L’essenza di Gràcia: quartiere indipendente di Barcellona

Versione in catalano

 «Il mio paese è così piccolo che dalla cima di un campanile si può vedere il campanile vicino» recita la canzone di Lluis Llach. È così che potremmo descrivere Barcellona: un’unione di piccole città osservabili dall’alto. Con l’abbattimento delle mura della città vecchia e la creazione dell’Eixample come collegamento tra quei paesi si è arrivati alla omogeneizzazione che conosciamo oggi.

Ma esiste ancora uno di quei piccoli villaggi: Gràcia. Con i suoi irriducibili graciencs, gli abitanti del quartiere, resiste ancora all’annessione difendendo una propria vita, una propria lingua e una propria identità. Di solito quando chiedi a qualcuno che non conosci in quale quartiere abita ti risponderà: «Sono di Barcellona». Ma quelli di Gràcia invece ti diranno che vengono da lì e quando provi a correggerli con frasi del tipo: «Allora anche tu sei di Barcellona!», ti risponderanno gentilmente: «Els de Gràcia sempre som de Gràcia!». (Noi di Gracia siamo sempre di Gracia!) 

È quel quartiere che, nonostante il fiorire di turisti, che si perdono per andare al Parc Güell e che rimangono senza parole ritrovandosi in quella zona di Barcellona, che fino a poco tempo fa neppure compariva nella mappa turistica, emana però quel fascino che non sai spiegare. Forse perché, quando guardi a terra, ti accorgi che la piastrella del fiore dell’Eixample, che riveste tutta la pavimentazione di Barcellona, qui è stata sostituita da pietre di colore chiaro. Forse perché Gràcia mantiene quel calore delle stradine con le case non molto alte, che all’improvviso terminano in quelle piazze con le loro panchine e le terrazze dei bar, sempre pieni di persone che bevono un caffè, un vermouth o una birra. Da quando è diventato anche meta turistica, gli abitanti del quartiere sono costretti a schivare tutti gli stranieri che impediscono loro di andare al mercato a comprare il pane o il giornale. Forse quel fascino è anche legato al fatto che c’è sempre qualcuno in una delle piazze intento ad accordare una chitarra o pronto a iniziare a cantare.

Vi è sempre un “dum, dududm, dum, dudum” di un contrabbasso accompagnato dal suono sensuale di un sassofono nella Plaça de la Revolució o de la Virreina in un sabato pomeriggio qualsiasi. È un posto piacevole per i musicisti di strada che suonano vicino ai locali come La Sonora o il Bar Helio, o prima nel vecchio KGB, che non esiste più. Qui puoi ascoltare musica dal vivo di nuovi gruppi catalani emergenti, come quella volta in cui Les Sueques o Joan Colom si sono esibiti di fronte a un pubblico con camicie da boscaiolo,  barbe folte e tipica montatura di occhiali da Hipster. 

Scendendo in basso verso Plaça del Raspall possiamo ancora sentire l’eco di un applauso ritmico: “clap-clap-clap-clap-clap-clap-clap-clap-clap-clap” accompagnato da una chitarra e una voce che canta: “Al Garrotín, Al Garrotán, paso la vera de San Juan”. Si dice che il Garrotin sia la forma musicale da cui è nata la rumba catalana, sul cui creatore ci sono sempre state polemiche. Il Garrotin secondo gli zingari è il simbolo culturale della Catalogna, secondo loro precedente alla sardana, danza tradizionale popolare catalana. I circoli più intimi della comunità zingara sostengono che il creatore della rumba sia il grande Peret, che è diventato popolare con la sua canzone: Barcelona es poderosa, Barcelona tiene poder, (Barcellona è potente, Barcellona ha potere) che cantò in occasione della chiusura dei Giochi Olimpici del ‘92. Quest’inno ora viene utilizzato come spot pubblicitario dal Comune di Barcellona per incoraggiare i cittadini. Secondo un’altra visione più politica, accolta durante l’era di Franco, El Pescailla,  sposato con la cantante di bandiera del regime Lola Flores, sarebbe il vero creatore della rumba.

Foto di Maria Paola Marciano

Ma la comunità zingara di “La pequeña triana” non solo ci ha lasciato la rumba, ma molte delle parole che sono state usate per la prima volta nel quartiere di Gràcia e che oggi fanno parte del dizionario quotidiano catalano provengono dalla lingua caló. Ad esempio currar per dire lavoro, halar per dire mangiare, calés per dire soldi o potra per dire fortuna.

Pochi altri luoghi possono vantare la stessa multiculturalità di questo quartiere, poiché qui la comunità zingara va da 7.000 a 10.000 persone. A questa si aggiunge una comunità libanese appena arrivata, che sta riempiendo Carrer Verdi di ottimi ristoranti che competono con quelli giapponesi molto raffinati, o con i bar di sempre dove si va solamente per mangiare qualcosa e bere una birra prima o dopo essere andati al teatro Lliure sulla strada Montseny o ad una proiezione cinematografica in versione originale a Carrer Verdi. Si ritorna così a riappropriarsi dell’eredità culturale dell’associazione “Lluisos de Gràcia”, che per più di un secolo e soprattutto nel dopoguerra ha mantenuto la fiamma della cultura cinematografica e delle arti sceniche. 

Gràcia senza tutto questo movimento culturale perderebbe gran parte della sua essenza e del suo reddito economico. In questo quartiere hanno sempre convissuto la classe operaia e la piccola borghesia e questo si può notare osservando l’architettura delle case. Tra queste vi sono quelle costruite nel lontano periodo rurale dai contadini di allora, in quella che oggi è la città, che sono state convertite in appartamenti e altre, appartenenti alle famiglie benestanti, sono oggi case unifamiliari con un giardino, come la casa Vicens.     

I giardini di alcune di queste case private sono diventate nel tempo spazi pubblici come Plaça del Sol o Plaça John Lennon, che riempie il vuoto che ha lasciato la scomparsa delle piccole fabbriche, che costituivano la trama industriale della Villa. Piazze pubbliche che hanno permesso l’incontro tra i diversi strati sociali di questo antico comune e che hanno condiviso con loro gioie e sofferenze. È quindi importante evidenziare il movimento del quartiere di Gràcia, che è sempre stato uno spazio sensibile alle ingiustizie sociali. Ancora oggi basta guardare i balconi del quartiere dove sventolano bandiere o manifesti di protesta che riguardano il quartiere, la città o il paese.

Illustrazione di Maria Paola Marciano

Queste piazze sono quelle che danno vita a Gràcia, forse è per questo che Mercè Rodoreda ha voluto dedicarvi un libro: Piazza del Diamante. Un’opera che descrive la sofferenza del personaggio di Colometa prima e dopo la guerra, personificazione di una sofferenza diffusa nel quartiere di Gràcia e della Catalogna. Qui Colometa ha ballato durante i festeggiamenti di Gràcia e sempre qui molti si sono nascosti nei rifugi antiaerei costruiti sotto terra per sopravvivere durante i bombardamenti dell’aviazione italiana.

Rifugi che ora, per la maggior parte, sono stati trasformati in parcheggi, ma che al tempo affascinarono Winston Churchill per quella forte resistenza ed efficienza mostrata dalla società civile di fronte ai bombardamenti, i primi che colpivano una città durante la guerra civile spagnola. In quell’occasione il primo ministro inglese non solo prese come esempio i cittadini di Barcellona nel suo discorso del 18 giugno 1940 ma assunse anche gli architetti, che avevano progettato i rifugi a Barcellona, per costruirli a Londra proteggendo così la popolazione dalle bombe della Luftwaffe.

Foto di Maria Paola Marciano

Lontano dall’oscuro passato storico di Barcellona e Gràcia, in questi ultimi giorni di quarantena è stato difficile immaginare che le strade e le piazze di questo quartiere fossero vuote, come vuoto era anche il Carrer Gran che attraversa Gràcia da cima a fondo. Nessun bambino vestito di blu per andare a giocare al calcio nella storica Europa CE, che ha segnato un’epoca negli anni ’60 e ’90. La Gràcia, sempre pronta a dare vita a chi la abita o a chi viene da fuori, ha perso la sua allegria, ma nonostante il periodo difficile la storia di questo quartiere dimostra che anche sta volta manterrà viva la sua essenza.

Aspettando il Cinema America in piazza: intervista al presidente Valerio Carocci

Maglietta bordeaux, scritta gialla, cinema sotto le stelle. Stiamo parlando dei Ragazzi del Cinema America, l’Associazione nata per salvare lo storico Cinema America del rione Trastevere, costruito nel 1956 su progetto dell’architetto Angelo Di Castro.

