro ed enigmatico della città è al centro di un altro libro: Guida ai misteri e segreti di Milano (Sugar Editore, 1967). La guida rievoca alcune delle vicende più tetre e sottaciute attorno al capoluogo lombardo, ospitando articoli e brevi saggi di autori eminenti: Dino Buzzati, Giansiro Ferrata, Piero Chiara, Luigi Santucci, Oreste Del Buono, Luigi Veronelli, Corrado Stajano, per fare alcuni nomi. A ricordarci che siamo nella culla di sopravvissute superstizioni celtiche e del pret de Ratanà – lo sciamano meneghino più famoso di sempre – sono soprattutto i capitoli curati da Grazia Livi (“I maghi di Milano”) e da Domenico Porzio (“Diavoli, fantasmi e spiriti”). Riassumendoli, potremmo fare un elenco di figure sinistre e stregonesche: il “Pojan” Pogliani, celebre caposepoltore all’epoca della grande peste (ancora oggi si dice l’è in man del Pojan, «è nelle mani del Pogliani», per affermare di qualcuno che è spacciato); “Max Mayor” Locatelli, chiromante con studio in Bastioni di Porta Volta; la nerovestita Miarcka, veggente residente in piazza Beccaria; la cartomante dell’alta borghesia Colomba Macecchini Tarenzi (viale Pasubio); il mago Emilio “Mustafà” Scappini, toscano, ex contadino ed ex circense (via Bianca di Savoia). Ce ne sono molti altri nella guida: personaggi che si sono resi protagonisti di leggende o di intrighi documentati, tra aneddotica popolare e fenomeni paranormali. La lista di misteri milanesi riguarda anche la città intesa come spazio fisico, marciapiedi e architetture. È il caso di una colonna della basilica di Sant’Ambrogio «mozza, leggermente pendente, ornata da due buchi», come è descritta nello stradario che fa da appendice al volume: «i fori sono stati fatti dalle corna del diavolo che in tal modo si sfogava per non aver saputo convertire al male Sant’Ambrogio». Secondo una vecchia credenza lombarda, è proprio la scighera – capace di rendere invisibile la testa cornuta del satanasso – una delle migliori alleate di Lucifero.

La nebbia, nella guida, non viene trattata con la scrupolosità di Foot, ma fa da sfondo fisso a tanti racconti ambientati ai piedi della Madonnina. Una cosa simile avviene nel Viaggio in Italia di Piovene, quando l’autore, per introdurre il capitolo su Milano, ricrea dapprima un’atmosfera fosca, facendo incursione nella Val Padana sud-orientale: «Terre grasse ed insieme spiritate, dai cibi succulenti, dai contadini avvolti di un tabarro nero che emergono dalle nebbie bianche conducendo i buoi, dai pingui soli che si specchiano nelle rogge». La Bassa, l’Est dell’antica Mediolanum. Procedendo verso oriente, si sconfina in territori già esplorati da Tre Sequenze con il meraviglioso articolo di Carlotta Curti sull’Emilia e Daniele Benati, che ci portava alla scoperta di altre nebbie e di un’altra Pianura Padana. Recentemente mi è capitato di vedere in tv un’intervista d’archivio a Giorgio Bassani, scrittore di quelle zone. Parlava di città e di romanzi, Bassani, senza soluzione di continuità tra la sua Ferrara e la Praga di Kafka. Diceva che ogni autore reinventa i propri luoghi servendosi di memoria e fantasia, come se la narrazione degli spazi fisici fosse, in fondo, un gioco tra ricordo e invenzione. Ecco, se sopra a tutto s’addensa un po’ di nebbia, il gioco può riuscire anche meglio.

Foto di Michele Castelli

Padova, anima

Ne abbiamo corse, anima mia, strade ciottolate, scivolose, dure. Passavamo i ghiaioni lucidati dalla pioggia, e come lucevano, contro il loro sfondo scuro, le nostre perle di sorrisi. Sfrenati ci lanciavamo giù per la contrada tra due file di casamenti e per i cortili facevamo correre le galline picchiando le suole sui lastroni delle trottatoie. Facevamo con loro gara a starnazzare, e vincevamo. Ci piaceva il gallo – ne ricordo uno che si era scelto uno scarto di mattone forato per podio, e ci restava impettito e così ridicolo, spennacchiata la coda, il petto bianco arruffato, due stecchi per gambe. Ma anche lui cantava tutta la notte, e come ci piaceva.

Tu eri tutte queste cose. Quando le tue risate fresche come l’aria che tagliavano tornavano indietro con l’eco,  mi voltavo a guardare i tuoi spilli brillanti di occhi, le tue pietre nere. Le mie pietre nere.

Mi illuminavi. Per me ripetevi: luce, e cavavi l’universo dal nulla, ancora una volta, e però nuovo, fatto piccolo, che mi entrava in tasca. Come avrei voluto allora trarti fuori dalla cornice, fuori dalla sciocca messinscena in cui si consumava il resto del mondo e levarti, dietro le quinte, la maschera ostinata che vestivi in superficie. Mi pare ancora di vederti, anima mia, a qualche angolo di strada; persino qui, così lontano; piccola cosa imbronciata, il mio angelo buffo, eterno fuoco fatuo.

Lasciai perdere, in ogni caso. Non correremo più. Non io, almeno. Non con te.

Tu sei tutte le cose che ho perso.

*

Sogno solo di tormentare i tuoi sogni; non voglio altro. Non pretendo che ti ricordi di me quando sei sveglia. Non sarò lì quando morirai; non sarai qui quando morirò. Perché tu sei su al paese, protetta dalle montagne e io in questa città così grande, chiuso in una casa che io ho scelto e che odio. Come mi condanno sempre da me, con le mie angosce, i miei soliti vecchi tic. Con questa bestia che mi abbraccia stretto come un figlio e mi chiude a chiave in questa gabbia e la gabbia sono io. Voce che sibila tra denti digrignati: sono io… Lavoro nel buio il macramè dei miei pensieri, tento di comporre in una logica il loro ritmo ossessivo e discorde. Mi illudo. Se una forma esiste per me, è questa cella di convento che mi sono scelto per essere dimenticato.

Ma i piani sono altri, la vita richiama: viene il mio vicino di stanza. Picchia piano, una nocca, tre tocchi. Mette naso nella mia camera, invade il portacenere in cui vivo acquattato. Convulsa come una radice la sua mano artiglia il legno della porta; discreto e straziato a un tempo, vuole e non vuole essere lì. La luce lo prende alle spalle e lascia che dapprima io lo indovini soltanto come una macchia scura, come un difetto nella mia retina. È magro, altissimo, un dio egizio. Due buchi per occhi: terribili.

«Senti» mi dice, e la voce è meno di un soffio, affilata come un aculeo buca da dietro la testa e s’infigge nel mio cervello inerme – «Vieni con me. Vuoi? Fammi un poco compagnia».

Cerca la compagnia di un cadavere. Lo vedo muovere le sue ossa – non so come stiano su – come se dovesse spostarle meticolosamente una a una, ponendo mente all’intero processo per non slogarsi dal teschio ai piedi. Affaticato, fragilissimo, soggetto di una fisica improbabile. Le sue dita ossute mi tirano via dal mio buco e mi costringono alla luce.

Per la strada sembriamo due scheletri, non meno sottili delle nostre ombre appiattite sull’asfalto. Posso immaginare il terrore che facciamo alla gente. Due pinocchi scappati di casa, sagome affilate e senza giunture come statuette etrusche. Ci muoviamo non come forme che riempiono lo spazio, ma facendo il vuoto nella materia, come solchi che avanzano. Portiamo il nulla come portassimo il santissimo in processione.

Mi fanno cenno dai cantoni le nere sagome allungate del becco di secenteschi medici di peste. Questa è l’unica complicità che mi è concessa, questa è la città per me. Una Padova di spettri. Se mi passasse accanto il monatto sferragliando, vagheggio, mi consegnerei a lui. Mi aggiro così, vedovo di me stesso per questi viali, tra queste pareti, come chi ha niente e pure lo deve perdere.

Via Facciolati si stende assurda e lunghissima, un elastico teso a un millimetro dalla rottura. Ci camminiamo incerti come acrobati sgraziati. Come svoltiamo, il 12 ci vola accanto con il suo carico di vecchi e via Cavazzana lo accoglie nel suo fastello di luci.

Prato della Valle non lo possiamo nemmeno guardare. Bocca spalancata al cielo, famelica e insensata. Un cratere lì lì per vomitare o ingoiarci tutti. I portici bassi ci schiacciano dandoci un poco di sollievo. Imploro il mio compagno che non prendiamo via Roma, per carità: troppo allegra. Voltiamo a sinistra, via Barbarigo ci terrà nascosti. Così ci muoviamo circospetti, con lunghe zampe d’insetto nelle rovine di un viridario infestato di piante carnivore affamate, e queste piante hanno facce umane.

Come ti si fa dentro una città: mentre la cammini un cartografo spettrale ti incide le vie nello stomaco. Finisce che le sapresti anche al buio come sai lo scorrere del tuo sangue. Anche radessero al suolo la città, e ne facessero un enorme vuoto, ti muoveresti nello spazio seguendo le strade di un tempo come seguissi un arabesco in punta di dito.

Fino a che luoghi pur familiari ci colgono impreparati: le piazze si schiudono troppo al sole, e ci fa male. A noi la città piace quando si fa di maglia fitta e indistricabile, non quando si aprono impietosi questi spazi come ferite.

Ci rifugiamo nel buio del quartiere ebraico. Perdo per un attimo il mio compagno, lo scambio per un altro, gli dico: «Mi scusi»… Mi accorgo poi dell’errore, e lui mi sorride divertito, quasi paterno. Sei troppe persone, tutte insieme – gli vorrei dire per scusarmi. E mi tiro tutto in un sorriso, ma lo sforzo mi strazia.

