Suzanne Stein e gli alieni di Skid Row

[…] Sento che è imperativo fotografare tutto e includo nelle mie immagini il soggetto per strada che a volte è difficile da guardare. Ho fotografato molto a Los Angeles, con un interesse speciale per le persone che vivono a Skid Row. Sono stata onorata di fotografare le persone di Skid Row e le mie interazioni e i momenti condivisi con loro mi hanno cambiato per sempre. Mi interessa in particolare fotografare aspetti della vita quotidiana in modo realistico e diretto che presentino la realtà di vite vissute senza pretese. Sento fortemente i problemi di giustizia sociale e sono molto motivata a narrazioni visive che mettano in risalto queste complessità così come nella nostra vita quotidiana.

Queste parole esaltano lo scopo primario della fotografia: testimoniare. Suzanne Stein incarna propriamente questo desiderio, riuscendo ancora, dopo secoli di storia di quest’arte, a sconvolgere le nostre coscienze con immagini che non vorremmo vedere: senzatetto, malati mentali, tossicodipendenti, prostitute, criminali. Osservare realtà così profondamente crude, in un mondo considerato da noi “civilizzato”, è come assistere a uno scandalo, a una delle peggiori sconfitte dell’Occidente. Eppure, le fotografie testimoniano tale realtà con colori che arricchiscono il degrado, abbracciando calorosamente un mondo che ci trasmette amarezza.

Suzanne nasce e cresce a Philadelphia, che lascerà per cominciare a viaggiare di città in città: questo le permette di entrare in contatto con numerose realtà. Si stabilisce a Los Angeles, dove cresce suo figlio da sola tra alti e bassi. Lavora come artista visiva per lungo tempo e, dopo un viaggio in Europa con il figlio nell’estate del 2015, comincia a fotografare estranei per strada con il suo iPhone: in quel momento capisce che la fotografia sarà la sua vita. Documentare e dare voce agli emarginati diventerà la sua battaglia. Tornata dall’Europa, compra la sua prima macchina fotografica, una Fujifilm X-T1, che l’accompagnerà nel suo viaggio. 

Il potenziale illimitato e il potere espressivo della fotografia è infinitamente attraente e mi ha permesso di usare le sfide e le difficoltà che ho dovuto affrontare nella mia vita per raccontare le storie che vedo intorno a me.

Le opere di Suzanne Stein ricordano molto l’estetica di Bruce Gilden, fotografo dei primi anni ’70, che sceglie di rappresentare soggetti sgradevoli, sporchi o kitsch, resi ancora più “anormali” da ritratti grandangolari e dal flash sparato sui loro visi. Questo gli costa non poche risse e denunce. Suzanne invece cammina in punta di piedi ma nello stesso tempo instaura legami con i suoi soggetti, li rende partecipi. Stringe la mano ai senzatetto, abbraccia e tocca le persone: è una prova a cui bisogna sottoporsi per comprendere il contesto in cui si vive ed essere un vero fotografo, non semplicemente un ladro di immagini, che trae profitto dal mondo della miseria e dell’emarginazione. 

È questa la domanda che Stein si pone e che qualsiasi fotografo di strada dovrebbe porsi: qual è il confine tra sfruttamento e testimonianza? La fotografia di strada sui social network (in particolare su Instagram) sosta sul bilico rischioso tra questi due estremi. L’approccio di Suzanne può sembrare invasivo e a discapito dei soggetti, ma  è  la riflessione etica a precedere ogni suo scatto. Il fine della sua fotografia non è alimentare l’ipocrisia dei ricchi, ma riformare la società. Le disumane condizioni in cui vivono alcune persone devono portare a una presa di coscienza e a una riflessione, altrimenti è mero feticismo. L’indifferenza verso questo tipo di  problematiche, coinciderebbe con l’ “oggettificazione” di quelle persone e dunque con un atto di violenza.

La scoperta del quartiere di Skid Row cambierà per sempre Suzanne Stein.

