Sono una di quelle lettrici che fatica a leggere l’ultima uscita in classifica e preferisce rifugiarsi nei libri che capitano sottomano, per passaparola o grazie a un prestito di qualche amico. Talvolta può succedere che lo restituisca senza essere andata oltre pagina 24, altre volte invece mi appassiona così tanto che di quell’autore o di quell’autrice voglio leggere tutto.
È stato così per Daniele Benati, autore contemporaneo reggiano, classe ’53, scrittore, critico letterario e musicale, traduttore dall’inglese, professore. Nonostante goda di un ampio riconoscimento nell’ambiente letterario italiano ed estero, la narrativa di Benati – facente parte di quella nicchia di “narratori della pianura”, all’interno della più ampia scuola degli “scrittori della via Emilia” (Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni, Paolo Nori, Ugo Cornia, per citarne alcuni), – fatica a emergere tra gli scaffali delle librerie. Perciò il mio è anche un appello spassionato a far ripubblicare le sue opere.

Lo conobbi per la prima volta all’università, mentre preparavo l’esame di Prosa Italiana del ‘900, e da lì non mi sono più fermata, visto che ho deciso poi di trattarlo anche nella mia tesi magistrale. Pochi autori hanno saputo narrare l’Emilia con l’acume e l’osservazione di Benati, attraverso una scrittura fortemente geolocalizzata, in grado tuttavia di diventare qualcosa di universale, di eterno.
Penso a Pier Vittorio Tondelli, che negli anni ’80 scriveva pagine di vita che potrebbero essere state scritte oggi nel 2021 e che tutti a vent’anni dovrebbero leggere; penso a Francesco Guccini, il cantastorie per eccellenza dell’Emilia; penso a Luigi Ghirri, che è riuscito a rendere immortali e mistici una strada, una luce al neon, una macchina ferma, un paesaggio anonimo coperto dalla nebbia.

Emilia mistica.
Il fotografo di Scandiano – grande amico di Benati – ha conferito epicità ad alcune immagini apparentemente normali, senza peso. E Benati è un po’ l’equivalente di Ghirri nella letteratura: ha reso i paesaggi eterni e l’ha fatto tramite la tecnica joyciana della rivelazione.
Per lo più conosciuta come epifania, è una tecnica narrativa che sta a indicare una realizzazione improvvisa, una sorta di illuminazione, quasi a svelare qualcosa di ignoto o di mistico, qualcosa che, come ci ricorda l’etimo, ci appare dall’alto. James Joyce la utilizzò in Gente di Dublino (non a caso tradotto da Benati per Feltrinelli nel 2013): «per smascherare l’anima da quella emiplegìa o paralisi che molti considerano una città». Come molti di noi ricorderanno, infatti, i dublinesi sono personaggi fisicamente vivi ma spiritualmente morti. Un po’ dei morti che camminano, insomma, come lo sono per la maggior parte i personaggi benatiani, dalla sua prima e forse più conosciuta opera, Silenzio in Emilia (Feltrinelli, 1997) a Cani dell’Inferno (Quodlibet, 2018), ultimo romanzo pubblicato dello scrittore reggiano.

L’Emilia, luogo straniero e al tempo stesso patria, immobile e malinconico. Cesare Zavattini, nato a Luzzara, verso il fiume, diceva: «Ho sempre creduto che la malinconia fosse originaria del Po. E che altrove si trattasse di imitazioni». Una malinconia massimizzata nella fotografia, la quale, riportando in vita il passato, innesca una “rivelazione” di dislocamento. L’intrinseca commistione tra documentario e artistico nella narrativa di Benati ricorda il lavoro di Luigi Ghirri, di cui Benati ammirava maggiormente la capacità di rendere il paesaggio emiliano attraverso uno sguardo estraneo ma affettivo, come se fosse visto per la prima volta. La sua fotografia della camera da letto di Benati, pubblicata su Il profilo delle nuvole (Feltrinelli, 1989), ha mostrato al nostro autore che anche luoghi noti possono essere visti da una nuova prospettiva che scopra una realtà diversa.