L’aria è gelida e si carica di pioggia, in un istante. Si abbassa una nebbia che è difficile travedere cosa che sia nel suo fosco. Qui mi lego: al primo palo che vedo mentre il vuoto si fa pieno, di cose dimesse da tempo. Questa nebbia non copre, ma svela. Mette davanti agli occhi anticaglie, fa vecchi.

Allora, mentre io vorrei perdermi come una cosa tra altre, lui parla, e dice – Vedi come si alzano questi palazzi come le tue Alpi… Non somigliano ad un paese, queste quattro strade?

Anima mia, mi hanno montato la testa al contrario, che il passato continua a starmi di fronte…

*

Ci trasciniamo in una bettola, scegliendo accuratamente la più squallida. Mi sistemo in una sediaccia, tutto contorto. I grossi vetri opachi danno un colore verdegiallo, nauseante. Eppure devo essere grato: così le nostre facce sono meno pallide.

«Vuoi bere?» – dice il mio compagno, con un gesto, due dita traverse. «A me andrebbe un goccio…».

Come si bagna la lingua, d’improvviso ha gran voglia di parlare.

«Mi trovo»  – inizia a dire  – «Mi trovo spesso a pensare in questi giorni alle due forme dell’universo: l’una, squadernata nello spaziotempo, che viviamo; e la stessa (compresa la parte ancora a noi nascosta, e la già sommersa) tenuta interamente in un incomprensibile inesteso punto. Entrambe forme vere e compresenti».

Dice tutto questo come si parlasse allo specchio, e io lo ascolto così così. Ma mi dico: due forme soltanto? No, molte di più, forse infinite. Tante almeno quanti i suoi osservatori. E nel mentre sorrido pensando che qualcuno, in questo momento, stia guardando questo nostro universo all’indietro.

E veda la mia vita procedere verso la grazia: veda me che infine ti incontro, invece che perderti. Mi veda rimangiarmi ogni parola sbagliata, cancellare una ad una le lettere di questa pagina. E veda le sigarette che si allungano, i capelli scurirsi, e ci veda tornare fanciulli, impicciolirci finché non ci rifugiamo negli uteri.

«A volte non riesco a ricordare quanti anni ho», dice infine il mio amico, alzando le spalle, come in conclusione. «Importa?» gli faccio io. 

Questi discorsi non servono a nulla.

È allora che mi succede: in un momento casuale, come mille altre volte. Mi monta dentro questa rabbia che conosco bene, e immagino di dargli in testa il bicchiere. Lo vedo serrare gli occhi e contrarsi tutto in una smorfia ridicola. Mostra i denti. Si riassume tutto in un solo dolore. E io lo vedo come fosse vero, come se d’un colpo tornassi dai morti, sorgessi dalla mia tomba e gli entrassi in casa, la notte, e strisciassi nella sua stanza e gli tirassi i piedi mentre dorme. Un incubo, e io il mostro che lo abita.

Gli metto in volto la morte come una mano di vernice. Tutto questo in un baleno, nel mio occhio, dura meno della metà di un secondo. Ma sulla mente pesa un quintale. Di nuovo l’angelo della devastazione, che viene a squarciarmi. Parte di me che non posso sconfiggere, o negare, irreale, ma non so per quanto ancora. Sarà un giorno di questi: questa parte vincerà sull’altra.

Lui mi parla, ed è allegro; non sa che io sogno di sfigurarlo con un vetro. Se immaginasse quale mostro si nasconde dietro il mio volto di marmo, dietro il mio mezzo sorriso, forse avrebbe paura di me quanta io ne ho di me stesso.

Cerco un modo di vedermi in viso, per cogliere quanto vasto sia lo stupore che mi ha invaso, ma quando mi spio nel vetro del bicchiere, la sola cosa a cui penso è sistemarmi i capelli.

*

E poi piano mi accorgo che il mio amico ha lavorato, nel frattempo, a farmi una rete in cui rotolarmi dentro. Tu questa città – mi dice – non l’hai mai avuta per tua. Non l’hai mai accolta nella tua anima.

Parla della mia anima, e non sa che sei tu. Dovrei mandarlo a farsi fottere.

«Hai avuto paura» – continua – «che se le avessi dato un briciolo di te questa città come un cancro ti si sarebbe spansa dentro e ti avrebbe invaso tutto, e ti avrebbe rubato l’anima e te l’avrebbe strappata via da dove tu avevi deciso che doveva restare, al paese. Hai alzato tutte le tue difese perché non avvenisse, hai tenuto con i denti».

Capisco che ha ragione. Non ho avuto tempo per questa città, ero preso in altra ragnatela, in altro dedalo.

«E ora» – sibila infine lui, e mi trafigge – «puoi dire di averla ancora, un’anima?».

Ho disegnato, a passi lenti, il limite della voragine, l’ho ammirata dai suoi spalti. Mi accorgo, ora, che è stato sciocco non buttarmi giù. Nel buio, mi sarei trovato. Ma sono rimasto in bilico tra due punti d’appoggio, il vecchio e il nuovo, e ora non sono di paese e non sono di città; ho nostalgia dappertutto. Non so cosa sia casa.

Forse, mi dico, c’è ancora tempo per buttarsi, tempo perché accetti che la mia anima la devo abbandonare e che sono a mio agio nell’ombra. Mi accorgo che a farmi male non era la disperazione; ma all’opposto, il pungolo di speranza che ancora avevo fisso nel cuore.

È così e mi sento libero, finalmente, da ogni promessa, da ogni attesa, da ogni gioia futura. Questa disperazione è la mia salvezza.

Devo uscire, penso. Uscire per il camino, per uno spiffero della porta, infilarmi in una crepa, attraversare la parete. Non visto, potrei esser di fuori in un attimo: vagherei per l’aria, portato in uno sbuffo di vento. Mi dissolverei nei fumi della città; mi schianterei sui tetti dei palazzi e morirei nei gas degli autobus. Mi penso così leggero, fatto di niente; potrei essere la nebbia o il raggio di sole.

Ma quando provo a tirarmi in piedi, questa grazia è svanita, e sono solo goffo e ridicolo. Sono sempre io: una tetra bestia spelata, orrida, scheletrita, piena di fame. Sono così lontano da quel che ero con te, da quando ruzzavamo allegri noi e le galline; ora sono un animale feroce, e le sbranerei d’un morso.

Rimango così, in piedi a metà, queste immagini negli occhi, uno sgomento di vecchio. Mi salva il mio compagno, che mi implora di restare, ancora un po’; perfino, mi sfiora il braccio.

In effetti, perché? Dove andrei? Ogni ombra è buona, per sprofondare. E allora sii lodata, ombra, mormoro a me stesso, giaculatoria: Tu sei la mia città; i miei giorni sono nelle tue mani.

Ricado nella sedia. Che io sia la peste, se devo esserlo; ma sarò la peste nel deserto, dove non posso piagare una vita non mia. Se non quella di qualche altro scellerato eremita: ci scambieremmo un saluto, e continueremmo per la nostra strada di sabbia. Nessun miraggio, nessuna città. Nessun volto. A volte, un vecchio scorpione. Senza più veleno. Il sole a picco farebbe un barbaglio del mio corpo; della mia ombra, un’anima immortale.

Tutte le foto sono di Elisa Chiari

Vita Sackville-West: la Signora del giardino

L’amore per il giardino e la sua cura hanno da sempre contraddistinto la cultura inglese, rivestendo un ruolo pregnante sia nella poetica sia nelle tradizioni nazionaliste del Regno Unito. Assurto a vera e propria forma d’arte nel diciottesimo secolo, il giardinaggio, assimilato alla pittura, alla scultura, all’architettura e alla letteratura, nel tempo ha rivestito un forte valore patriottico. Sin da Shakespeare e dal suo Riccardo II, l’Inghilterra è stata paragonata a un giardino, la figura del monarca al suo giardiniere, e la stessa monarchia associata alla terra, agli elementi e inevitabili accadimenti della natura. 

Negli scritti poetici della “Signora del giardino”, come veniva chiamata Vita Sackville-West, considerata tra i romanzieri di maggior successo negli anni Trenta e Quaranta, il giardino e l’arte che lo accompagna divengono riflessione sulla propria identità, su un senso di appartenenza, sull’alternarsi dei sentimenti dell’animo umano, baluardo di bellezza, civiltà e grazia contro i tormenti di un mondo incivile e brutale. Nella sua poesia, l’ambiente del giardino, delle fioriture, delle coltivazioni, dell’alternanza delle stagioni, sono aspirazione al bello, alla perfezione, a un ordine celato, alla pace:

I tried to hold the courage of my ways

In that which may endure,

daring to find a world in a lost world,

a little world, a little perfect world, 

with owlet vision in a blinding time,

and wrote and thought and spoke

these lines, these modest lines, almost demure,

what time the corn still stood in sheaves

what time the oak

renewed the million dapple of her leaves.

Yet shall the garden with the state of war

Aptly contrast, a miniature endeavour 

To hold the graces and the courtesies 

Against a horrid wilderness. The civil

Ever opposed the rude, as centuries’

Slow progress laboured forward, then the check,

the slow uphill climb again, the slide 

back to the pit, the climb out of the pit,

advance, relapse, advance, relapse, advance,

regular as the measure of a dance;

so does the gardener in little way 

maintain the bastion of his opposition

and by a symbol keep civility;

so does the brave man strive

to keep enjoyment in his breast alive

when all is dark and even in the heart

of beauty feeds the pallid worm of death. 