Sembra un paradosso che proprio nel centro di Los Angeles vi sia un posto così. Il nome descrive pienamente l’essenza del quartiere: skid row è un termine che inizialmente viene usato per indicare un luogo in cui si riuniscono persone senza soldi per poi diventare un termine generico che indica una strada degradata della città. Due mesi dopo aver preso la Fujifilm, Suzanne si addentra nel centro di Los Angeles e per la prima volta vede Skid Row, dove avverte una forte tensione fra il degrado e la ricchezza artistica. Oltre ad avere un alto tasso di criminalità e povertà, la zona è patria di molti artisti, essendo in una posizione di confine fra il centro storico di Los Angeles e il distretto delle arti. Da ex-artista Suzanne viene attirata dai colori vivaci dei murales che non nascondono però il degrado: rimane colpita nel realizzare che la splendente “città degli Angeli” – e in particolar modo il suo centro – sia in realtà una discarica a cielo aperto. Suzanne, fotografando questo quartiere, vuole dissipare l’alone di falsità che invade la città di Hollywood.  La fotografa definisce Skid Row come «un fienile che sta bruciando con le porte chiuse, finché non smette di bruciare». Nonostante la stazione di polizia dietro l’angolo, le persone sono abbandonate ai loro escrementi e guardate con indifferenza sia dai passanti  sia dai poliziotti: non sono considerati esseri umani per cui non sono degni di attenzione. 

In un’intervista Suzanne ammette un iniziale timore nel camminare per le strade di  Skid Row, che ha finito per trovare con il tempo caldo e invitante. Tuttavia fotografare all’interno del quartiere è molto rischioso se non si ha familiarità con gli abitanti.

Nelle sue foto i colori saturati rappresentano al meglio l’essenza del quartiere e trasmettono emozioni. Secondo Stein nella street photography c’è un abuso del bianco e nero, che impedisce di rappresentare e percepire al meglio certi aspetti del soggetto. Il colore, la focale grandangolare, la crudezza delle immagini e l’aspetto particolare dei soggetti rende gli scatti di Suzanne rappresentazioni di una realtà completamente aliena, oggetto di scandalo. Senza questo tratto estremo, probabilmente le immagini di questi soggetti non produrrebbero lo stesso effetto negli occhi di chi guarda. 

Preponderante nelle sue foto è anche l’intensità della luce quando il sole è più alto nel cielo: questo elemento trasmette un senso di desolazione, che è evidente nello scatto intitolato Le scarpe di Jerry. Nella foto Jerry siede lungo la Crocker Avenue e ha i piedi sanguinanti. È stato ferito anni prima da un’arma da fuoco con conseguente cecità parziale, deficit dell’udito e problemi cognitivi. Giace lungo la strada sotto il sole che picchia e le sue scarpe (in primo piano) sono quasi completamente consumate.

Stein include nel suo progetto anche gli animali, in particolare i cani, per i quali condivide la passione con il fotografo Elliott Erwitt.  La fotografa però va molto oltre la raffigurazione del loro aspetto buffo e tenero: gli animali sono infatti nella stessa condizione dei padroni, entrambi non sono considerati persone agli occhi della società. Proprio perché condividono il medesimo destino, gli emarginati di Skid Row aiutano gli animali, che vengono maltrattati in modo orribile e vivono in condizioni pietose. 

Nella serie di foto di Skid Row Suzanne racconta anche la vita di molte donne: queste immagini sono testimonianze di vite che altrimenti non sarebbero mai raccontate. Ad esempio c’è Christine, che ha problemi di tossicodipendenza e vive in mezzo a una strada (Towne Avenue). Suzanne non pone censure nel rappresentare le problematiche di questa donna: ci sono, infatti, immagini in cui Christine si buca con la siringa. Le critiche lanciate a questo tipo di foto sono il risultato di pregiudizi, causati dalla scomoda consapevolezza di un mondo che non ci appartiene in quanto privilegiati. Suzanne porta sulle sue spalle il peso di queste storie, ma ritiene che tutto questo sia necessario per sensibilizzare le persone. 