Tutto ha inizio nel 2012, quando il Cinema America viene smantellato: è destinato a diventare una palazzina di appartamenti con parcheggi. Insieme alle associazioni di quartiere, il 13 novembre 2012 un gruppo di studenti decide di occupare la sala cinematografica per salvarla dalla riconversione. Vengono organizzati proiezioni e incontri per sensibilizzare la cittadinanza e numerosi registi e professionisti del mondo del cinema prendono a cuore la questione. Nello stesso anno nasce l’Associazione “Piccolo Cinema America”, oggi “Piccolo America”. 

Nel 2014 Questura e Prefettura mettono i sigilli e danno il via allo sgombero della sala occupata. Il gruppo non si arrende e decide di continuare il progetto in un forno vicino, in comodato d’uso gratuito. Le proiezioni gratuite all’aperto in Piazza San Cosimato accendono le estati di Trastevere coinvolgendo un pubblico sempre più numeroso. L’attività dell’Associazione si sposta anche verso la periferia, con un obbiettivo ben preciso: creare nuove opportunità di incontro e di condivisione attraverso cui costruire un processo di rigenerazione urbana. 

Fonte: Associazione Piccolo America

Ogni anno la rassegna estiva “Il Cinema in Piazza” raccoglie un pubblico appassionato e consapevole, e i numeri dell’ultima edizione parlano da sé: 150.000 spettatori in tre mesi, 200 serate di proiezioni gratuite, 70 incontri e dibattiti con autori, attori e maestranze del cinema, 3 arene diffuse.

Accanto alla rassegna “Il Cinema in Piazza”, i Ragazzi del Cinema America lavorano alla costruzione di uno spazio permanente che possa essere attivo tutto l’anno, tutti i giorni. Nel 2016 la loro Associazione ha vinto il bando pubblico per l’assegnazione della Sala Troisi, altro storico cinema di Trastevere. 

Il progetto di restauro del Cinema Troisi, a cura degli architetti Claudia Tombini e Raffaella Moscaggiuri,  punta a conservare l’originale assetto dell’immobile. Il cinema sarà munito di un foyer-bar e di un’aula studio, con 40 postazioni individuali, aperta 24 ore su 24, con terrazza. La sala prevede l’installazione di uno schermo cinematografico da 13 metri, digitalizzazione 4k e un totale di 300 poltrone. Nonostante l’emergenza sanitaria Covid-19 abbia sconvolto la vita e le attività culturali del nostro Paese, il Piccolo America ha deciso di non fermarsi, confermando la rassegna de “Il Cinema in Piazza” anche per l’estate 2020, dal 3 luglio al 30 agosto.

Fonte: Associazione Piccolo America

Abbiamo avuto l’opportunità di fare qualche domanda a Valerio Carocci, 28 anni, Presidente dell’Associazione Piccolo America, per riflettere sul passato, ma soprattutto sul futuro del cinema come linguaggio universale capace di forgiare cittadini e non solo semplici consumatori di cultura. 

L’attività di promozione culturale ma soprattutto di rigenerazione urbana del Piccolo America iniziava otto anni fa. E da quel momento non si è più fermata. Come è evoluto il rapporto con il vostro pubblico? Avete notato un processo di crescita e di maturazione negli spettatori e nelle piazze che li ospitano?

Sicuramente noi siamo cresciuti con il nostro pubblico e il nostro pubblico con noi. Bertolucci diceva sempre: «la prima volta che ho incontrato Valerio la cosa più divertente è che mi sono accorto che questo ragazzo di cinema non sapeva nulla». Anche noi abbiamo scoperto il cinema proiettandolo. Tra i 100 mila spettatori che hanno partecipato all’ultima edizione de “Il Cinema in Piazza” molti di loro non erano abituati alle sale cinematografiche. Questo progetto sta educando un nuovo pubblico che in questi anni è maturato e cresciuto. Anche noi stiamo crescendo. Oltre ad essere sempre più impegnati nella programmazione, abbiamo intercettato nuove aree come Ostia e Tor Sapienza che hanno caratteristiche diverse da San Cosimato.

Fonte: Associazione Piccolo America

Che rapporto avete con i luoghi de “Il Cinema in Piazza”? Come avete scelto queste “sale di proiezione” a cielo aperto? 

San Cosimato era la piazza vicino al Cinema America, dove la nostra associazione si è costituita. Era la piazza che frequentavamo per le assemblee e per le iniziative con le associazioni di San Cosimato. Cervelletta è il parco dove sono nato, è il parco della mia infanzia, nel quartiere dove ho vissuto fino a poche settimane fa, per 28 anni. Per me si tratta di un ritorno. 

Anche se parliamo di quartieri diversi, l’obbiettivo è sempre comune. Infatti, a San Cosimato, grazie al cinema, portiamo avanti la battaglia dei residenti per salvare il Cinema America, mentre al Parco della Cervelletta utilizziamo le proiezioni all’aperto per valorizzare e dar luce alla battaglia per salvare lo storico casale. La scelta del Porto Turistico di Ostia è dovuta all’appartenenza territoriale di una parte del nostro gruppo. Abbiamo sempre tentato di andare in territori che conoscevamo e di cui già facevamo parte, affinché si potesse costruire un processo dal basso. A Ostia abbiamo collaborato anche con il Tribunale di Roma perché il Porto Turistico di Ostia è un bene confiscato alla criminalità, e concesso alla nostra associazione dall’Amministrazione Giudiziaria. 

Fonte: Associazione Piccolo America

Come avviene la selezione dei titoli del vostro programma cinematografico? 

Siamo 8 a curare la programmazione. Abbiamo tutti tra i 20 e 30 anni, e facciamo parte del gruppo dei 24 ragazzi del Cinema America. Ci riuniamo da novembre fino ad aprile. Discutiamo, facciamo proposte, vediamo film, ci scambiamo idee, seguiamo rassegne, osserviamo quello che fanno gli altri festival. Guardiamo anche alle ricorrenze e agli omaggi da fare. È uno studio a 360 gradi volto sempre a un unico obiettivo: vogliamo presentare al pubblico una programmazione quanto più completa che possa coinvolgere ogni tipologia di cittadino, di qualunque ceto sociale, provenienza geografica e politica. È importante che chiunque trovi qualcosa di suo interesse da poter vedere alle nostre manifestazioni. 


In un momento di grave crisi sanitaria ma anche sociale ed economica, un’iniziativa come quella del Piccolo America può rappresentare un modello per la ripopolazione degli spazi urbani? Penso al rapporto tra le città e i giovani, alla ricerca di spazi di socialità sicuri e che possano sentire come “propri”.

È evidente che in tutti questi anni è stato delegato l’utilizzo dello spazio pubblico e del servizio sociale e culturale alla mera iniziativa commerciale dei privati. Crediamo che per uscire da una situazione drammatica e da uno stato di crisi sia necessaria la creazione di un nuovo spazio di comunità. Oggi più di prima è urgente che si ritorni in territori come quelli di Ostia e di Tor Sapienza, dove le famiglie vivono in condizioni svantaggiate, in difficoltà economiche. Molti di loro questa estate rimarranno a Roma per problemi lavorativi. Allo stesso tempo, però, è importante anche operare a Trastevere e dare un’alternativa a quella “movida” tanto discussa che però rappresenta l’unica forma di sfogo per i ragazzi. In fin dei conti, questi ragazzi dai 18 ai 25 anni qualcosa lo dovranno pur fare. Se non proponiamo un’alternativa è inutile poi lamentarsi dei giovani che trascorrono le serate a bere sui gradini delle chiese e dei monumenti storici delle nostre città.

Fonte: Associazione Piccolo America

Quest’anno cosa cambierà a causa dell’emergenza sanitaria del Covid-19?  

Applicheremo tutti i parametri di sicurezza contro il Covid-19 che saranno in vigore il 3 luglio. Le proiezioni non verranno ridotte, ma rispetto alle edizioni precedenti tutto sarà posticipato di un mese. Spero che il programma definitivo esca molto presto, ma non credo prima di fine giugno. Anche per i prossimi anni, il modello organizzativo e cinematografico rimarrà invariato. 

Rispetto anche ad altre forme di espressione artistica, cosa ha in più il cinema per riuscire a parlare alle persone?

Siamo convinti che il cinema sia lo strumento più potente per parlare a qualsiasi ceto sociale, provenienza geografica e schieramento politico. Nonostante all’inizio non fossimo cinefili, abbiamo scelto questo tipo di linguaggio perché ci vedevamo un’opportunità di dialogo con le persone. Il cinema parla a tutti. Da Checco Zalone a Bernardo Bertolucci, i film possono avere potenze diverse ma sono capaci di attraversare il cuore e la mente delle persone, facendole prima di tutto riflettere. Il cinema permette lo scambio di pensiero e di parola. 