Al giardino e al giardinaggio Vita Sackville-West ha dedicato la sua vita e molto della sua composizione artistica, dapprima con il poema The Land (1926), liberamente ispirato alle Georgiche di Virgilio, poi con The Garden (1946). L’amore per le piante, alberi o semplici cespugli, bulbose o perenni e l’attenzione a combinare assieme forme e colori divennero l’anima del suo lavoro di cui scrisse ampiamente per ben quindici anni, dal 1946 al 1961, nella sua rubrica In Your Garden sull’Oberserver. Una ricerca intima, un’urgenza disperata di grazia lussureggiante, di rifugio da una civiltà contaminata, hanno segnato quasi interamente la sua vita come la sua attività letteraria. Persino nei suoi tanti viaggi al seguito del marito, il diplomatico Harold Nicolson, Vita ha sempre anelato a una bellezza che la facesse sentire viva, una naturale esuberanza che ben si accordasse con il suo spirito sfuggente:

«Da quando sono arrivata in Persia sono alla ricerca di un giardino e non ne ho ancora trovato uno. Eppure i giardini persiani godono di un’ottima reputazione. Hafiz e Sa’di cantarono spesso le rose, forse anche fino alla noia. Eppure nella lingua persiana non esiste una parola per dire rosa: il meglio che abbiano prodotto è “fiore rosso”. È come se da qualche parte fosse sorto un malinteso. Di fatto penso che il malinteso sia nostro, scaturito dalla caratteristica nazionale degli inglesi secondo cui pretendiamo che tutto sia uguale a com’è in Inghilterra, anche in Asia centrale, e quando questo non si verifica ci lamentiamo. “Giardino?” diciamo e pensiamo ai prati all’inglese e alle aiuole fiorite, il che è palesemente assurdo. In questo arido paese non esistono distese erbose; quanto alle aiuole fiorite, presuppongono una lussureggiante bellezza formale inimmaginabile per la mentalità persiana. Qui ogni cosa è arida, disordinata, fatiscente e decadente: una miseria polverosa esposta per otto mesi all’anno a un sole impietoso. Malgrado tutto ciò, in Persia esistono dei giardini. Solo che sono giardini con alberi, non fiori; spazi incolti e verdi (…) un rifugio verde pieno d’ombra, con pozze in cui saettano pesci rossi e dove scroscia un piccolo ruscello. Questo è il senso di un giardino in Persia. (…) Anche il senso di proprietà è fortunatamente assente. Immagino che questo giardino (in cui mi trovo ora e da dove sto scrivendo) abbia un proprietario, ma personalmente non so chi sia, e nessuno sa dirmelo. Nessuno mi si avvicinerà per dirmi che sto violando la sua proprietà. A volte capita che il giardino sia tutto mio, oppure che lo divida con un mendicante o ancora che entri un pastore col suo gregge (..) sono tutti egualmente liberi di entrare e di godersi il giardino».

Con toni sommessi e realistici, meno progressisti rispetto alle avanguardie di inizio secolo, Vita descrive i “piccoli piaceri che emendano grandi tragedie”, attraverso i semplici accadimenti quotidiani e i più grandi sconvolgimenti interiori, tra le gioie e il sollievo che la natura e la ricerca del bello possono offrire. Nei suoi scritti giardinaggio e poesia si confondono, si identificano, rispecchiandosi nella continua ricerca di una cosa finalmente giusta, finalmente perfetta: 

Unlike the husbandman who sets the field

And knows his reckoned crop will come to birth

Varying but a little in its yield

After the necessary months ensealed

Within the good the generative earth,

The gardener half artist must depend

On that slight chance, that touch beyond control

Which all his paper planning will transcend;

He knows his means but cannot rule his end;

He makes the body: who supplies the soul?

Sometimes, as poet feels his pencil held,

Sculptor his chisel cutting effortless, 

Painter his brush behind his grasp impelled,

Unerring guidance, theory excelled,

When rare Perfection gives a rounded Yes,

So does some magic in his humbler sphere, 

Some trick of Nature, slant of curious light,

Some grouped proportion, splendid or severe 

In feast of Summer or the Winter sere,

Show the designer one thing wholly right.

Al centro della sua poesia, che lei poneva al di sopra di tutti i suoi scritti, sono proprio le banali occupazioni svolte nei poderi e nei giardini a fare da sfondo  a un linguaggio universale, quello della passione che si fonde irrimediabilmente con gli elementi della natura. Così nella poetica di Vita il mondo naturale e l’amore si intrecciano indissolubilmente; le passeggiate nei campi fioriti sfociano in notti “intossicanti” dove la passione ha la meglio e il bisogno dell’amata diventa una sorta di ossessione:

When sometimes I stroll in silence, with you
Through great floral meadows of open country
I listen to your chatter, and give thanks to the gods
For the honest friendship, which made you my companion
But in the heavy fragrance of intoxicating night
I search on your lip for a madder caress
I tear secrets from your yielding flesh
Giving thanks to the fate which made you my mistress.

La natura diviene quindi luogo di ebbrezza, intossicazione, amore passionale e incensurato. Con una delicatezza del tutto inglese, Vita riesce a intrecciare gli accadimenti prosaici e solidi di una vita in campagna con la foga di un animo ribelle, volitivo e romantico come il suo. 

Perennemente innamorata della vita, così come delle donne, Vita Sackville-West si distingue per quella sua natura trasgressiva, la vita eterodossa e avventurosa. Autrice di ben 17 romanzi, quasi tutti pubblicati dalla Hoghart Press di proprietà dei coniugi Woolf, Vita Sackville-West si fa portavoce di una radicata identità inglese e di un forte animo femminista, ponendo al centro delle sue opere donne intraprendenti che cercano di realizzare il controllo sulla propria vita. Vita fu per tutta la sua esistenza una femminista ante litteram, ricercando senza remore il proprio piacere (sessuale e non) e la propria libertà, senza censure e rimorsi, incurante di ogni cosa, forte del suo retaggio aristocratico e della sua elevata educazione classica.

Legata al marito da un profondo rapporto di stima e di amicizia, se non di amore, al contempo amante opulenta di molte, moltissime donne, tra cui Violet Trefusis e Virginia Woolf, Vita è una donna moderna, indipendente e apparentemente fin troppo solida. Vitale, pratica e volitiva, dalla penna semplice, affascinata dalle cose quotidiane, dal fluire delle stagioni, dalle fioriture, dai cavalli e dalla passione ardente, priva di orpelli, artifizi e intellettualismi . 

Vita si abbandona da tempo senza pruderie a una libertà sessuale di cui coglie appieno il piacere, muovendosi indifferentemente dal letto di un uomo a quello di una donna. Vita è una donna libera che distingue tra due tipi di amore, quello casto, coniugale, e quello passionale. Diversa invece fu la sua amante Virginia, sessualmente impaurita e insicura, incapace di godere appieno dell’ardimento che il corpo e il piacere sessuale possono fornire. In tempi in cui lo scambio amoroso tra due donne era ancora da considerarsi segno di eversione, di devianza, le due scrittrici si distinguono per quello scrivere che, ben oltre la mera speculazione, dà voce a una passione solo apparentemente saffica, vera indagine poetica sul potere della seduzione. Nei quindici anni della loro storia, Vita e Virginia vivranno nella lussuria incandescente, nelle pieghe inviolabili di un piacere umbratile, di una gioia soffusa quanto incendiaria, facendo della parola il loro luogo di incontro prediletto, il loro talamo sacro. «Per favore, in mezzo a tutta questa baraonda, continua a essere una stella luminosa e costante. Davvero poche cose rimangono a indicare la strada: la poesia, e tu, e la solitudine», scriverà Vita a Virginia. 

Mentre Virginia si mantiene su toni più imbrigliati, più letterari, più rarefatti, Vita si distingue per una poesia sincera, priva di accentuata profondità o innovazione formale che vagheggia forme di escapismo quotidiane nate dai momenti più fortuiti e dai piaceri più impensati, scaturiti dalla natura e dai suoi elementi. Pur traendo forza dalla tranquilla trasparenza della vita di campagna inglese, dai suoi elementi più prosaici, i suoi scritti emanano un’energia emotiva e una sensibilità che rendono Vita non solo un’esteta, ma anche una poetessa appassionata: 

«Oggi sono di nuovo piuttosto solida, con gli stivali pieni di fango, che mi tengono a terra. Ma non sono solida come sempre – non abbastanza rozza – perché per tutto il tempo in fondo alla mente mi è rimasto (a sollevarmi leggermente la testa) un bagliore, una sorta di nebulosa, che solo quando la esamino prende forma; appena penso a qualcos’altro si dissolve di nuovo, prenderla tra le mani e sentirne i contorni: allora si solidifica, “sabato viene Virginia” Questa sera vado a cena a Knole, dove incontrerò un magnate del petrolio e sua moglie; ma per tutto il tempo ci sarà un fuoco fatuo che si lascia afferrare, “sabato viene Virginia”. Ma no, non verrà, non verrà! Succederà qualcosa. Sicuramente succederà qualcosa. Succede sempre qualcosa quando si desidera così ardentemente. Ti verrà la varicella, o a me gli orecchioni, o crollerà la casa sabato mattina. Nel frattempo tre mucche mi fissano da sopra lo steccato, stanno aspettando la torta. C’è una nebulosa anche nella loro mente, “Alle quattro avremo la torta”. E per loro, bestie fortunate, non succederà nulla. Mentre per me c’è l’intero ventaglio delle possibilità umane».

L’amore tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West, le cui lettere, dal 1924 al 1941 sono state conservate e pubblicate, è un compendio di ardori e di sogni, segreti, intermittenze cifrate, ombre rifratte, intimità vagheggiate, spesso vissuto tra elementi concreti e solidi: descrizioni meticolose sui ranuncoli, sulle abitudini dei lombrichi, sulla mungitura del latte, sulla trasparenza delle foglie. Le fughe, le separazioni, le riappacificazioni sono materia poetica anche sotto le bombe, insieme ai panetti di burro dal sapore di rugiada, miele e paté, uova in camicia e spasmi d’ardore. Così scrive Vita a Virginia, in una corrispondenza fulgida e virginea al contempo che ripercorre la propria genesi, ne assapora il pudore, ne richiama il desiderio segreto, la passione ormai nostalgica: 

«Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi (più che altro inconsciamente) – oggi mi arrivano in picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo anch’io. Lo sai».