Seguendo l’esempio di Ghirri, Benati cerca di raggiungere nella sua prosa una prospettiva altrettanto abbassata e uno sguardo estraneo che de-familiarizzi i luoghi quotidiani, trasformandoli in spazi metafisici. L’ambientazione rurale emiliana è lo sfondo comune della maggior parte della sua narrativa e il motivo di questa scelta, come per Ghirri, va oltre la familiarità dell’autore con questo paesaggio o qualsiasi tentativo di “realismo” ed è piuttosto emblematico della rapida scomparsa di un passato rurale e del conseguente sradicamento del soggetto contemporaneo. Seguendo la lezione di Ghirri sulla fotografia come “rivelazione”, Benati utilizza immagini di paesaggio o pittura come mezzo per innescare un’epifania nel protagonista che lo porta a mettere in discussione l’effettiva appartenenza al luogo in cui vive.
Benati come traduttore. La sua attività di traduttore ha origine senz’altro negli studi universitari incentrati sulla letteratura americana, ma soprattutto nei soggiorni esteri: lettore d’italiano presso le università di Boston e Dublino, Benati ha assorbito atmosfere anglofone che ha poi riversato nelle sue opere, pregne di rimandi di stampo biculturale.
Insieme all’amico e maestro Gianni Celati – scomparso da pochissimo – anch’egli traduttore (lo ricordiamo principalmente per la traduzione dell’Ulisse di James Joyce, per Einaudi nel 2013), ha curato Storie di solitari americani (Rizzoli, 2006), dove ha tradotto racconti di Mark Twain, Jack London, Sherwood Anderson, Ring Lardner, Delmore Schwartz e Flannery O’Connor. Sua è la traduzione di Gente di Dublino di James Joyce nel 2013 per Feltrinelli. Nel 2012 ha tradotto infine Mi chiamo Irma Voth della canadese Miriam Toews per Marcos y Marcos.
Stando agli autori con cui si è confrontato, risulta palese che Benati conosca molto bene l’Irlanda e gli Stati Uniti. Ci ha vissuto, ci ha insegnato.
A gennaio dell’anno scorso, durante una chiacchierata informale nel suo studio a Reggio Emilia, gli ho fatto questa domanda: «Come mai non ha tradotto autori inglesi, non li apprezza?». Risposta: «Sono troppo complicati. La lingua americana è più simile alla nostra. Com’è bella la lingua inglese della letteratura americana, che è molto più vicina al parlato!». Un punto di vista interessante, se si pensa che Benati si è avvicinato alla letteratura americana grazie ai testi delle canzoni di Bob Dylan, cantautore nonché Premio Nobel per la Letteratura nel 2016 (ma qui se iniziamo a parlare di Bob Dylan non la finiamo più, perciò lascio un commento estrapolato dalle Dieci lettere di Gianni Celati a Daniele Benati, da leggere assolutamente).
Caro Daniele,
oggi ho riascoltato le prime canzoni di Bob Dylan, ed erano così convincenti, così belle e piene di pensiero, così immaginative e al tempo stesso contenute, compatte, chiuse in sé – che mi sembrano quasi un miracolo. E allora ho pensato come, per noi che cerchiamo di scrivere, e di scrivere con una voce che non sia quel modo standard di fare i toni secondo le regole, ma invece di scrivere con un tono che sia nativo e non forzato – ho pensato che straordinaria lezione di voce e di toni siano le parole di Bob Dylan. E poi anche le storie nascoste, gli sfondi accennati, i personaggi: non è sempre una immaginativa di campagna, cioè campagnola e poi questo aprire ai grandi spazi, con le figure del giorno campagnole (la strada, il gallo, il vento, il fiume, la casa isolata), che fanno immaginare lo spazio e il tempo meglio delle figure di città. O almeno, è come il luogo dove tutto nello spazio e nel tempo ha un gusto di cosa singolare, unica, non in serie – e questo gusto è il gusto fondamentale campagnolo di quelle canzoni: il gusto della solitudine assoluta. Mi sembra che noi possiamo imparare da Bob Dylan anche a tenere questo strano equilibrio tra la cosa immaginativa e quasi pazza, comunque strampalata nel modo in cui presenta le cose a ruota libera, e poi invece la compattezza del testo e del racconto dove tutto si raccoglie attorno a poche note chiave. Sì, io penso alla narrativa solo così (è forse il mio limite): come una cosa che si canta, e il racconto come un modo di cantare dei luoghi o delle figure che ti stanno a cuore […]
Gianni