Sempre a Towne Avenue incontra Doreen, che vive dentro una tenda da campeggio insieme al suo compagno: in questa serie di foto  Stein non solo mette in luce le loro problematiche (principalmente legate alla droga), ma anche la forte intimità di due persone affiatate, che al di là di ogni problema saranno sempre unite. Questa intimità viene rappresentata senza alcuna censura, ad eccezione di quella di Instagram.

A Stanford Avenue conosce invece Leanna, una donna anziana che vive in un monolocale al The Lamp Lodge, dove ha accumulato montagne di spazzatura e oggetti, provocando un’infestazione di scarafaggi e roditori. Passa tutto il giorno ad elemosinare e frugare nella spazzatura per sopravvivere e, nonostante ciò, si dedica a curare i gatti randagi. È comune pensare che una persona in condizioni precarie non si preoccuperebbe mai di altri esseri viventi: questa è una visione individualista radicata nella società. Nessuno sa cosa vuol dire essere Leanne: non le si può dire cosa dovrebbe o non dovrebbe fare. Leanne prova empatia per altri esseri che, in quanto viventi, sono vulnerabili come lei.

La fotografia di Suzanne Stein è un grido disperato contro la precarietà della vita e l’ingiustizia della società. Queste persone e questi  animali sono trattati come semplici ombre, puri oggetti, giocattoli abbandonati come nel cimitero dei peluche a Stanford Avenue.

Lo scopo di Suzanne è farci scendere dalle nostre torri d’avorio e farci scavare sottoterra. Fatto ciò, possiamo scegliere se tornare sulla torre o rimanere sottoterra. C’è una terza alternativa: porsi ai limiti, proprio quello che fa  Stein. Portare alla luce chi vive nell’ombra e imparare a vivere con loro. 

Tra deumanizzazione e umanizzazione c’è allora un confine sottile, dipende tutto dallo scopo del fotografo e dal modo in cui viene utilizzata la fotografia. Nella propaganda e nella pubblicità il soggetto non è umano, in quanto già prima dello scatto abbiamo deciso che non lo è. 

Ricordo ancora la volta in cui, passeggiando, ho visto una persona scattare una foto a un senzatetto che dormiva: se l’ intenzione era forse quella di documentare delle problematiche sociali, il rispetto per quella persona era sicuramente passato in secondo piano. Aveva deciso che la scelta del senzatetto non avrebbe contato  nulla, dal momento che aveva scattato una foto mentre dormiva, un momento in cui ognuno dovrebbe essere al sicuro.

Suzanne invece considera ogni soggetto che scatta una persona, trattando con dignità anche gli animali: nelle didascalie di ogni foto è sempre presente il nome di chi è ritratto. Il nome è tra le prime cose che diciamo quando conosciamo una persona, ci rende conoscibili all’altro: una persona senza un nome non viene considerata tale, rimane un fantasma che vaga nella nostra mente e rimane ai margini. Questa è l’essenza della fotografia, questa è la potenza dell’obiettivo nel costruire legami. 

Tutte le fotografie sono tratte dall’archivo Suzanne Stein

Pubblicato da Francesco Loreti

Francesco Loreti è nato nel 1997 e vive a Roma. Laureato in filosofia politica all'Università degli studi di Roma La Sapienza e studente di magistrale. Tutto il suo percorso di studi e di vita ruota attorno alla scrittura e alla fotografia, due suoi modi per raccontare storie. Scrive inoltre anche poesie (pubblicate insieme ad altri autori in una collana di poesie) e racconti. Per quanto riguarda la formazione nell’ambito fotografico, oltre ad aver affrontato vari generi fotografici (ad esempio ritratto in studio o paesaggistica), si è specializzato nel reportage, in particolare sociale.

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