Le due scrivono, scrivono sempre, per darsi appuntamento, per scusarsi di un’assenza e rimproverarsi di una mancanza, un ritardo o un rinvio, ma più di tutto per il piacere stesso di scrivere, di indulgere nell’amore della lingua, nei sottintesi e nelle allusioni letterarie, nelle maschere giocose e nei soprannomi fantasiosi, nei silenzi pudichi e nelle metafore più ardite che inventano, danno corpo e fiato alle loro emozioni voraci: 

«Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano. Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così elementare; probabilmente non la concepiresti nemmeno in questi termini. Eppure credo che sentirai un piccolo vuoto. Ma lo apparecchieresti in una frase così bella, che finirebbe per perdere un po’ della sua verità. Mentre per me è totale: mi manchi più di quanto potessi credere; ed ero preparata a sentire la tua mancanza, parecchio. Così, in verità, questa lettera è solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle persone. Maledetta te, creatura viziata. Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti amo troppo per farlo. Troppo sinceramente. Tu non hai idea di quanto posso essere scostante con le persone che non amo. Ne ho fatto un’arte sottile. Ma tu hai fatto a pezzi le mie difese».

La ricerca di libertà, di indipendenza, di affermazione di sé stessa rendono Vita irrequieta, volatile quanto inafferrabile, infiammata da una sola passione a cui sola rispondere, a cui sola appartenere, l’unica capace di placare la sua anima, in cui si riconosce pienamente: la passione per la sua terra, l’Inghilterra. 

Thus I do love my England, though I roam.

Thus do I love my England: I am hers.

What could be said more simply? As a lover

Says of his mistress, I am hers, she mine,

So do I say of England:I do love her.

She is my shape: her shape my very shape.

Her present is my grief; her past, my past.

Often I rage, resent her moderate cast,

Yet she is mine, I hers, without escape.

The cord of birth annexes me for ever. 

And so when long and idle winter dusk

Forces me into lamplight, I must make

Impracticable beauty for my England. 

Ed è lì che Vita riposa, lì che trova finalmente rifugio alla sua tanto bramata solitudine, nella terra inglese, alla quale soltanto consacrerà sé stessa per sempre. Solo ad essa Vita rimarrà fedele, sublimando questa sua aspirazione a un regno ideale di bellezza e ordine, cui il suo cuore scomposto ambisce, nel tentativo di dare forma e trama a un sogno ormai frustrato. È così che nel 1930, dopo aver già dedicato anni, insieme al marito Harold, al giardino di Long Barn, Vita si invaghisce, al punto da rimanerne ossessionata, dell’antico castello di Sissinghurst, un’alta torre medievale nel Kent, il cui progetto di ristrutturazione insieme alla realizzazione del suo giardino, diventerà per lei una sorta di missione, la possibilità infine di realizzare quel suo piccolo regno tanto agognato. Un castello occultato dal tempo, una dimora in disuso e dimenticata diventeranno, grazie a Vita e alla sua arte, il giardino più famoso d’Inghilterra, patrimonio del National Trust. 

Fu lì che Vita riversò tutta la sua passione, per il vivere liberi, per le donne, per i viaggi. Lì manifestò appieno la sua tempra artistica di poetessa e, ancor prima, quella di giardiniere, sublimando il suo amore per quella sua terra nella creazione di qualcosa di etereo: un susseguirsi di stanze dalla diversa fioritura, varie nel colore e geometria, un micro-cosmo di pura armonia, un’ode al potere dell’arte che soli avrebbero soddisfatto il suo animo insaziabile. 

In quell’anelito alto, tra le ombre tappezzate di muschio e di lichene, immersa nelle volute del tempo, Vita finalmente trova un ristoro a ogni sua passione ormai logora e spenta:

A tired swimmer in the waves of time

I throw my hands up: let the surface close:

Sink down through centuries to another clime,

and buried find the castle and the rose.

Buried in time and sleep, 

so drowsy, overgrown,

that here the moss is green upon the stone,

and lichen stains the keep. 

Che ci faccio qui? Il microcosmo emiliano narrato da Daniele Benati

Sono una di quelle lettrici che fatica a leggere l’ultima uscita in classifica e preferisce rifugiarsi nei libri che capitano sottomano, per passaparola o grazie a un prestito di qualche amico. Talvolta può succedere che lo restituisca senza essere andata oltre pagina 24, altre volte invece mi appassiona così tanto che di quell’autore o di quell’autrice voglio leggere tutto. 

È stato così per Daniele Benati, autore contemporaneo reggiano, classe ’53, scrittore, critico letterario e musicale, traduttore dall’inglese, professore. Nonostante goda di un ampio riconoscimento nell’ambiente letterario italiano ed estero, la narrativa di Benati – facente parte di quella nicchia di “narratori della pianura”, all’interno della più ampia scuola  degli “scrittori della via Emilia” (Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni, Paolo Nori, Ugo Cornia, per citarne alcuni), – fatica a emergere tra gli scaffali delle librerie. Perciò il mio è anche un appello spassionato a far ripubblicare le sue opere. 

Lo conobbi per la prima volta all’università, mentre preparavo l’esame di Prosa Italiana del ‘900, e da lì non mi sono più fermata, visto che ho deciso poi di trattarlo anche nella mia tesi magistrale. Pochi autori hanno saputo narrare l’Emilia con l’acume e l’osservazione di Benati, attraverso una scrittura fortemente geolocalizzata, in grado tuttavia di diventare qualcosa di universale, di eterno. 

Penso a Pier Vittorio Tondelli, che negli anni ’80 scriveva pagine di vita che potrebbero essere state scritte oggi nel 2021 e che tutti a vent’anni dovrebbero leggere; penso a Francesco Guccini, il cantastorie per eccellenza dell’Emilia; penso a Luigi Ghirri, che è riuscito a rendere immortali e mistici una strada, una luce al neon, una macchina ferma, un paesaggio anonimo coperto dalla nebbia. 

Foto di Luigi Ghirri

Emilia mistica.

Il fotografo di Scandiano – grande amico di Benati – ha conferito epicità ad alcune immagini apparentemente  normali, senza peso. E Benati è un po’ l’equivalente di Ghirri nella letteratura: ha reso i paesaggi eterni e l’ha fatto tramite la tecnica joyciana della rivelazione. 

Per lo più conosciuta come epifania, è una tecnica narrativa che sta a indicare una realizzazione improvvisa, una sorta di illuminazione, quasi a svelare qualcosa di ignoto o di mistico, qualcosa che, come ci ricorda l’etimo, ci appare dall’alto. James Joyce la utilizzò in Gente di Dublino (non a caso tradotto da Benati per Feltrinelli nel 2013): «per smascherare l’anima da quella emiplegìa o paralisi che molti considerano una città». Come molti di noi ricorderanno, infatti, i dublinesi sono personaggi fisicamente vivi ma spiritualmente morti. Un po’ dei morti che camminano, insomma, come lo sono per la maggior parte i personaggi benatiani, dalla sua prima e forse più conosciuta opera, Silenzio in Emilia (Feltrinelli, 1997) a Cani dell’Inferno (Quodlibet, 2018), ultimo romanzo pubblicato dello scrittore reggiano.

L’Emilia, luogo straniero e al tempo stesso patria, immobile e malinconico. Cesare Zavattini, nato a Luzzara, verso il fiume, diceva: «Ho sempre creduto che la malinconia fosse originaria del Po. E che altrove si trattasse di imitazioni». Una malinconia massimizzata nella fotografia, la quale, riportando in vita il passato, innesca una “rivelazione” di dislocamento. L’intrinseca commistione tra documentario e artistico nella narrativa di Benati ricorda il lavoro di Luigi Ghirri, di cui Benati ammirava maggiormente la capacità di rendere il paesaggio emiliano attraverso uno sguardo estraneo ma affettivo, come se fosse visto per la prima volta. La sua fotografia della camera da letto di Benati, pubblicata su Il profilo delle nuvole (Feltrinelli, 1989), ha mostrato al nostro autore che anche luoghi noti possono essere visti da una nuova prospettiva che scopra una realtà diversa. 

Foto della camera da letto di Benati realizzata da Ghirri

Seguendo l’esempio di Ghirri, Benati cerca di raggiungere nella sua prosa una prospettiva altrettanto abbassata e uno sguardo estraneo che de-familiarizzi i luoghi quotidiani, trasformandoli in spazi metafisici. L’ambientazione rurale emiliana è lo sfondo comune della maggior parte della sua narrativa e il motivo di questa scelta, come per Ghirri, va oltre la familiarità dell’autore con questo paesaggio o qualsiasi tentativo di “realismo” ed è piuttosto emblematico della rapida scomparsa di un passato rurale e del conseguente sradicamento del soggetto contemporaneo. Seguendo la lezione di Ghirri sulla fotografia come “rivelazione”, Benati utilizza immagini di paesaggio o pittura come mezzo per innescare un’epifania nel protagonista che lo porta a mettere in discussione l’effettiva appartenenza al luogo in cui vive.

Benati come traduttore. La sua attività di traduttore ha origine senz’altro negli studi universitari incentrati sulla letteratura americana, ma soprattutto nei soggiorni esteri:  lettore d’italiano presso le università di Boston e Dublino, Benati ha assorbito  atmosfere anglofone che ha poi riversato nelle sue opere, pregne di rimandi di stampo biculturale. 