Per arrivare a un proprio stile – il “tono nativo”, per dirla alla Celati – Benati è dovuto passare per le traduzioni: e questo stile è lo stile del parlato, locale, quello che non si insegna a scuola: «Quando incominci a scrivere sei condizionato dall’educazione scolastica che hai avuto – mi ha raccontato -, ostenti uno stile azzimato, vuoi far vedere che sei bravo a scrivere, ma la cosa essenziale è trovare una propria voce». Così si spiega l’utilizzo di termini colloquiali nella scrittura benatiana, di frasi nominali con il punto, e una punteggiatura che segue la lettura ad alta voce, in contrasto proprio con le regole grammaticali impartite negli anni scolastici. «Per qualunque deviazione della lingua italiana che deriva dall’inglese nessuno ti dice niente, anzi fai quasi bella figura. Ma se lo fai col dialetto ti guardano male».
Benati rivendica, pertanto, l’importanza della lingua locale nella letteratura, senza che questa debba essere considerata di serie B. E lo fa sperimentando. Ecco perché per capire Benati, leggere gli autori da lui tradotti può essere un buon punto di partenza.
Il luogo e l’individuo. Abbiamo parlato di Dublino. Nei luoghi che abitano le pagine dell’autore reggiano ci si perde, in bilico tra la vita e la morte, si cammina, si percorre un po’ di strada e poi si arriva a un punto in cui ci sembra di essere già stati: rieccoci tornati al punto di partenza. Questa è la ciclicità del tempo, leitmotiv benatiano. Tutto è un andare e venire. Un esserci, un non-esserci e un ricomparire. E il/la lettore/lettrice non può che chiedersi: Chi siamo noi? Siamo il luogo che abitiamo? O invece non sappiamo più “essere” senza un luogo a cui appartenere, in cui riconoscerci?
Nell’ultimo racconto Fine non finire tratto da Un altro che non ero io, si rimane spiazzati nel trovare la storia localizzata all’inizio in Irlanda e poi improvvisamente spostata in un paesino della provincia reggiana, con un salto temporale notevole. Allo stesso modo, nel romanzo Cani dell’Inferno, si fa fatica a capire se la storia abbia luogo a Boston o a Reggio Emilia.

Dove sta il nostro io? Forse siamo tutti viandanti, viaggiatori inconsapevoli, pellegrini. Come nell’Ulysses di Joyce. Come Dante, che a forza di errare, alla fine torna a riveder le stelle. Un guidare senza sapere dove andare. Un perdersi e poi ritrovarsi, incontrando persone che ci ricordano chi siamo stati, da che luogo veniamo. Ma tutto questo ha a che fare con la crisi d’identità, vero motore della letteratura postmoderna, (o surmoderna, come ha teorizzato l’antropologo francese Marc Augè). Una crisi d’identità che riguarda anche il mestiere dello scrittore. I protagonisti dei racconti Un altro che non ero io e La città bianca – tratti dall’omonima raccolta di racconti Un altro che non ero io – ricordano un po’ i wonder boys di Michael Chabon (autore contemporaneo statunitense, altro consiglio spassionato di lettura) – che vagano alla ricerca di sé, del proprio io frantumato, della conferma di essere riconosciuti come scrittori validi – per non dire di successo – del consenso di critica e pubblico, di lettori ed editori.
Dalle pagine benatiane emerge poi la questione dell’isolamento come condizione necessaria alla scrittura. Il quale però è anche un isolamento interiore, in cui non ci si sente collocabili, ed è per questo che ogni luogo può essere nessun luogo e al tempo stesso tutti i luoghi. Quindi lo spazio, il tempo: un continuo errare senza venirne a capo, in un perenne moto circolare.
Leggere Benati significa leggere il sentimento umano del nostro tempo.
«Che ci faccio qui?» potrebbe essere la domanda alla base di ogni narrazione di Benati.
E non è forse questa la domanda più gettonata del XXI secolo?