L’inverno appena terminato ha visto ricomparire, nelle campagne del milanese e per una manciata di mezze giornate pure in città, una illustre meneghina che negli ultimi anni pareva essere emigrata chissà dove: la nebbia. Questo, come ogni ritorno più o meno atteso, ha scontentato alcuni e reso felici altri. In ogni caso, il potenziale suggestivo della città ne ha beneficiato parecchio. Milano, con la nebbia, regala scorci da copertina del Dottor Jekyll e Mister Hyde o dei Racconti fantastici di Gautier. E proprio ai libri mi sono rivolto per scoprire qualcosa di più sull’eminenza grigia che da sempre condiziona atmosfere, umori e meteorologia del capoluogo lombardo.
Il primo testo che ho sfogliato è dello storico inglese John Foot: Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, edito da Feltrinelli nel 2003. Si tratta di un saggio che esamina alcuni passaggi chiave attraverso cui Milano, nella seconda parte del secolo passato, si è resa protagonista delle grandi trasformazioni sociali, politiche ed economiche italiane. Foot considera un arco temporale che va dagli anni Cinquanta al Duemila, e descrive «la microstoria di una città», «prendendo spunto da certi microelementi – quartieri, spazi, luoghi, eventi, film, programmi televisivi, strade, immigrati, oggetti di design e di consumo» utili a «spiegare i macrocambiamenti che hanno permeato la maggior parte delle cronache e delle ricostruzioni storiche».

Un capitolo molto interessante, nel saggio, è dedicato al rapporto tra Milano e il cinema. E quando si parla di film milanesi, spesso si finisce per parlare anche di nebbia: motivo ricorrente, come fa notare Foot, nelle rappresentazioni cinematografiche della città. Quasi un effetto speciale che le condizioni metereologiche mettono a disposizione del regista, la nebbia avvolge e confonde, raffredda e nasconde. Il fitto grigiore di certe giornate invernali, immortalato in pellicole come Miracolo a Milano o Rocco e i suoi fratelli, riflette l’anima del capoluogo di una regione, la Lombardia, che «angoscia con dolcezza» secondo un’intuizione di Pasolini – autore tra l’altro di un noir ambrosiano, uscito in volume come sceneggiatura, dal titolo La nebbiosa. Ma attenzione: la scighera, per sua natura, mente ed è beffarda. Scrive Foot: «Sarebbe interessante analizzare più a fondo la psiche di una città la cui identità sembra essere definita, dal punto di vista fisico e meteorologico, dall’impossibilità di essere vista». Riguardo alle aree al margine della metropoli, e alle rivisitazioni cinematografiche che di esse sono state proposte, il saggio parla di una periferia «piatta, grigia e perennemente immersa nella nebbia». La scighera come emblema di Milano e del suo hinterland: tanto sul set quanto nella realtà. «Si dice che un vero milanese nasca “con la nebbia nei polmoni”» ricorda a questo proposito Foot. «Quella nebbiolina color Santambrogio fuori le finestre» la ritrasse magistralmente Gadda ne L’Adalgisa, condensando, in sette parole, secoli e secoli di milanesità.
Le voci dialettali per nominare la nebbia, in Lombardia, sono diverse. Scighera è la più nota, e secondo alcuni dialettologi può essere usata solo per un certo tipo di bruma umida e accecante; ma ci sono anche: borda, fumana, gheba (o ghiba), lova e golp (cioè lupa e volpe, a indicare «la voracità» della foschia «che inghiotte tutto», come viene spiegato nella dettagliatissima pagina sulla scighera curata da Pietro Cociancich per il sito del Comitato per la Salvaguardia dei Patrimoni Linguistici). Bianciardi, ne La vita agra, scriveva: «La chiamano nebbia, se la coccolano, te la mostrano, se ne gloriano come di un prodotto locale». Una volta negli stadi di calcio italiani, quando in campo scendeva una delle due squadre meneghine, la tifoseria avversaria intonava un coro divenuto ormai motivetto pop e cult: «C’avete solo la nebbia». Questo sfottò contiene una verità sottile, illusoria: quando la città e le campagne vengono invase dai banchi di nebbia, Milano ha solo lei, e tutto il resto, come per magia o per inganno, sparisce.