Insieme all’amico e maestro Gianni Celati – scomparso da pochissimo – anch’egli traduttore (lo ricordiamo principalmente per la traduzione dell’Ulisse di James Joyce, per Einaudi nel 2013), ha curato Storie di solitari americani (Rizzoli, 2006), dove ha tradotto racconti di Mark Twain, Jack London, Sherwood Anderson, Ring Lardner, Delmore Schwartz e Flannery O’Connor. Sua è la traduzione di Gente di Dublino di James Joyce nel 2013 per Feltrinelli. Nel 2012 ha tradotto infine Mi chiamo Irma Voth della canadese Miriam Toews per Marcos y Marcos.

Stando agli autori con cui si è confrontato, risulta palese che Benati conosca molto bene l’Irlanda e gli Stati Uniti. Ci ha vissuto, ci ha insegnato. 

A gennaio dell’anno scorso, durante una chiacchierata informale nel suo studio a Reggio Emilia, gli ho fatto  questa domanda: «Come mai non ha tradotto autori inglesi, non li apprezza?». Risposta: «Sono troppo complicati. La lingua americana è più simile alla nostra. Com’è bella la lingua inglese della letteratura americana, che è molto più vicina al parlato!». Un punto di vista interessante, se si pensa che Benati si è avvicinato alla letteratura americana grazie ai testi delle canzoni di Bob Dylan, cantautore nonché Premio Nobel per la Letteratura nel 2016 (ma qui se iniziamo a parlare di Bob Dylan non la finiamo più, perciò lascio un commento estrapolato dalle Dieci lettere di Gianni Celati a Daniele Benati, da leggere assolutamente).

Caro Daniele,

oggi ho riascoltato le prime canzoni di Bob Dylan, ed erano così convincenti, così belle e piene di pensiero, così immaginative e al tempo stesso contenute, compatte, chiuse in sé – che mi sembrano quasi un miracolo. E allora ho pensato come, per noi che cerchiamo di scrivere, e di scrivere con una voce che non sia quel modo standard di fare i toni secondo le regole, ma invece di scrivere con un tono che sia nativo e non forzato – ho pensato che straordinaria lezione di voce e di toni siano le parole di Bob Dylan. E poi anche le storie nascoste, gli sfondi accennati, i personaggi: non è sempre una immaginativa di campagna, cioè campagnola e poi questo aprire ai grandi spazi, con le figure del giorno campagnole (la strada, il gallo, il vento, il fiume, la casa isolata), che fanno immaginare lo spazio e il tempo meglio delle figure di città. O almeno, è come il luogo dove tutto nello spazio e nel tempo ha un gusto di cosa singolare, unica, non in serie – e questo gusto è il gusto fondamentale campagnolo di quelle canzoni: il gusto della solitudine assoluta. Mi sembra che noi possiamo imparare da Bob Dylan anche a tenere questo strano equilibrio tra la cosa immaginativa e quasi pazza, comunque strampalata nel modo in cui presenta le cose a ruota libera, e poi invece la compattezza del testo e del racconto dove tutto si raccoglie attorno a poche note chiave. Sì, io penso alla narrativa solo così (è forse il mio limite): come una cosa che si canta, e il racconto come un modo di cantare dei luoghi o delle figure che ti stanno a cuore […]

Gianni

Daniele Benati e Gianni Celati

Per arrivare a un proprio stile – il “tono nativo”, per dirla alla Celati – Benati è dovuto passare per le traduzioni: e questo stile è lo stile del parlato, locale, quello che non si insegna a scuola: «Quando incominci a scrivere sei condizionato dall’educazione scolastica che hai avuto – mi ha raccontato -, ostenti uno stile azzimato, vuoi far vedere che sei bravo a scrivere, ma la cosa essenziale è trovare una propria voce». Così si spiega l’utilizzo di termini colloquiali nella scrittura benatiana, di frasi nominali con il punto, e una punteggiatura che segue la lettura ad alta voce, in contrasto proprio con le regole grammaticali impartite negli anni scolastici. «Per qualunque deviazione della lingua italiana che deriva dall’inglese nessuno ti dice niente, anzi fai quasi bella figura. Ma se lo fai col dialetto ti guardano male».

Benati rivendica, pertanto, l’importanza della lingua locale nella letteratura, senza che questa debba essere considerata di serie B. E lo fa sperimentando. Ecco perché per capire Benati, leggere gli autori da lui tradotti può essere un buon punto di partenza. 

Il luogo e l’individuo. Abbiamo parlato di Dublino. Nei luoghi che abitano le pagine dell’autore reggiano ci si perde, in bilico tra la vita e la morte, si cammina, si percorre un po’ di strada e poi si arriva a un punto in cui ci sembra di essere già stati: rieccoci tornati al punto di partenza. Questa è la ciclicità del tempo, leitmotiv benatiano. Tutto è un andare e venire. Un esserci, un non-esserci e un ricomparire. E il/la lettore/lettrice non può che chiedersi: Chi siamo noi? Siamo il luogo che abitiamo? O invece non sappiamo più “essere” senza un luogo a cui appartenere, in cui riconoscerci?  

Nell’ultimo racconto Fine non finire tratto da Un altro che non ero io, si rimane spiazzati nel trovare la storia  localizzata all’inizio in Irlanda e poi improvvisamente spostata in un paesino della provincia reggiana, con un salto temporale notevole. Allo stesso modo, nel romanzo Cani dell’Inferno, si fa fatica a capire se la storia abbia luogo a Boston o a Reggio Emilia.

Dove sta il nostro io? Forse siamo tutti viandanti, viaggiatori inconsapevoli, pellegrini. Come nell’Ulysses di Joyce. Come Dante, che a forza di errare, alla fine torna a riveder le stelle. Un guidare senza sapere dove andare. Un perdersi e poi ritrovarsi, incontrando persone che ci ricordano chi siamo stati, da che luogo veniamo. Ma tutto questo ha a che fare con la crisi d’identità, vero motore della letteratura postmoderna, (o surmoderna, come ha teorizzato l’antropologo francese Marc Augè). Una crisi d’identità che riguarda anche il mestiere dello scrittore. I protagonisti dei racconti Un altro che non ero io e La città bianca – tratti dall’omonima raccolta di racconti Un altro che non ero io – ricordano un po’ i wonder boys di Michael Chabon (autore contemporaneo statunitense, altro consiglio spassionato di lettura) – che vagano alla ricerca di sé, del proprio io frantumato, della conferma di essere riconosciuti come scrittori validi – per non dire di successo – del consenso di critica e pubblico, di lettori ed editori. 

Dalle pagine benatiane emerge poi la questione dell’isolamento come condizione necessaria alla scrittura. Il quale però è anche un isolamento interiore, in cui non ci si sente collocabili, ed è per questo che ogni luogo può essere nessun luogo e al tempo stesso tutti i luoghi. Quindi lo spazio, il tempo: un continuo errare senza venirne a capo, in un perenne moto circolare. 

Leggere Benati significa leggere il sentimento umano del nostro tempo. 

«Che ci faccio qui?» potrebbe essere la domanda alla base di ogni narrazione di Benati.

E non è forse questa la domanda più gettonata del XXI secolo?

Il Quadraro, un nido di vespe. Storia di una borgata che resiste.

[…] Giro per la Tuscolana come un pazzo \ per l’Appia come un cane senza padrone. \ O  guardo i crepuscoli, le mattine \ su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, \ come i primi atti della Dopostoria […]

Pier Paolo Pasolini, Io sono una forza del passato, in Poesie in forma di Rosa, 1964.

Roma, quadrante sud-est. Nella periferia di una città in continua e machiavellica espansione, “a macchia d’olio” secondo l’urbanista Italo Insolera, a prima vista non potrebbe esserci  molto da raccontare, se non fatti di cronaca nera o storie di degrado, come spesso accade. Ma già qualcuno aveva colto il valore intrinseco di questi luoghi. Pier Paolo Pasolini, l’esempio più noto, amava camminare e raccontare quello che vedeva nei quartieri più malfamati di Roma, osservare i ragazzi di vita che campavano di espedienti e che popolavano quei palazzi così alti e diroccati o quelle baracche raffazzonate. 

Il Quadraro, borgata popolare, sorto lungo la via Tuscolana all’inizio del Novecento,  potrebbe essere quindi annoverato come sfondo letterario di un ragazzo di vita qualsiasi. Un luogo folkloristico, dove ritrovare la romanità che ormai scompare di fronte all’avanzata del nuovo, della gentrificazione, della hipsteria che ormai avvolge molte di queste vie e piazze. Ma non è così: la Storia di una piccola borgata si è intrecciata con quella di tutta Roma e  d’Italia. È la Storia di una Medaglia d’oro al Merito civile, ottenuta per un grande sforzo eroico compiuto da una borgata di periferia durante la Resistenza antifascista, costato la vita a centinaia di persone. 

Piazza del Quadraretto

È opportuno fare un passo indietro nel tempo e raccontare, allora, questa Storia. Il Quadraro nasce come “borghetto” nei primi decenni del Novecento lungo la consolare via  Tuscolana. I borghetti, a differenza delle “borgate ufficiali” costruite dalle autorità,  nascevano direttamente per iniziativa degli abitanti, dunque spontaneamente e abusivamente; era perciò costituito in prevalenza da costruzioni misere e baracche realizzate dagli immigrati che giungevano prevalentemente dalle zone limitrofe del Lazio. 

Arrivarono così le prime infrastrutture, come la chiesa di Santa Maria del Buon Consiglio, fondata nel 1916 e ampliata nel 1959, che diventerà poi uno dei punti di riferimento del quartiere, e una linea tramviaria. 

Negli anni Trenta il regime fascista costruì diverse palazzine, in particolare nella zona a  destra della Tuscolana. Proprio in questo lasso di tempo, a partire dal 1935, con l’inizio della  collaborazione fra governatorato e IFACP (Istituto Fascista Autonomo Case Popolari), vennero completati e costruiti molti nuovi insediamenti in tutta Roma, cercando di risolvere  l’endemico problema delle baracche e delle relative condizioni abitative disastrose di molti  degli abitanti della capitale. 