Fonte: Associazione Piccolo America

Il Presidente dell’Associazione Piccolo America, Valerio Carocci, con Bernardo Bertolucci 

Fame

Aveva chiuso un buon contratto, un’altra pratica era andata. Guardò l’ora, sentendosi stanco. Era davvero tardi, odiava così tanto tardare, era affamato, sua moglie lo stava aspettando. Avrà preparato il pollo? Sa quanto mi piace, con le verdurine e un po’ di riso. Speriamo non sia la sera del minestrone, Dio ti prego, il minestrone no, eh. Grattandosi il naso si portò una mano alla cintura, mettendo in scena un atteggiamento pensoso. Peccato che nessuno lo osservasse. Si sarebbe fermato a prendere un buon vino? Un dolce? Doveva festeggiare, finalmente era andata. Portarla in vacanza? Non era sicuro di dover fare tanto. Di certo una buona torta sarebbe bastata a farla contenta.

Ricordò d’improvviso di essere in ritardo e sciolse le braccia, scombinando veloce la sua bella posa. Mise a posto i fascicoli sulla scrivania, spense il computer e lo richiuse nella fodera imbottita. Si concesse un momento per guardare la stanza dalla soglia. Una mappa di crepe deturpava il muro di fronte. Sentì brulicargli dentro un sotterraneo senso di colpa, una rabbia sopita che preferì ricacciare indietro: oggi era stato proprio bravo. Clic, spense la luce.

E se invece aveva cucinato la pasta? Stava ingrassando ancora, sperò di no. Dai, ti prego, fai che sia pollo, sarebbe perfetto. Poi ci mette le uvette e il liquore, viene fuori con quella sua bella crosticina scura. È carne bianca, è leggera. Cercò di evitare il pensiero del suo peso, mentre tentava invano di non strusciare sui muri stretti delle scale. La colpa era del palazzo, questi edifici antichi sono così piccoli.

Uscì allo scoperto, leggermente imperlato di sudore, al centro esatto di Roma. Un vociare diffuso riempiva la piazza. Fece a zigzag tra i turisti in posa davanti alla fotocamera per raggiungere la macchina. Gli sembrava di aver parcheggiato più vicino. Mi scusi, sorri, plis, pardòn, ma dove diavolo l’aveva lasciata? Ancora ritardo, non ci voleva, ormai più di dieci minuti.

Passò di fronte ad un’enoteca che non aveva mai notato prima. Si fermò a scrutare la soglia con sospetto, ma decise ugualmente di entrare. Chiese un vino bianco, secco, come piace a lei. Lo immaginò vicino al pasto delizioso che di lì a poco si sarebbe visto servire in tavola. Magari pesce al forno, anche quello sarebbe stato bello. Sperò che ci fossero pure le patate al burro, che sua moglie si fosse ricordata di insaporire per bene, con molto sale e rosmarino, senza lasciare tutto irrimediabilmente sciapo come al solito. Dopo lo aggiungi tu, diceva sempre, come se fosse lo stesso: il sale non si scioglie, scricchiola sotto i denti e ammazza tutto il sapore.

Sentiva un tale vuoto allo stomaco che per un momento pensò di essere diventato magro, di dover mangiare per sopravvivere. Si intristì a pensare che, piuttosto che nutrirsi, gozzovigliava. Oggi però era un giorno speciale: aveva concluso. Si diresse in gelateria a cuor leggero. Scelse una torta gelato ricoperta di glassa al cioccolato fondente, ripiena di vari strati di nocciola e pistacchio, languidamente poggiata su un Pan di Spagna al cacao amaro. Nell’insieme, una promessa di felicità. Pagò col sorriso stampato in faccia, mentre sentiva formarsi un mare di saliva golosa al termine della lingua e rimise a posto il portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni.

Illustrazione di Alessandra Donato

La macchina era vicina. Estrasse a fatica le chiavi, aveva le mani impegnate dalla bottiglia e dalla grossa scatola della torta. Appoggiandosi alla portiera, tenendo la scatola stretta tra sé e la macchina, provò ad entrare. Le chiavi gli sfuggirono di mano. Si piegò goffamente a raccoglierle. Proprio allora sentì una pressione imbarazzante, lieve, ma viva, umana, sul suo didietro. Prima che potesse poggiare le cose a terra e girarsi, il malvivente era scappato, con il suo portafoglio.

Ladro. Vieni qui. Bastardo, la mia cena. Riuscì solo a pensare a quanto tardi avrebbe fatto. Odiava fare tardi, odiava la cena fredda. Si mise in macchina, all’inseguimento. Un brivido gli percorse la spina dorsale, segandogli la schiena in due.

Chiunque abbia mai guidato a Roma sa che qui un inseguimento non è cosa facile, uno vorrebbe poter dire “segua quell’uomo”, ma in effetti c’è sempre troppo traffico perché sia possibile rintracciare qualcuno. Roma è un groviglio di ingorghi, di rumori assordanti, di parolacce intorcinate, in ogni strada e in ogni vicolo. A qualunque ora, di qualunque giorno e via dicendo, alcuni giorni sono solo peggio di altri. E così anche quella sera: al solito le strade erano dense di macchine arrabbiate, di strombazzare, di strepitare, di luci rosse, di asfalto lurido e rovente. Eppure, non poteva lasciarsi sfuggire chi non solo gli aveva rubato il portafoglio, ma anche una cena calda. Di più, si era portato via i suoi tanto meritati festeggiamenti: oggi era stato bravo. Pensò con una fitta alla torta che cominciava a sciogliersi e al vino che sempre più si scaldava ed ebbe un sussulto. Il loro bell’aspetto era stato ingannevole, non sembrava possibile alcun lieto fine quella maledetta sera.

Disperava di riuscire a raggiungere il disgraziato quando finalmente, eccolo lì, lo vide che attraversava a passo svelto la piazza della Chiesa Nuova. Girò di slancio alla sua destra per avvicinarglisi il più possibile, guadagnando gli improperi di una macchina decisa a ottenere la stessa postazione. Accelerò, mentre lo perdeva ancora alla vista. Per riuscire ad acciuffare un ladro bisogna pensare come lui, calarsi nei suoi panni, sentirsi le sue emozioni addosso. La soddisfazione di un colpo riuscito, l’ansia di mettersi al sicuro in fretta. Che vicolo avrebbe preso? Come poteva sapere se avrebbe svoltato a destra o a sinistra? Cercava una soluzione, terribilmente irritato, irrimediabilmente imbottigliato nel traffico. Poi, di nuovo, gli parve di scorgerlo mentre percorreva di corsa ponte Vittorio, volando sopra il Tevere. 

Verde. Girò a tutta velocità il volante a sinistra, sentendosi un tutt’uno con la macchina, come fosse lui in persona a correre agilmente dietro al piccolo criminale. Raggiunto l’ospedale Santo Spirito il suo ladro era scomparso di nuovo, evaporato nella notte scura. 

Vide accendersi un altro semaforo rosso di fronte a sé. Sospirò esasperato, guardando l’ora. Avrebbe dovuto litigare con sua moglie, avrebbe mangiato un pasto freddo servito con disamore da una donna arrabbiata. Non gli restava che tornare a casa e tentare di salvare il salvabile. Quando anche questo semaforo si fece verde, svoltò a destra e imboccò la galleria sotterranea che porta a Via Gregorio VII, a un passo da casa, finalmente. La imboccò a tutta velocità, solo. Nessuna macchina aveva preso la sua direzione. Se ne meravigliò, e molto, sentì crescere dentro anche una strana euforia e proseguì a spingere il piede sul pedale. Ai margini della lunga galleria buia stagnavano grosse pozzanghere scure. Controllò di sfuggita lo specchietto retrovisore: ancora nessuno. Sterzò di colpo per far alzare un muro d’acqua ai lati della macchina, improvvisamente felice. 

Quasi non si accorgeva di uscire dalla galleria e quasi mancava di scorgere il suo ladro, che gli tagliava la strada a tutta velocità. Quasi. Lo vide, invece, fece perfettamente in tempo. Ma piuttosto che frenare, rallentare almeno, tornò a pensare a quanto era stato bravo quel giorno, a quanto avrebbe meritato dei festeggiamenti. Immaginò con rabbia e dolore la cena fredda, sua moglie arrabbiata, la torta sciolta, il vino caldo. Era un disastro, che imperdonabile spreco. Non frenò, anzi, spinse ancora più forte il piede sull’acceleratore, dopo un’ultima, rapida occhiata allo specchietto retrovisore. Era solo.