La scighera è ciò che esiste di più simile, in natura, alle pozioni capaci di rendere invisibili i personaggi dei cartoni animati; ed è il fenomeno metereologico che meglio avvera il fiabesco. Incantesimi, misteri. Milano si ricorda di possederne soprattutto durante gli inverni «lunghi gelidi nebbiosi» raccontati in alcune pagine di Un po’ di febbre dal poeta Sandro Penna.
Questo lato oscuro ed enigmatico della città è al centro di un altro libro: Guida ai misteri e segreti di Milano (Sugar Editore, 1967). La guida rievoca alcune delle vicende più tetre e sottaciute attorno al capoluogo lombardo, ospitando articoli e brevi saggi di autori eminenti: Dino Buzzati, Giansiro Ferrata, Piero Chiara, Luigi Santucci, Oreste Del Buono, Luigi Veronelli, Corrado Stajano, per fare alcuni nomi. A ricordarci che siamo nella culla di sopravvissute superstizioni celtiche e del pret de Ratanà – lo sciamano meneghino più famoso di sempre – sono soprattutto i capitoli curati da Grazia Livi (“I maghi di Milano”) e da Domenico Porzio (“Diavoli, fantasmi e spiriti”). Riassumendoli, potremmo fare un elenco di figure sinistre e stregonesche: il “Pojan” Pogliani, celebre caposepoltore all’epoca della grande peste (ancora oggi si dice l’è in man del Pojan, «è nelle mani del Pogliani», per affermare di qualcuno che è spacciato); “Max Mayor” Locatelli, chiromante con studio in Bastioni di Porta Volta; la nerovestita Miarcka, veggente residente in piazza Beccaria; la cartomante dell’alta borghesia Colomba Macecchini Tarenzi (viale Pasubio); il mago Emilio “Mustafà” Scappini, toscano, ex contadino ed ex circense (via Bianca di Savoia). Ce ne sono molti altri nella guida: personaggi che si sono resi protagonisti di leggende o di intrighi documentati, tra aneddotica popolare e fenomeni paranormali. La lista di misteri milanesi riguarda anche la città intesa come spazio fisico, marciapiedi e architetture. È il caso di una colonna della basilica di Sant’Ambrogio «mozza, leggermente pendente, ornata da due buchi», come è descritta nello stradario che fa da appendice al volume: «i fori sono stati fatti dalle corna del diavolo che in tal modo si sfogava per non aver saputo convertire al male Sant’Ambrogio». Secondo una vecchia credenza lombarda, è proprio la scighera – capace di rendere invisibile la testa cornuta del satanasso – una delle migliori alleate di Lucifero.
La nebbia, nella guida, non viene trattata con la scrupolosità di Foot, ma fa da sfondo fisso a tanti racconti ambientati ai piedi della Madonnina. Una cosa simile avviene nel Viaggio in Italia di Piovene, quando l’autore, per introdurre il capitolo su Milano, ricrea dapprima un’atmosfera fosca, facendo incursione nella Val Padana sud-orientale: «Terre grasse ed insieme spiritate, dai cibi succulenti, dai contadini avvolti di un tabarro nero che emergono dalle nebbie bianche conducendo i buoi, dai pingui soli che si specchiano nelle rogge». La Bassa, l’Est dell’antica Mediolanum. Procedendo verso oriente, si sconfina in territori già esplorati da Tre Sequenze con il meraviglioso articolo di Carlotta Curti sull’Emilia e Daniele Benati, che ci portava alla scoperta di altre nebbie e di un’altra Pianura Padana. Recentemente mi è capitato di vedere in tv un’intervista d’archivio a Giorgio Bassani, scrittore di quelle zone. Parlava di città e di romanzi, Bassani, senza soluzione di continuità tra la sua Ferrara e la Praga di Kafka. Diceva che ogni autore reinventa i propri luoghi servendosi di memoria e fantasia, come se la narrazione degli spazi fisici fosse, in fondo, un gioco tra ricordo e invenzione. Ecco, se sopra a tutto s’addensa un po’ di nebbia, il gioco può riuscire anche meglio.