Alla formazione morfologica e demografica della borgata, si accompagnò anche quella  dell’identità politica, che prese corpo durante la seconda guerra mondiale e la contestuale Resistenza.  

Nel quadrante d’azione compreso tra le vie consolari Tuscolana, Casilina e Prenestina, che costituiva l’VIII zona dei Gruppi di azione patriottica (GAP) attivi durante il secondo  conflitto mondiale, diverse bande compivano atti di resistenza civile contro i nazifascisti. Fra queste figuravano la Banda Rossi, una squadra di partigiani distaccatisi dal Movimento  comunista d’Italia con sede al Quadraro, il Partito d’Azione e poi la Banda Basilotta, che faceva parte delle Brigate Matteotti e capeggiata da Gioacchino Basilotta, di cui faceva parte Giuseppe Albano ossia il famosissimo Gobbo del Quarticciolo.  

Il quadrante sud-est della Capitale era quindi una zona di fervente antifascismo: nelle  borgate la Resistenza diventò un fenomeno di massa. Proprio qui si sviluppò, quindi, la componente popolare della Resistenza romana, accanto a quella intellettuale animata  soprattutto dagli studenti. Le azioni partigiane nelle borgate si saldarono a volte con vere e  proprie manifestazioni di massa, plateali e incisive. 

Ad esempio, fra il settembre 1943 e l’aprile del 1944, nel Tuscolano e nelle adiacenze si  susseguirono diverse azioni di sabotaggio lungo le vie consolari, nei vicini aeroporti di  Ciampino e Centocelle e vari attentati sulle linee ferroviarie.  

Lo storico Gabriele Ranzato racconta di alcune azioni compiute dalla Banda Lampo, che nel  gennaio del 1944 fu l’autrice dell’ostruzione della via Tuscolana all’altezza del bivio Cinecittà-Curato con grossi massi, causando il ribaltamento di un automezzo di testa di  un’autocolonna tedesca e il ferimento dei conducenti. Un’altra banda, invece, fu colpevole di un deragliamento nella stazione Tuscolana di alcune locomotive tedesche. Azioni analoghe  ebbero luogo anche nella vicina via Casilina. 

Il 5 marzo 1944 alcuni partigiani dell’VIII zona uccisero il commissario di pubblica sicurezza  del Quadraro Armando Stampacchia, che veniva considerato uno “zelante fascista”. Il mese successivo, nell’aprile del 1944, il Quadraro fu teatro di un’altra operazione  partigiana clamorosa ad opera della banda Basilotta. Presso quella che era l’osteria  Melafumo in via Tuscolana 684 tre gappisti della suddetta banda, fra cui probabilmente  anche il Gobbo del Quarticciolo, uccisero tre militari tedeschi che erano lì per pranzare. La mattina del 17 aprile del 1944, ossia una settimana dopo l’attentato all’osteria Melafumo,  circa duemila uomini vennero presi e portati via dalle loro case, su ordine del generale  tedesco Herbert Kappler e con l’ausilio di unità dell’esercito tedesco. Ebbe così luogo il  rastrellamento del Quadraro, un’azione di rappresaglia dei nazifascisti, che volevano lanciare un messaggio a questa borgata così accesa, tanto da essere soprannominata dai  tedeschi nido di vespe. 

In una relazione del Ministero dell’interno si parla di “[…] un’azione di rastrellamento nel  rione Quadraro […] operando nelle vie, nei pubblici locali e nelle abitazioni private. Pare  siano stati rastrellati circa 2000 uomini per il servizio del lavoro, fra i quali i giovani di 16  anni e persone di età sino a 55 anni e in taluni casi sino a 70 anni […]”. I duemila uomini arrestati vennero condotti presso i vicini studi di Cinecittà. Di questi, ne  vennero scelti settecentosette in base alle loro attitudini fisiche. 

Il parroco della chiesa di S. Maria del Buon Consiglio, don Gioacchino Rey, convinto  antifascista che offriva rifugio in parrocchia a tanti dissidenti, offrì la propria vita ai tedeschi  per far liberare i quasi mille prigionieri. La richiesta gli venne negata e non poté salvarli. A differenza di altre rappresaglie compiute nella Capitale, i rastrellati del Quadraro non  vennero messi a disposizione delle forze armate tedesche per lavorare nei pressi di Roma ma vennero deportati in Germania. 

Infatti, dopo due giorni, gli abitanti che erano stati presi vennero spostati e deportati al campo di concentramento di Fossoli, vicino Carpi, e ceduti come “lavoratori volontari” in  diversi campi di lavoro tedeschi. 

Non si conosce ancora il numero esatto di persone che non tornarono perché deceduti nei campi. Ad ogni modo, quelli che riuscirono a rientrare a Roma dopo lunghi mesi di  patimenti, quasi sicuramente non sopravvissero a lungo.  

Il console Eitel Friedrich Moellhausen scrisse nelle sue memorie sul rastrellamento del  Quadraro che “[…] il rastrellamento del Quadraro fu il più imponente di quelli che Roma  subì […]. Fu un’operazione diretta della polizia responsabile della sicurezza di Roma, la  quale vedeva nel Quadraro il rifugio di tutti gli elementi contrari, degli informatori dei  partigiani, dei comunisti, di tutti coloro che essa combatteva. Il comando della città era  dell’opinione, più volte manifestata, che quando qualcuno non riusciva a trovare rifugio o  accoglienza nei conventi o al Vaticano, si infilava al Quadraro, dove spariva. Voleva finirla  una buona volta con quel “nido di vespe […]”. 

In un comunicato nazista del 18 aprile, pubblicato su Il Giornale d’Italia, il rastrellamento, chiamato dai tedeschi Operazione Balena (Unternehmen Walfisch), venne correlato ad altre drammatiche rappresaglie avvenute contestualmente, quali l’attentato partigiano di via Rasella e l’eccidio delle Fosse Ardeatine, confermando quindi che fosse anche questa  un’azione di questo genere dopo l’attentato ai tre militari all’osteria Melafumo. Il Quadraro, il “quartiere che nun abbozza”, non ha mai dimenticato il rastrellamento e anzi ne  ha fatto un punto di forza della propria identità, appropriandosi dei valori della Resistenza e  dell’antifascismo, i quali sono visibili ancora oggi nell’inclusività, multiculturalità e apertura  di molti dei suoi abitanti. 

Ad oggi è ancora viva la memoria di quanto è accaduto. L’ANPI, diverse sigle politiche, realtà associative e comitati di quartiere ricordano ogni anno il rastrellamento del 17 aprile  1944 con varie manifestazioni e commemorazioni. Il 25 aprile 2021, in occasione della Festa  della Liberazione, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha portato un omaggio ai  caduti del rastrellamento al parco ad esso dedicato, ossia il giardino di Monte del Grano o  Parco 17 aprile 1944, in piazza dei Tribuni. 

In più, decine di libri, articoli, testimonianze, documentari e anche murales realizzati da  street-artist internazionali sui muri del Quadraro ci raccontano, ognuno in maniera diversa, questa storia. Anche se purtroppo spesso questo episodio passa in secondo piano rispetto  ad altre rappresaglie capitoline o altri episodi della Resistenza. Ed è per questo che non  bisogna mai abbassare la guardia e continuare a raccontare. 

Per non dimenticare i borgatari che hanno pagato con la vita nella lotta per la libertà. Perché  Storia e Memoria sono tutto ciò che abbiamo e dobbiamo preservarle e difenderle contro chi  nega, mistifica, dequalifica i valori della Resistenza. E per ricordare che anche una “piccola  borgata di periferia” in realtà può essere, ed è, molto di più di quel che appare.  

Fonti

A. Sotgia, INA Casa Tuscolano. Biografia di un quartiere romano, Franco Angeli, Milano,  2010 

G. Berlinguer, P. Della Seta, Borgate di Roma, Editori Riuniti, Roma, 1976

G. Ranzato, La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza, Laterza, Roma-Bari, 2019

S. Fabrizi, La storia del Tuscolano. Dalla preistoria ai giorni nostri, Typimedia, Roma, 2019

S. Fabrizi, La storia del Quadraro. Dalla preistoria ai giorni nostri, Typimedia, Roma, 2021

L’importanza del bar della colazione

I romani (o forse gli italiani) sono molto infantilmente capricciosi al bar.

Patrizia Cavalli, Con i passi giapponesi

Io, che vengo da una città dove ci sono più bar che panetterie, vi posso assicurare che niente eguaglia quello spazio – povero o ricco che sia – voluto dal misconosciuto dio del Caso.

Goliarda Sapienza, Elogio del bar

È stato grazie a Patrizia Cavalli che ho capito di non essere un caso isolato, ma di avere un cruccio che affligge più persone: la necessità di trovare il bar dove bere un cappuccino o sorseggiare un caffè perfetto.

Il mio capriccio riguarda più che altro la colazione, momento per me fondamentale, essendo quell’interludio di illusione tra la notte e il giorno in cui mi permetto il lusso dell’immaginazione prima di venire risucchiata dal vortice degli impegni e dei problemi che scandiscono il ritmo delle mie giornate.

Trattandosi di una questione seria, e non avendo ancora trovato il bar per la colazione a Napoli, è come se non mi fossi ancora ben incastrata nelle strade di questa città, come se non fossi ancora riuscita a ritagliarmi la mia sporca pezza di quiete e pretesa serenità.

Individuare un bar in cui la combinazione cappuccino-cornetto-luogo-costi sia in grado di soddisfare questo bisogno di esistenza, di senso di appartenenza al luogo che si abita, non è cosa semplice: c’è il bar che si trova nel posto ideale, ma dove i cornetti non sono granché, quello che è geograficamente scomodo, ma dove la colazione è buonissima, quello che costa troppo (e nelle cose che costano troppo non mi sento mai a casa); quello troppo bianco e con il bancone troppo lucido, quello dove il tavolo e la sedia non sono comodi per leggere, quello in cui tavoli e sedie non ci sono nemmeno, quello che sta troppo a ridosso della strada, dove «le macchine scorrono pazze portandosi tutto via come un fiume in piena di morte, uccidendo il profumo di verde e il silenzio», quello in cui ci sono troppe persone che si susseguono e non è possibile sostare le ore, quello nei confronti del quale semplicemente non è scattata la scintilla dell’innamoramento.