Uscì dalla macchina mantenendosi perfettamente lucido. Si sentì assalire dalla lucidità. Si guardò intorno e non scorse nessuno. Non c’erano telecamere e la sua macchina, come per magia, non aveva riportato neppure un graffio. Un’ombra, forse, un po’ in là, sulla destra, ma nulla di più. Alzò rapidamente gli occhi al Cupolone. Era un segno di Dio. Svelto, si chinò sulla vittima, che pareva ora un cerbiatto ferito a morte, con gli occhi spalancati e un timido rivolo di sangue che continuava a fuoriuscire dal naso. Lo perquisì rapidamente. Sorrise incontrando il suo portafoglio e lo riprese con sé. Svelto si mise in macchina, fece retromarcia, passò attorno alla sua preda, forse un po’ dispiaciuto di doverla lasciare lì. Accelerò, correndo via appena in tempo per scorgere dietro di sé dei fari in arrivo. 

Illustrazione di Alessandra Donato

Svoltato l’angolo, parcheggiò, spense il motore e attese. Attese di sentire i rumori dei soccorsi. Chiuse gli occhi. Si immaginò lì, a dare testimonianza del terribile incidente. Sogghignò, crudele. Sì, signor agente, ho visto tutto. Una canaglia signor agente, da non credersi. Rise al pensiero che il signor agente non avrebbe compreso che stava parlando del bastardo morto, quel delinquente. Aprì gli occhi, guardò ancora l’ora. Perché no? Tanto ormai aveva fatto tardi, era pronto a procurarsi un bell’alibi per la sua mogliettina inquieta. Si fece lentamente vicino alla scena del crimine, del suo crimine.

Diede la propria testimonianza: passeggiava da qualche minuto nella zona, appena prima di ritirarsi per cena, dopo aver comprato un dolce e del vino per sua moglie. Poi all’improvviso quel piccolo uomo l’aveva urtato, correndo e gettandosi a capofitto sulla strada. Pensò alla sua vecchia macchina rossa e proseguì il racconto, descrivendo per filo e per segno un’enorme automobile sportiva, che era sbucata dalla galleria all’improvviso a tutta velocità. Pensò alla sua stazza considerevole e alla sua testa calva e triste così disse di aver scorto al volante un uomo molto giovane, magro, con una montagna di capelli ricci e scuri.

Si finse dispiaciuto e pensieroso. Tentò con scarsi risultati di farsi scendere un paio di lacrime. Ne uscì fuori un’espressione accartocciata, all’apparenza contrita. Gli venne chiesto se si sentiva bene e se avesse bisogno di aiuto, ma lui lo rifiutò, dichiarando invece la necessità di ritornare a casa. Non desiderava altro che vedere sua moglie, disse a mezza bocca. Non contento, aggiunse che si sentiva molto scosso. Strinse la mano agli agenti, lasciò loro i dati del suo documento e si congedò, pensando all’incredibile storia che avrebbe raccontato a sua moglie quella sera. Sicuramente così avrebbe ottenuto da lei più amore del solito, pietà, comprensione, le avrebbe visto gli occhi dilatarsi per lo spavento. Avrebbe avuto i festeggiamenti che meritava. E un piatto abbondante.

Mentre girava la chiave nella serratura di casa si lasciò qualche secondo per riflettere: quanto è diventata violenta questa città. Un delizioso odore di pollo lo raggiunse, restituendogli il sorriso.

Cartolina da Parigi

SEGUE LETTERA

Ci si lascia alle spalle il Louvre con le sue tristi pyramides – tutte lucernari a effetto riflettente, e tutta la rive droite. Si imbocca Pont Royal – tutto squassato dal traffico e da non si sa bene che maniacali lavori di manutenzione stradale. Di là ci si affaccia, oltre la Senna, tra Quai Anatole France e Quai Voltaire, a rue du Bac che punta dritta al cuore di SaintGermain – ad addentrarcisi, fatti pochi passi, rue de Verneuil è proprio la prima che si incrocia.

Ci sono tornata a memoria, come teleguidata.

Stavolta non ci ho abitato che per un pomeriggio una notte e un principio di mattina.

Però ho fatto in tempo lo stesso a scoprire che: la boulangerie gestita da due anziane più burbere di mia nonna, dove compravamo baguettes quiches croissants e quant’altro, è diventata una pacchianissima sala da tè tutta rosa molto costosa; lo storico Bar des Lettres, dove mi bruciai la gola con un tenerissimo boccone di filetto infestato da un dito buono di crema piccante alle lenticchie, è diventato un burgy-tipo Café des Ècrivains dove credo la letteratura non si affacci da anni; e La Bouffe, ristorante ammiccante a Marco Ferreri diretto da una scostante signora italiana denueve-tipo che rinnegò con forza la sua prima naziona-lità e ci prescrisse carne, è semplicemente sparito.

E ho scoperto pure che al numero 5, dentro a un cortiletto che ingabbia tra gli edifici un albero di cinque piani, c’è stata sempre, per tutto il tempo che eravamo stati là a girellarci ad ogni ora, la casa di Serge Gainsbourg con sua moglie Jane Birkin e la figlia-ninfetta Charlotte più una ridda di amici-amanti-compari_di_bevute, e fuori le incursioni continue dei fans. Non ce n’eravamo accorti.

Gainsbourg è morto nel novantuno. Se anche io fossi stata una sua fan, sarei andata di corsa a sporcargli la facciata con la mia scritta_d’amore_spray sovrapporta a quella di chissà chi altro… Serge, avrei scritto per tutti gli altri, perché non c’è luogo da cui lui avrebbe potuto leggermi, siamo stati per un infinitesimo delle nostre rispettive esistenze reciproci vicini di casa (ne avrei approfittato per riesumare una vecchia – dimostrativa – polemica, peraltro non mia, sulla annosa confusione del parlante medio, italiano, tra rispettivo e reciproco. E a quel punto nessuno avrebbe più potuto fermarmi: già che c’ero mi sarei abbandonata anche a un raro, per me, fiotto di sentimentalismo esistenziale:), i nostri destini per qualche giorno hanno corso affiancati, insieme. Era l’ottantadue e io stavo al numero otto, dove sono tornata dodici anni dopo a controllare che tutto fosse al suo posto, per trovare che tutto era, come prevedibile, completamente diverso.

Dai piani alti del numero otto ho preso tutte le pose aeree che spiano la strada e i tetti e gli abbaini di fronte, includendo in alcune il mio interno: la cornice che ho messo a un quadro di per sé esistente prescrivendo la variante dello sguardo. Pochi isolati oltre, avevo bussato insistentemente alla porta dell’Istituto Italiano di Cultura, neppure un minuto dopo il ferreo orario di chiusura: tenuta fuori da un uscio di casa sbarrato da regolamenti di tempo.

I versi sono venuti sere prima nell’abbaino dove ho abitato il più delle vacanze: diciannovesimo arrondissement, Belleville (quartiere cinese, sentii dire in casa, però io, cinesi, non ne ho visti), camminato da Malaussène e animato da Pennac. Combinazione d’entrata: 361B2 –  a Parigi, al posto del citofono, ci sono delle pulsantiere ai portoni, simili alla tastiere del telefono, su cui si deve digitare una combinazione alfanumerica aprisesamo, altrimenti si resta fuori. Li ho scritti, i versi, alle dieci di sera passate, che impazzivo, perché era ancora pieno giorno, guardando ai tetti coltivati a scheletri d’antenne e padelle di paraboliche. Era una gelida sera nordica di giugno (fuori faceva neppure dieci gradi), passata frattanto a sal-tellare tra le proiezioni delle europee su France2 (che preannunciavano i successi del viscon-te di Villiers e del tangentista Tapie intento ancora, allora, a studiare da Benoît Blanc e il soft core su CanalPlus con qualche incursione su ArTé, canale culturale, che trasmetteva curiosi filmati militaristi (e non era la Legione Straniera) e Apostrophe di Bernard Pivot (ma, lì, incursioni veramente poche perché a me piaceva Pickwick di Baricco e Zucconi, con tutta quella faccenda di non poco impatto immaginoso del treno.