Poi c’è il bar del tribunale, luogo in cui trascorro quasi tutte le mie mattinate, e dove ho potuto finalmente provare il «vedersi comparire davanti sul bancone quel che si vuole senza neanche aprire bocca» e il poter «sorseggiare da quella tazza o da quel bicchiere la certezza fiabesca di esistere». Il barista, infatti, come scrive Cavalli: «è spesso non solo un santo ma un genio mnemonico», capace di dare vita, con la formula magica “il solito?”, all’avventore del bar, essere quasi sempre inconsistente prima del caffè mattutino.

Nemmeno il bar del tribunale – nonostante sia riuscita ad affermare il mio esistere tramite il gusto del caffè ormai noto (normale senza zucchero) – mi ha però conquistata: le colazioni migliori sono quelle che non hanno una fine prestabilita, che possono durare anche due o tre ore, e il bar del tribunale non è predisposto a questo tipo di rituale che desidererei quotidiano.

Il bar della colazione è un luogo in cui fare colazione prima di andare al lavoro, dove è possibile trascorrere le ore perdendosi nelle tazze di cappuccino tra mille letture e conversazioni o fare la seconda colazione dopo la prima fatta a casa (le seconde sono tendenzialmente le colazioni migliori).

Come scriveva Goliarda Sapienza, «il mattino è proprio bello quando si può ciondolare intorno a un caffè e due sigarette» e nel bar della colazione deve essere possibile anche questo pigro dondolare.

La differenza tra le colazioni a casa (che pure amo) e quelle al bar è che mentre le prime costituiscono momenti di piacere esistenziale intimo e silenzioso, è nella dimensione collettiva del bar che è possibile sentire di appartenere al luogo nel quale si vive, alla comunità che anima quel quartiere, quella data città.

Quando faccio colazione a casa mi piace leggere o ascoltare la radio, alle chiacchiere preferisco il silenzio, perché è il momento della giornata durante il quale sto con me stessa dopo la notte trascorsa e prima che il giorno mi travolga. Al bar, invece, ci si appropria di sé stessi tramite l’interazione con le altre persone, tramite l’incontro o lo scontro, ci si connette con il mondo amalgamandosi con il tintinnio dei piattini sbattuti sul bancone e il fischio aspro del vapore della macchinetta del caffè.

In entrambi i luoghi, posso soddisfare il «mio passatempo preferito: scrivere sciocchezze insensate», come questo breve pezzo, scritto sorseggiando tazze di caffelatte bollente seduta alla scrivania in una domenica mattina di autunno inoltrato in cui c’è talmente tanta gente in giro che la strada sotto casa è regolata dal senso unico pedonale.

E il problema di non avere ancora trovato il mio bar della colazione è che se provassi ad uscire di casa ora mi perderei in mezzo alla folla e sotto il battere incessante delle gocce di pioggia che da settimane non lascia tregua, perché non saprei dove andare per stare un po’ con me stessa e sentirmi parte di questa città.

Illustrazioni di sradicare

I libri da portare con noi nel 2022

Italo Calvino apre Se una notte d’inverno un viaggiatore con un’avvertenza per il lettore: mettersi comodo e rilassarsi prima di iniziare a leggere. «Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto».

Noi raccogliamo il suo invito e lo rivolgiamo a voi. Prendete la posizione più comoda e, una volta trovata, sempre seguendo i consigli di Calvino, regolate la luce in modo tale che non vi si stanchi la vista.

Siete pronti?

Iniziamo.

Ci sono vari modi di ricordare gli anni, uno di questi è sicuramente farlo attraverso i libri, calendari su cui segnare date e periodi delle nostre esistenze. A chi non è mai capitato di ritrovare in qualche scaffale, dopo tantissimo tempo, un libro letto in passato e associarlo immediatamente a un giorno d’estate o a un pomeriggio invernale in cui lo avevamo tra le mani?

I libri sono frammenti della nostra memoria, capaci di risvegliare in noi anche le sensazioni più lontane, quelle che stavamo provando nel preciso momento in cui li stavamo leggendo.

Di seguito troverete una serie di titoli che la nostra redazione ha scelto in base a un criterio preciso: libri che ci hanno fatto stare bene e che per questo, anche se abbiamo già letto, vogliamo portare con noi nel nuovo anno appena iniziato. Un libro per ogni mese dell’anno.

Ecco il nostro calendario.

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Il dono oscuro di John M. Hull – Adelphi

È il secondo libro che ho letto nel 2021, ma l’ho portato con me tutto l’anno, consigliandolo, rileggendolo, rievocandolo. Lo porterò anche nel 2022, non sono pronta a lasciarlo andare. Si tratta di Il dono oscuro di John M. Hull, il diario di un professore australiano divenuto cieco a quarant’anni.

Si dice che i libri siano porte su altri mondi, e questo lo è certamente. Un mondo nero, com’è facile pensare, ma ricco di autoanalisi acute, riflessioni brillanti e resoconti pacati dei momenti più sentimentali. Un diario raffinato e intrigante, da leggere se si ha voglia di essere trascinati altrove, ma non si è disposti a farsi abbindolare dall’ennesimo mondo fantastico. Ce n’è abbastanza quaggiù, per perdere la bussola.

di Silvia Valli

Il bar delle grandi speranze di J.R. Moehringer Pickwick

«Essere soli non ha niente a che fare col numero di persone che si hanno intorno», scrive a un certo punto J.R. Moehringer. Nonostante la lettura sia l’atto solitario per eccellenza, dal primo momento in cui aprirete questo libro, vi sentirete profondamente connessi ai magnifici personaggi che gravitano nel Publicans, il bar in cui il protagonista cresce e in cui da adulto avrà sempre l’esigenza di tornare per ritrovarsi. Sarete incapaci di prendere una pausa dal mondo folle e crudo in cui riescono a trascinarti, completamente rapiti da una scrittura di cui si diventa avidi e invidiosi.

Il protagonista del libro è J.R. Moehringer stesso, il quale ripercorre la propria vita dall’infanzia difficile al successo come giornalista del NY Times e vincitore del Premio Pulitzer. Eppure, nonostante l’autorevolezza di questo autore, ognuno potrà riconoscersi nella sua storia fatta anche di tentativi falliti, rifiuti, ripensamenti sul proprio futuro. Ciò che conta, per Moehringer, è saper trovare il proprio equilibrio come fanno i cactus che passano la vita a cercare di star dritti: quando cominciano a inclinarsi da una parte fanno crescere un braccio dall’altro lato per raddrizzarsi, quando si piega quel lato fanno crescere un braccio dalla parte opposta e così via. «Una cosa che cerca così disperatamente di mantenere l’equilibrio merita ammirazione».

Da gennaio 2022, sarà disponibile su Prime Video Tender Bar, il film che George Clooney ha diretto ispirandosi a Il bar delle grandi speranze

di Francesca Scerrato

Il giornalino di Gian Burrasca di Vamba – Giunti

Se penso ai libri che mi hanno fatto stare bene, Il giornalino di Gian Burrasca è uno dei primi titoli a venirmi in mente: sin dai tempi delle elementari, mi mette di buonumore non appena lo apro. L’ho riletto durante l’autunno scorso, e mi sono divertito un sacco. Ho girovagato per la Toscana di inizio Novecento, che Giannino Stoppani racconta tra aneddoti e disegni, mentre compila le cronache delle sue migliori birbanterie. Ho preso un treno da Firenze a Roma il 26 dicembre del 1905. Ho esultato gustando la pappa col pomodoro. E quando ho girato l’ultima pagina del giornalino, mi sono detto questo: tra le tante marachelle che possiamo permetterci di commettere pure da adulti, rubare del tempo alle nostre giornate per leggere un libro è certamente la più fantastica e la più spassosa.

di Michele Castelli

Bestiario sentimentale di Guadalupe NettelLa Nuova Frontiera

Ho letto questa raccolta di racconti il giorno di Natale, in un pomeriggio sonnolento e piovoso. Mi sono abbandonata alle pagine come un orso al letargo. In questa impresa però ero in buona compagnia. In tutte le storie, infatti, ho incontrato altri esseri umani che, come me, riuscivano a descrivere il proprio stato d’animo e a comprendere meglio la propria condizione esistenziale grazie all’identificazione con alcuni animali. Una donna apparentemente osserva solamente un acquario con una coppia di pesci ma in realtà sta studiando il suo rapporto d’amore. Un’altra vive la sua gravidanza in simbiosi con quella della propria gatta. Un uomo prende con sé un serpente nella speranza di guarire da un altro veleno. Una storia d’amore si trasforma presto in un rapporto parassitario, come quello dei funghi con l’organismo ospitante. Un bambino combatte con l’orrore di una casa infestata dagli scarafaggi e come la protagonista de La passione secondo G.H di Clarice Lispector scopre che quella presenza inquietante ha in realtà molto da insegnargli su sé stesso e sugli altri. 