Poi, appena ha fatto notte (le undici passate), sono tornati tutti:

RAFFAELLA, che all’Accademia di Belle Arti sotto casa di Victor Hugo in Place des Vosges ha imparato un francese agile tutto sgrammaticato;

JOSEPHINE, gazzella ruandese coi fratelli sparsi nel mondo e i genitori rimasti nel Paese (col machete che gli pende sulla nuca ma ostinati a non mettersi in salvo);

MAXIME, che ha abitato per un anno in via del Vantaggio, margine della colonia francese a Roma, e sparge su tutto i suoi ammazz-ahó; e MATHIEU, che ha sciolto la sua brava barretta di nero e si è rollato con cura una canna proprio ben manufatta;

SEAN (il padrone di casa) o come qui lo chiaman tutti SYNN, di madre irlandese e padre marocchino, un afro-normanno a Parigi, dotato di fluente capigliatura rasta biondo-castana e fierezza musulmana, festeggiato da;

WOLFIE, soriano rosso accoccolato sulle mie gambe senza darmi ormai neppure più un filo d’asma o di èdema perioculare, (con un salto gli è saltato al collo).

A notte fonda poi abbiamo dato tutti l’assalto a un magnifico cous-cous vegetariano, e al dia-volo tutto il resto.

Quello scherzo infinito che ci ha fatto D.F. Wallace

Il viola è un colore per cui ho sempre provato una sincera simpatia accompagnata da un timore quasi reverenziale. Chissà se non sia stato un caso che per l’edizione italiana di Infinite Jest è stata scelta una copertina con nuvole rosa che galleggiano su un cielo viola. Non so dire se sia il colore della copertina, i dieci centimetri di pagine che lo compongono o il titolo che, giallo e maiuscolo, promette un infinito dissonante, quasi lugubre, uno “scherzo infinito”, ma al solo guardarlo, Infinite Jest mi ha sempre spaventata. Forse a spaventarmi era il timore di fallire, di non riuscire a parlare con quel romanzo; oppure il terrore della delusione che avrei provato qualora non avessi trovato quello che tutti mi promettevano. Poi un giorno di quarantena in cui ero in cerca di un amico abbastanza impegnativo da accompagnarmi per più di due pomeriggi di lettura intensa, mi sono avvicinata allo spaventoso libro dalla copertina viola, l’ho pesato nella mano, l’ho appoggiato sulle gambe, ho aperto la prima pagina e – fatto un gran respiro – ho iniziato a leggere. Mi ci son voluti nove giorni per leggere Infinite Jest

Corrie Baldauf, PD Rearick, Infinite Jest Project: Phase 1

Il primo giorno è stato tutto un correre da mia madre per leggerle alcune frasi la cui forma mi aveva colpita, quasi disarmata: “Guarda quanto è lunga questa frase, è lunga quattordici righe, le ho contate!”, le urlavo euforica, oppure: “Senti qua che frase assurda, Reginald dice che Wardine dice che la notte Roy Tony dice…”. 

Il secondo giorno non ho mai arrestato la lettura, ma una volta terminata sono nuovamente corsa da mia madre e, con la fretta e la prepotenza delle questioni improrogabili, le ho letto l’elenco lungo sette pagine di tutte le cose che ​«verrete a sapere se mai passerete del tempo in una struttura di recupero da Sostanze». Mi muovevo freneticamente, quasi sobbalzavo tanto sentivo la necessità di condividere con qualcuno ciò che stava crescendo in me. Cercavo nel mondo esterno la garanzia che non mi stessi ingannando, qualcuno in grado di convalidare le mie emozioni.

Il terzo giorno ho chiamato un’amica e con la voce che uso per le questioni importanti le ho letto il capitolo in cui si elencano tutti gli oggetti blu nella sala d’aspetto di C.T.; poi ho chiuso la telefonata e sono rimasta a dondolarmi sull’amaca, pensando a come deve esser difficile scrivere dopo David Foster Wallace.

Il quarto giorno è subentrato un sentimento nuovo, un misto di gelosia e di protezione. Di pagina in pagina quelle parole si aggrappavano strette alla mia carne mentre io lasciavo dei brandelli di me indietro, al capitolo della depressione di Kate Gompert, tra le telefonate di Hal e Orin, alla confessione dell’amore di Marathe per la moglie nata senza cranio. Allora sono diventata protettiva verso quei personaggi sconsiderati e folli e ho smesso di chiamare i miei amici e di correre da mia madre per leggere loro delle frasi mozzicate e senza contesto. Sapevo che nessuna loro risposta mi avrebbe soddisfatta, al contrario, avrebbe accresciuto la mia frustrazione. 

Corrie Baldauf, PD Rearick, Infinite Jest Project: Phase 1

Il quinto giorno ho letto accovacciata tra le margherite del prato da mattina a sera finché le ombre si son prese anche l’ultimo spicchio di sole sulla pagina. A quel punto ho chiuso il libro con un gesto secco e l’ho abbracciato forte. L’ho incastonato fra il petto e le ginocchia e ci ho avvolto le braccia intorno. Sono rimasta ferma così per un po’, come se averlo accanto al cuore potesse aiutare a imprimere quelle parole in me ancora meglio. 

Al sesto giorno la fase della gelosia era terminata, così ho chiamato un amico che aveva letto il romanzo e abbiamo passato ore a far congetture su cosa significhi la muffa che mangia Hal e il velo che porta Joelle, abbiamo parlato del presidente Johnny Gentle e di Eschaton. Se da una parte parlarne con qualcuno che aveva letto quelle pagine mi ha rinvigorita, ho però sentito crescere una grande angoscia, perché quasi nessuna emozione o ipotesi combaciavano, come se avessimo letto due libri diversi con in comune solo il nome dei personaggi principali. 

Così, il settimo giorno non ho parlato proprio con nessuno. Ho invece trascinato il libro da una parte all’altra della casa, leggendo ogni nota con una minuzia quasi patologica. Ero decisa a non lasciarmi sfuggire nulla, ad attenermi al testo così da poter richiamare il mio amico e affermare con sicurezza: “Non me lo sono inventata, è proprio scritto nero su bianco”.

L’ottavo giorno ho finalmente realizzato che pretendere una risposta conclusiva, una univocità, significa non aver capito nulla di questo grande manifesto postmoderno. Va bene giocare ai piccoli detective, ricostruire una cronologia, rileggere alcune frasi iniziali alla luce degli ultimi capitoli. È però ingannevole pensare di trovare la risposta all’interno di quelle pagine. La risposta è nel lettore ed è quindi sempre parziale e fallibile. Dopotutto, è capitato a tutti di leggere un romanzo, parlarne dopo tempo con qualcuno e trovarsi in disaccordo su un dettaglio, tornare a casa e stupirsi di come si era ricamato su qualcosa che non c’era. Significa che quel romanzo non ha funzionato? Al contrario, significa che quel romanzo ha funzionato talmente bene che lo si è interiorizzato, lo si è fatto proprio. Ecco cosa significa capire Infinite Jest: accogliere le dissonanze e far proprie le confusioni. 

Il nono giorno, voltata l’ultima pagina, ho sentito che il mio tempo con quel libro era tutt’altro che terminato. Avevo appena cominciato a masticarlo, ora bisognava che lo digerissi e non era certo possibile farlo da sola. Protagonisti del libro sono l’incomunicabilità, la solitudine, la dipendenza da sostanze e da segreti, l’ambizione soffocante, l’anedonia, ma per dar conto di queste esperienze, si deve dialogare con un altro. È un libro di cui bisognerebbe costantemente parlare per scambiarsi sensazioni, uscire da se stessi e guardarsi da un’altra prospettiva. Questo confronto non mira a sormontare l’incomunicabilità e la solitudine, né a risolvere la depressione e la dipendenza. Ma a prenderne atto. Infinite Jest è un romanzo violento e che violenta proprio perché, invece di offrire soluzioni, pone ai suoi lettori domande alle quali non esiste la risposta semplice che vorremmo noi.

In quest’opera David Foster Wallace segue la vita di almeno trentaquattro personaggi. I più non sono protagonisti, alcuni appaiono solo per qualche pagina, non sappiamo nulla di loro se non quello che loro vogliono dirci, tuttavia tutti sono fortemente caratterizzati, tutti hanno una dignità, una profondità, una storia da raccontare. Pertanto, se i libri producessero un suono, Infinite Jest sarebbe il vociferare alto, indistinguibile – inquieto e tormentato – prodotto da una stanza affollata di gente ad una festa; sarebbe, quindi, il romanzo più rumoroso di tutti. Eppure, Infinite Jest è il più grande inno al silenzio che sia mai stato concepito, perché utilizzando milleduecento pagine e oltre trenta personaggi, quel che ci sta davvero raccontando è che in alcuni casi le conversazioni e le parole reiterano l’incomunicabilità e il silenzio invece di alleviarli. 

Eccolo, lo scherzo infinito che ci ha fatto David Foster Wallace!

David Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi Editore, pp. 1280, euro 19

Napoli: cemento, orgoglio e pregiudizi sopra la collina

Ricordo, fra parecchi altri, quei tipi del piccolo mondo antico vomerese […] Essi, si trovavano armonicamente inquadrati in quel primo tempo di vita vomerese arcaico, quasi idilliaco! Quel tempo in cui fra l’altro chi viveva sulla collina, sia per la separazione territoriale dalla città bassa, sia per certo spirituale distacco che ne conseguiva, istintivamente avvertiva, sebbene non dichiarato, uno spontaneo sentimento di differenziazione, come di autonomia, dal resto della città!     

Gastone Bellet, Vomero capitale di Napoli

Si apre con una panoramica Le mani sulla città, celebre film di Francesco Rosi. Da una collina in lontananza satura di nuovissimi palazzi si passa a un terreno di fronte, dove alcuni imprenditori discutono di investimenti futuri, quotando nel cemento e nelle case il nuovo oro, l’affare più conveniente e meno rischioso.

La collina immortalata nella scena è il Vomero, quartiere collinare di Napoli e il suo passato recente è simile a quello di molti quartieri italiani nel dopoguerra. Estesa campagna di masserie piantate a broccoli fino a metà ‘900, con il boom economico, l’aumento demografico e le brame speculative di costruttori e politici, cede a un’urbanizzazione selvaggia che in pochi anni ne ha stravolto il paesaggio. Folte schiere di edifici si ammassano lungo l’area tra l’elegante nucleo ottocentesco e la collina di Posillipo, facendo del Vomero, con la vicina Arenella, il quartiere più densamente abitato della città.

Una decina di passi separano la finestra della mia stanza dalla cucina e le camere da letto del palazzo di fronte. Riportando così fuori dagli schermi e nella vita reale, quella inavvertita predisposizione a farsi le vite (domestiche) degli altri.

Fino ai sette anni ho abitato qui, in una casa al piano terra con un terrazzo assediato da edifici. La sensazione è di conoscere il quartiere da sempre, in realtà ho ripreso a frequentarlo solo da poco, quando sono tornato ad abitarci.

L’urbanizzazione del quartiere ha avuto due fasi principali. A fine Ottocento, primi nuclei familiari vi si insediarono quando la collina era poco più di un villaggio. Decisiva fu la costruzione delle prime strade e abitazioni (piazza Vanvitelli, via Scarlatti, via Bernini) e di due delle tre funicolari (Chiaia e Montesanto) che collegano il Vomero con il centro della città. A finanziare le opere fu la Banca Tiberina, istituto di credito piemontese. 

Con l’inizio del Novecento, in collina iniziavano ad arrivare acqua, elettricità e i primi negozi. Il villaggio prese il nome di quartiere. A trainare il processo fu la sintonia tra la classe politica locale e i costruttori, i quali, tutt’altro che discretamente, iniziavano ad allungare le mani su intere fette di collina. L’iconografia dell’epoca, tra dipinti e foto sbiadite, mostra ancora spazi e scene campestri; prati rigogliosi, carri e carrozze trainate da asinelli, contadini con vacche che distribuiscono latte agli angoli delle strade. Lo stesso nome del quartiere pare derivi dal vomere, attrezzo usato per arare i campi.

Una seconda urbanizzazione, più nota, risale tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Il Vomero fu scelto tra le aree di espansione della città, per la sua fortunata posizione collinare e l’enorme potenziale di rendita. Ai primi complessi di edilizia popolare, pianificati dallo Stato con criteri architettonici ragionevoli (prima che razionalisti), seguì una seconda ondata in cui l’azione politica è estensione di quella imprenditoriale, che vide raddoppiare l’altezza dei primi palazzi e riempire di cemento il lato occidentale della collina.

La popolazione del quartiere passerà dai 70.000 degli anni ‘50 ai 150.000 abitanti degli anni ’70, accogliendo, in case accessoriate, buona parte della migrazione del ceto medio dal centro storico di Napoli e dai paesini della provincia.

Sono anni decisivi per lo sviluppo della città, studi successivi confermeranno che la logica della rendita immobiliare, e quindi della speculazione edilizia, abbia per anni sostituito, più che affiancato, gli investimenti nel settore industriale.

A completare lo sviluppo urbano, la realizzazione delle uscite della Tangenziale nel ’63 e soprattutto, l’apertura della metropolitana negli anni ’90, che ha ridotto la distanza tra la città e la sua periferia nord.

Città sopra la città, quartiere altolocato, Napoli bene; le definizioni riservate al contesto vomerese si sprecano e si sono sedimentate nell’immaginario cittadino, creando lo stigma del vomerese-tipo. Chiusura, distacco e senso di superiorità rispetto al resto della città – bassa, in particolare quella rozza, caotica e popolare. Sentimenti aristocratici risalenti forse ad un’arcadia vomerese, fatta di natura e panorami, lasciati essiccare al sole e indossati dal ceto medio che si è insediato negli anni ‘60 in un quartiere che ormai di bucolico non aveva più niente.

«A ognuno il suo panorama» prometteva il manifesto elettorale di Nottola, il costruttore del film di Rosi. Sarà stato anche questo ardente desiderio a far impennare la domanda di abitanti vomeresi. Oggi, uno spicchio di sole tra le palazzine e un posto auto sono venduti a peso d’oro da un’agenzia immobiliare della zona. Sono queste le note a margine emerse dalla mia prima assemblea di condominio la scorsa estate. In un clima afoso e pacifico, tra le proposte si discuteva di trasformare in «prato inglese» le semplici aiuole del parco e della possibilità di alzare un muro verso uno storico ex-casale confinante, oggi abitato da una numerosa famiglia di estrazione popolare. «Gentaglia» con arricciamento di naso, l’eloquente espressione che ha chiuso l’assemblea. 

Se potesse, una parte del quartiere, chiuderebbe a chiave le entrate e vivrebbe di una socialità limitata ai confini della collina. Negli ultimi anni a dissacrare questo aspetto c’è la pagina facebook Vomeresi e altri infami. Nel repertorio, un’immagine della linea metropolitana di Napoli è affiancata alla scala evolutiva dell’uomo. L’uomo scimmia, da Piscinola si sviluppa a homo sapiens alla fermata Vanvitelli, per poi tornare scimmia al capolinea Garibaldi. Meno divertente è quando queste iperboli, in parte calcificate nel tessuto cittadino, riaffiorano e impattano nella realtà, non appena una rapina il sabato sera, a Via Scarlatti o nei centri della città, scuote e aizza la città buona e colta (con ampio seguito) contro quella incivile e cattiva. Più polizia nelle strade, telecamere di sorveglianza, chiudere di sera la metropolitana che consente l’ingresso ai barbari delle periferie, la lista delle richieste. Soluzioni che di sapiens hanno molto poco.

Tra periferie, semi periferie agiate e centro della città, così come tra un condominio e un abitato popolare affianco, la comunicazione è nulla; quando c’è, è filtrata dalle notizie di cronaca o da serie televisive patinate, che, si tratti di Posillipo o della suburra di turno, tra lo shock scandalistico e l’estetizzazione, ce li dipingono sempre così, proprio come ce li aspettavamo…

Oggi, confermando la propria vocazione moderna, il Vomero è un quartiere residenziale e commerciale. Pub, bar e negozi di abbigliamento primeggiano, assieme a mini e mega market. Nelle strade principali, le luminose insegne dei locali si alternano all’opaca squadratura delle targhe degli studi professionali.

La dimensione popolare è concentrata all’interno del quartiere, in un borgo chiuso tra palazzi signorili e residenziali. 

Antignano, centro del vecchio Vomero, ospita uno dei mercati rionali della città. L’infanzia ne consegna un’immagine negli interminabili trascinamenti materni. Oggi, non diversamente da allora, sotto l’ombra di drappi e ombrelloni vengono smerciati frutta e verdure, pesce, articoli per la casa, abbigliamento. Negli ultimi cinque anni, la trasformazione della zona ha consentito ai negozi storici del borgo (pescherie, macellerie, enoteche) di riconvertirsi e prolungare la loro attività anche di sera. Di recente, un comitato di abitanti e commercianti della zona si è opposto alla realizzazione di un garage sotterraneo al mercato di 900 box auto. 