Un bestiario sentimentale – come quello di Cortàzar, per entrare in contatto, per dirla con Derrida, con l’animale che dunque siamo

di Carolina Germini 

L’età forte di Simone de Beauvoir – Einaudi

In un momento di stallo per il nostro Paese, viaggiare con l’immaginazione era necessario se non doveroso. Con questo spirito e grande gioia, ho abbracciato una delle memorie di Simone de Beauvoir: L’età forte. Come svela già il titolo, Beauvoir narra l’inizio della sua vita adulta, i numerosi viaggi che fa con Sartre, il periodo della Seconda guerra mondiale e l’inizio della sua carriera da scrittrice. La transizione fisica e psicologica si è contrapposta alla staticità che ero costretta a vivere in quel momento. Nelle primissime pagine è descritta la più banale delle attività umane che nella mia mente sembrava tra le più potenti: «Ci sedevamo sull’erba e parlavamo. Non avevo immaginato, il primo giorno, che, lontano da Parigi e i nostri compagni, questa occupazione potesse bastarci».

di Alessandra De Gennaro 

I cani romantici di Roberto Bolaño – Sur

«Sulla strada dei cani la mia anima incontrò / il mio cuore. A pezzi, ma vivo,/ sporco, malvestito e pieno d’amore». 

Ed è sul vagone di un treno – preso in un giorno di settembre e diretto verso un futuro assolutamente incerto -, che il mio cuore, sentendosi allo stesso modo, ha avuto la fortuna di imbattersi nella strada de I cani romantici

I quarantatré componimenti – scritti tra l’80 e il ’98 – addensano in pochissimi versi  la complessità di veri e propri romanzi, dischiudendo mondi folgoranti, affollati da detective, prostitute e poeti, cari a tutta la produzione di Bolaño.

Il movimento interiore che da Barcellona spinge lo scrittore a tornare al «perduto» Cile – straziato dalla dittatura di Pinochet – , e al Messico in cui è cresciuto, ripercorre le tappe della sua giovinezza, della sua formazione letteraria e del suo impegno politico. In un intreccio di vicenda personale ed esperienza storica, è un senso di irrequietezza ad attraversare l’intera raccolta, perché il sogno è sempre sull’orlo di trasformarsi in un incubo.

Ma dall’abisso di qualunque disperazione ci si può forse salvare aggrappandosi a «un amore sfrenato» per una donna o per un’idea:  «A quel tempo crescere sarebbe stato un delitto. / Sono qui, dissi, con i cani romantici/  e qui resterò».

di Chiara Molinari 

Limonov di Emmanuel Carrère – Adelphi

Limonov di Carrère è uno di quei libri che non smetterò mai di consigliare.  Me lo regalò mio cugino a Natale 2020 e lo lessi subito. Si tratta di un puzzle di riflessioni politiche etiche e letterarie che si incastrano con la vita di Limonov e i luoghi che attraversa. Il risultato del puzzle è uno sguardo sul mondo che consiglio a tutti di scoprire e fare proprio nel 2022.

Limonov ci porta in giro per il mondo: Dzerzhinsk, piccolo villaggio in Unione Sovietica, Mosca, New York, Parigi, e poi nei Balcani. Questi luoghi e la loro storia vengono presentati con una scrittura lucida e senza espedienti. Ma il disincantato procedere di Carrère si scontra con lo sguardo idealista e sognatore che Limonov ha della propria vita.

Questi due punti di vista, apparentemente inconciliabili, si sovrappongono e ci restituiscono un’attenta e acuta analisi di luoghi e degli animi umani. Un intreccio di realismo, sogni, illusioni e desideri. È così che Carrère riesce a nascondere la contraddizione tra storia universale e soggettiva e ci dà l’illusione di afferrare il reale.

di Caterina Irdi

L’arte della gioia di Goliarda Sapienza – Einaudi

Ho letto questo romanzo durante un’intera estate. Non che sia di difficile lettura, non che sia difficile scorrere fra le sue pagine, tutt’altro: non riuscivo a staccarmene, per cui ho voluto tenerlo con me il più possibile. L’arte della gioia è il primo scritto di Goliarda Sapienza che abbia incontrato e di cui mi sia, scusate se sono eccessiva, innamorata. Il romanzo, pubblicato postumo perché difficilmente accettato dagli editori che lo definirono troppo sperimentale e immorale, racconta la storia di Modesta, una “carusa tosta” che vive in bilico fra la finta accettazione della vita che le viene riservata e l’inseguimento delle sue più innate passioni, viscerali e morali. 

«Imparai a leggere i libri in un altro modo. Man mano che incontravo una certa parola, un certo aggettivo, li tiravo fuori dal loro contesto e li analizzavo per vedere se si potevano usare nel mio contesto».

di Ilaria Palmieri 

Un libro su come si fanno i libri.

Quando ho visto gli autori che avevano collaborato a questo progetto, ho subito pensato: Lo voglio! Chiara Valerio, Francesco Piccolo, Giacomo Papi, Michele Serra, Concita di Gregorio e Luca Sofri parlano dell’oggetto d’arredo più famoso al mondo. 

Di fatto è un vademecum/prontuario/magazine interamente dedicato al libro. Si parla di case editrici, di font, di carta, di editor, di traduttori, di ghostwriter. Il tutto intervallato dalle splendide illustrazioni di Giacomo Gambineri. 

Questo è il primo numero della rivista di carta del Post in collaborazione con Iperborea, ognuno dedicato alle Cose da sapere. 

Se siete dei bookaholic, un libro del genere non potete perdervelo.

di Carlotta Curti

Siddharta di Herman Hesse – Adelphi

Chi non l’ha letto? Eppure è un libro che rileggo con piacere. Perché mi fa stare bene. La prima volta l’avevo letto nel corso di un’estate adolescenziale. Effettivamente si tratta di un romanzo di formazione. Un classico. Ricordo che, sin da subito, il modo di raccontare di Hesse, la ricerca che il personaggio fa di sé stesso, la filosofia di alcune parti del libro, mi ispirarono come un mantra. Il libro narra la storia di Siddharta, un giovane ragazzo indiano, che cerca la propria strada e comincia un percorso di viaggio insieme al suo amico Govinda. Tutto si trasforma, nulla si distrugge e il protagonista, alla disperata ricerca della verità, compie un intero percorso di vita, durante il quale si fa accompagnare per mano dal lettore. Ho riletto Siddharta dopo circa dieci anni, in un momento difficile. L’ho scelto tra tanti altri testi della mia libreria, per ritrovare in esso la pace e quella guida spirituale che ricordavo. Ero, certamente, più consapevole, dunque è stata una lettura diversa. Ma credo che questo sia l’aspetto migliore del rileggere un libro già letto: che con occhi nuovi e cambiati, tutto sembra diverso, ma nulla si distrugge, tutto si trasforma.

di Valentina Fiordiliso

Chi è morto alzi la mano di Fred Vargas – Einaudi

Leggendo questo libro durante l’unica settimana di vacanza che ho vissuto a fine agosto 2021 nella vulcanica Catania, mi sono resa conto di quanto troppo spesso io dimentichi la mia passione per i gialli. A contarli tutti non ne ho letti poi parecchi, eppure ricordo perfettamente quando un mio amore del passato mi regalò una raccolta di Agatha Christie «perché in viaggio c’è bisogno di un compagno». E devo dire che se penso al bel faccione sornione di Agatha e ai baffoni di Poirot mi viene automaticamente da sorridere. Quale compagnia migliore del buon umore?

Comunque sia, il mio consiglio di oggi racconta di un’altra autrice di gialli, Fred Vargas, alias Frédérique Audouin-Rouzeau, che oltre ad essere una brillante scrittrice francese è anche archeologa e medievista.

In Chi è morto alzi la mano del 1995, tre giovani storici squattrinati e appassionati ‒ Marc, Lucien e Mathias ‒ si trovano per caso a vestire i panni di investigatori improvvisati quando compare un misterioso faggio nel giardino della loro vicina di casa. La donna, una famosa cantante di opera lirica, qualche giorno dopo scompare nel nulla, dando inizio ad un caso che prende le pieghe di una vera e propria ricerca storica tinta di noir fra le vie di Parigi. A supportare i ragionamenti dei tre ragazzi c’è Vandoosler, ex commissario di polizia ritiratosi per ambigue faccende, che dà loro il soprannome di Evangelisti (rispettivamente San Marco, San Luca e San Matteo).

Voglio portarli con me nel 2022 perché sono stati compagni di viaggio simili a me: sognatori, che in un momento di difficoltà hanno saputo accendere una luce nuova, proprio lì dove non avevano mai pensato potesse nascondersi.

di Lavinia Micheli 

Le storie di Arturo Bandini di John Fante – Einaudi

Nel 1982, John Fante, a circa quarant’anni dall’uscita di Chiedi alla Polvere, ritorna con Sogni di Bunker Hill, il capitolo conclusivo della saga familiare che ha per protagonista Arturo Bandini – eteronimo dell’autore –.

Bandini è un uomo insoddisfatto, caustico, irriverente, imprevedibile che si è trasferito in California, dal Colorado, inseguendo il mito e il sogno di diventare uno scrittore per poi finire nel girone degli scribacchini degli Studios della Hollywood anni Trenta, un «paradiso nella polvere».

Nel ’79 l’autore, allettato e cieco a causa del diabete, detta alla moglie quest’ultima avventura che vede come protagonista un Bandini scrittore (di cinema). Fante in qualche modo ce l’ha fatta nella vita ma sente l’esigenza di fare i conti con un irrisolto.

Come scrive Tondelli nella prefazione: «Non è un caso allora se la sconfitta di Bandini come individuo si ha quando non gli è permesso, per un motivo o per l’altro, di scrivere. Il circuito che dalla vita porta all’arte e dall’arte al desiderio di vita, si interrompe. C’è una dispersione di energia che provoca infelicità». Ed è con Hollywood, i sogni e le contraddizioni e il «centro vitale della sue nevrosi: il paradiso-inferno di Bunker Hill», che Fante si relaziona, in punto di morte, lasciandoci, col suo humour beffardo e la sua ironia, un romanzo greve ma non malinconico.

Nel 2022, a quarant’anni dalla prima edizione, Arturo Bandini può ancora scuotere senza illusioni e moralismo chi ancora lotta per affermarsi e trovare il suo posto.

di Lorena Aristide

L’illustrazione in copertina è di Quentin Blake