E se una moderna legge urbanistica, economica e sociale vuole il popolo emarginato dai centri urbani, non fa eccezione il Vomero come città nella città, anche se il caso riserva ai margini della collina i suoi scorci panoramici sul golfo. Nelle strette vie d’uscita dal quartiere, dove il tufo recupera sul cemento, si aggrappano file discontinue di abitazioni semplici, nel silenzio di discese e scalinate ripide che, lambendo i parchi privati, portano fino a mare.

Nei primi anni di università, la chiusura spaziale, claustrofobica del cemento vomerese si è fatta anche punto di ritrovo. A via Kagoshima, strada ripidissima e simbolo degli anni della speculazione, in un bar incastonato in una curva, sotto un gigantesco palazzo. Il pretesto per passarci il tempo era il biliardino, ma anche la possibilità di incontrare qualsiasi tipo di persona, e forse, senza saperlo, la rara occasione per rubarsi da quei palazzi un senso di riparo.

La chiusura sintetizza bene anche l’offerta culturale e di aree pubbliche. I cartelloni dei due teatri principali sono riempiti spesso da spettacoli di comici che della «napoletanità», un po’ pigramente, fanno la loro cifra. Le librerie storiche, chiuse una decina di anni fa assieme a molte del centro antico di Napoli, sono state rimpiazzate da piccoli negozi di una grande catena editoriale, non troppo accoglienti. Di biblioteca ce n’è una, molto piccola, angusta, sempre affollata. Se non fosse per un paio di storiche sale cinematografiche e l’iniziativa di qualche associazione, la situazione sarebbe abbastanza desolante. 

La Floridiana è l’unica area verde del quartiere e per sempre luogo d’infanzia. Non come sentenza nostalgica, quanto per gli orari di apertura. Per anni il sito internet ha riportato «dalle 9 fino un’ora prima del tramonto», celando di fatto, specie d’inverno, dietro la forma ottocentesca l’ingresso limitato per nonni, passeggini e piccoli nipoti.

Via Cilea invece, strada che taglia il crinale della collina, sembra recepire il maggior numero di trasformazioni recenti, riguardanti il settore della ristorazione e rivolte a un target giovanile, più o meno ricercato e dal tocco cosmopolita. ‘O Sushi, Puok (panini gourmet) e ‘O talebano (kebab) i più gettonati. 

La stessa strada termina segnando il confine con Posillipo. Qui, nel 2015 ha aperto il primo supermercato aperto 24/24 della città. È il sonno lo spazio rimasto in cui consumare. Di notte, in un deserto illuminato al neon, si possono acquistare arance a 5€ al kg e guacamole surgelato. Peccato che la ventata cosmopolita non abbia sfiorato gli orari di chiusura dei trasporti pubblici: 22 per le funicolari 22,30 metropolitana, con l’intermittenza di prolungamenti il sabato che sono accolti dalla città con la riconoscenza dovuta a chi ti concede qualcosa. Peccato, perché proprio dai trasporti, dal diritto alla mobilità, potrebbe cominciare a puntare una società impaurita e ammalata di sicurezza. Scommettendo su città aperte oltre gli orari del consumo, riducendo quella «separazione territoriale», fatta di chilometri e pregiudizi, che rende le periferie più desolate, i centri più autoreferenziali, e quartieri come il Vomero ghetti benestanti, quando non fortini da assaltare.  

Palermo: aspirazione all’oblio

La mia esperienza palermitana è durata poco più di un mese, ma è come se avessi vissuto lì più di un anno. Una volta ho sentito dire che, per gli abitanti della città, chi arriva a Palermo, anche soltanto per pochi giorni, diventa a tutti gli effetti palermitano a sua volta. Un turista, un uomo d’affari, un immigrato, un giornalista, un commerciante, un politico, chiunque. Anch’io, allora, ho pensato. Anch’io posso essere palermitana.

Prima della pandemia stavo collaborando al progetto di una serie televisiva, la cui storia è per la maggior parte ambientata in Sicilia. È per questo motivo che all’inizio di febbraio sono partita con tutta la troupe alla volta dell’isola a tre punte, come mi piace chiamarla. 

Adesso che la mia esperienza palermitana si è conclusa, posso affermare che è stato proprio così. Mi sono sentita anch’io parte della città. Palermo ti accoglie, ti abbraccia, ti sorride e ti mostra orgogliosamente i propri contrasti. Ti incanta con il barocco pomposo di certi suoi palazzi, tanto unici da innescare nel viaggiatore il desiderio di staccare un fregio e portarlo a casa. Allo stesso tempo ti colpisce, perché accanto a quei palazzi ce ne sono altri crollati o non ancora ricostruiti dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.

In questa città ho amato perdermi, perdermi da sola. Confesso di non aver mai avuto paura. Ho passeggiato al “Mercato ‘u Capu”, alla Vucciria, lungo la Cala, sulle mura delle Cattive, a Villa Giulia e Via Roma. Mi sono inebriata di meraviglia quando sono arrivata per la prima volta in quella che per me è la piazza più bella della città: Piazza Pretoria. Si trova accanto ai Quattro Canti, uno slarghetto nel quale s’intersecano due delle vie principali della città: Via Maqueda e Via Vittorio Emanuele. 

Su Piazza Pretoria si affaccia il Municipio, ma anche quella che ai miei occhi è una delle chiese più incantevoli: S. Caterina di Alessandria. Lo stupore che mi ha colto, entrandovi, è stato grande, perché poche volte nella mia vita ho potuto ammirare le fattezze di un barocco così armonioso e ricco. Sono rimasta affascinata dai suoi marmi, dai suoi stucchi e soprattutto dalle tante storie sulle monache di clausura che abitavano il convento costruito alle spalle della chiesa.

Ho girato la città sempre con una vecchia reflex a tracolla e ho scattato tante fotografie, anche se devo ammettere che il costo odierno dei rullini è a dir poco scandaloso. 

Ciò rende ancora più preziosa ogni singola foto e il momento stesso dello scatto rimane sicuramente impresso nella propria memoria. Le foto di Palermo non le ho ancora sviluppate, forse ho paura del probabile insorgere di un forte senso di malinconia, lo stesso che mi pervade adesso che sto scrivendo queste righe. Questo perché, come ho detto, anch’io sono stata palermitana per un mese.

I palermitani sono un popolo vivace ma testardo, cordiale ma burbero, ospitale ma misterioso. Ho stretto diverse amicizie con alcuni di loro e ho capito che sono persone abituate alla lentezza, che si godono la vita e sanno divertirsi. Sono ospitali, ti fanno subito entrare a pieno titolo all’interno della loro comitiva, del loro ristretto giro di amici, ti presentano colleghi di lavoro, familiari, anche solo perché incrociati per strada.

Ho avuto la fortuna di avere amici del posto, che mi hanno portata al Teatro Massimo ad ascoltare un concerto di musica classica o al piccolo Cinema d’essai Rouge et Noir a vedere vecchi film in bianco e nero restaurati. Culturalmente è una città che mi affascina moltissimo. È piena di bellissimi musei, nonché di un centro storico tenuto molto bene, dove le strade sono anche ben pulite, rispetto ad altre zone della città. È piena di gallerie d’arte, centri culturali, belle librerie, magnifici palazzi, primo fra tutti Palazzo Butera, che ho visitato in una tranquilla serata domenicale. Stava chiudendo ma l’usciere è stato talmente tanto gentile da lasciarmi entrare, anche se ero l’ultima visitatrice.

Sono arrivata fino all’ultima stanza delle vecchie cantine e poi alla cima della torre più alta, dalla quale ho potuto ammirare l’intera città, che, buia e già quasi dormiente, si estendeva sotto i miei occhi. È stata una magia. Ero completamente sola. 

Mentre attraversavo le stanze di Palazzo Butera, con la mia piccola cartellina a tracolla e i capelli raccolti, sentivo echeggiare le parole de Il Gattopardo, libro che ho scelto di rileggere proprio a Palermo. Quanto avrei voluto nascere in quell’epoca e poter vedere la Sicilia di quegli anni! Partecipare ai balli organizzati dai nobili e giocare nel giardino della villa dei principi di Salina insieme al loro cane Bendicò. Avrei voluto innamorarmi del giovane Tancredi come la bella Angelica e osservare le stelle con il suo vecchio zio Fabrizio principe di Salina.

La sensazione che avevo passeggiando e perdendomi per le strade e i vicoli della città di Palermo era una forte spinta verso il centro della terra, verso i bisogni primari, verso le cose importanti, verso un lassismo incontrollabile. Come se un oblio pieno di luce mi richiamasse a sé. Come se lal sensualità delle persone, dei luoghi e del cibo non fosse altro che un forte desiderio di status quo, di un equilibrio fondato sul disequilibrio della decadenza. Questi miei pensieri li ho ritrovati leggendo Il Gattopardo.

Ho ricomprato questo libro proprio mentre ero a Palermo. Pochi giorni dopo il mio arrivo in città, ho scoperto che la domenica mattina c’è un grande mercato di oggetti d’antiquariato e modernariato in Piazza della Marina e così ne sono subito diventata un’affezionata frequentatrice. Ho impiegato ben tre domeniche per trovare finalmente una copia del libro, ma è stato bello così. Avrei potuto ordinarlo su Amazon, ma io volevo una copia che avesse già letto qualcun altro, magari un bambino siciliano alle scuole medie tanti anni prima.

La domenica palermitana, però, è colorata anche da un altro elemento: la sacra passeggiata sulla spiaggia di Mondello. Certo, voi penserete che febbraio sia un mese freddo, un mese invernale, ma questo non vale per la calda e assolata Sicilia. Ho addirittura visto persone in costume fare il bagno in mare! Questo coraggio io non l’ho avuto, ma il sole l’ho preso, eccome se l’ho preso. Il pisolino al sole era la fase successiva al ricco pranzo alla trattoria “Da Piero” nella piazzetta di Mondello, che io e i miei colleghi cinematografari ci concedevamo tutte le domeniche. Abbiamo assaporato un piatto di spaghetti al riccio che ancora mi sogno di notte. E poi si passeggiava davanti a quel mare meraviglioso.

Il colore dell’acqua che c’è a Mondello è di un verde smeraldo così splendente da accecare. Quell’acqua t’invita ad immergerti in essa e farti abbracciare, un po’ come la terra che da essa emerge: la Sicilia stessa.

Dopo la domenica arrivava il lunedì e si tornava sul set, al lavoro e ai nostri orari. Ci svegliavamo sempre all’alba, per catturare una luce limpida e incantevole. È stata dura svegliarsi così presto, ma voltandomi indietro e ripensando a quei giorni, sento la mancanza anche della sveglia alle cinque e trenta. 

Perché a quell’ora il mondo è come sospeso e si risveglia piano piano da sotto le coperte, mentre tu sei già fuori ad attendere che si manifesti.

Forse quella sospensione è la stessa che stiamo vivendo adesso, tutti noi, a causa della pandemia. Allora quello che possiamo fare è soltanto aspettare, sperare e vivere tutta quest’attesa come una possibilità di rinascere, perché piano piano il mondo si manifesterà nuovamente a se stesso e sarà ancora più magnifico di prima. 

Anche Palermo rinascerà. I suoi vicoli torneranno a profumare di fritto già alle sei del mattino, i suoi abitanti torneranno ad abbracciarsi e cantare insieme fuori la Taverna Azzurra della Vucciria, le famiglie si riuniranno per il pranzo domenicale e le pasticcerie sforneranno di nuovo il re e la regina dell’isola: il cannolo e la cassata. I giovani riprenderanno a far festa e ballare tutta la notte nelle case, i bambini potranno nuovamente giocare con gli aquiloni colorati sul lungomare. 

E Palermo potrà essa stessa riabbracciare tutti e forse un giorno potrà riabbracciare anche me!

Ma il Tufello non ha paura

La Quarantena non ha impedito di osservare, di svelare curiosità, di evidenziare solitudine e compostezza. Ha permesso di tornare più volte ai piedi di un edificio, all’ingresso di una piazza o di sporgersi da un cavalcavia per approfondirne il senso di vuoto intorno.

I palazzi, con luci colorate che nascono dalle case, sono laboriosi alveari rettangolari; dietro ad una sedia vuota, alla giusta distanza sociale, immersi nello spazio più scuro. Le strade appaiono fiumi puliti e silenziosi, le piazze fino a poco tempo fa erano luogo di manifestazione, mentre adesso i lampioni sono gli unici elementi illusoriamente vitali. 

Ma il Tufello non ha paura, i cortili sono aperti, le doppie scale invitano ad entrare o a sostare sulle soglie. Il semaforo verde lascia una comprovata necessità di ripresa. 

Alcuni luoghi sembrano vuoti, poi al secondo chilometro ci ritorni e sono densi di attività, tenaci, orgogliosi. Non è assenza di esseri umani, ma è un patto di momentanea distanza e resistenza con il quartiere.

Piazza dei Colli Euganei – Ottantatré metri dalla residenza.
Condomini di via Monte Massico Roma – Alveare pieno e sedia vuota
Via delle Vigne Nuove – Strada alta sileziosità
Condominio interno di viale Ionio – Io non ho paura
Piazzale Ionio – Rinascita
Via Monte Cervialto – Stati di necessità
Condomini di via Antonio de Curtis – Distanziamento sociale
Piazza Sempione – Fuori regione
Incrocio tra via Capraia e Via delle Isole Curzonale – Comprovate necessità




Renato Ferrantini è nato a Roma, ingegnere di professione, vive da dodici anni al Tufello. Fin da subito animo viaggiatore, dal 2013 è appassionato di geopolitica e fotoreportage: utilizza fotografie e documenti storici per approfondire la conoscenza dei luoghi visitati. Dal 2015, come volontario dell’Associazione Baobab Experience, si è dedicato al tema delle migrazioni e ha cercato di seguire con la macchina fotografica i gesti, gli sguardi, i pensieri dei soggetti ritratti allo scopo di realizzare un “reportage di emozioni”.

La città attraverso lo sguardo di un nonno architetto e una nipote designer

Condivido da sempre con mio nonno, Vittorio Franchetti Pardo, storico dell’architettura, la passione per la progettazione della città. Così durante questa lunga quarantena, in cui purtroppo siamo stati lontani, pur abitando a pochi metri di distanza, ho deciso di chiamarlo e intervistarlo al telefono.

Conversando ci siamo accorti che, idealmente, la città è forse la sola a non essere isolata: la popolazione vive confinata nelle mura domestiche mentre essa è virtualmente aperta senza confini fisici e temporali.

Milano. Foto di Özge Su Erdem

La situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo ci ha richiesto di trascorrere gli ultimi due mesi entro le mura domestiche. Non possiamo allora non rivolgere un pensiero alla città. Cosa ci insegna il fatto che gli animali e la natura in questo periodo abbiano riconquistato i nuovi e i vecchi spazi urbani? 

Tutto dipende dal luogo in cui questo accade. Oggi il fenomeno della  riacquisizione di spazi da parte della natura e degli animali si constata essenzialmente in tre casi. Se avviene in luoghi appartenenti ad un’area urbanizzata, ciò significa che è in atto un processo di abbandono temporaneo più o meno lungo. Pensa alle strade di Roma in questi giorni. Può anche trattarsi però di un avviato degrado definitivo e questo è il caso di edifici di impianti industriali o di cantieri o complessi edilizi abbandonati. Se invece avviene in aree a verde ciò indica che da tempo non sono più vivacizzate dalla presenza umana. Nell’attuale improvvisa pandemia è chiaro che l’abbandono rientra nel primo caso e che, dunque, in un futuro, speriamo molto vicino, si tornerà alle pristine condizioni di frequentazione e di contrasto all’attuale abbandono. 

Milano. Foto di Özge Su Erdem

Si ripropone però un problema irrisolto: quale atteggiamento avere rispetto alla problematica scelta di priorità valoriale tra esigenze ed interessi dell’uomo ed esigenze ed interessi della natura? Questo interrogativo è tanto più problematico in tempi nei quali si assiste anche ad un evidente cambiamento climatico. Aggiungi poi anche il fatto che non è altrettanto evidente se, ed eventualmente in quale misura, tale cambiamento sia interamente attribuibile all’uomo. Per restare ad antichissimi e meno antichissimi noti paragoni, le Dolomiti erano nei fondi marini ed in età romana e tardoromana l’attuale maremma toscana era in gran parte inesistente: il mare si inoltrava sino all’attuale prima linea collinare. Semmai bisognerà parlare della velocità dei cambiamenti climatici di cui oggi dobbiamo tener conto in quanto obbligati a dover valutare la gerarchia delle priorità valoriali.

Milano. Foto di Özge Su Erdem

Il momento di straordinarietà che stiamo vivendo ci consente di riflettere su molti aspetti. Può essere questa l’occasione per negoziare nuove forme di prossimità e distanza nell’ottica della progettazione urbana?

Potremmo stare ore seduti a discutere su questo tema. Converrai con me che la risposta alla domanda “prossimità e distanza” varia a seconda del tipo di città da progettare. È improprio pensare di poter dare una risposta univoca a questo tema. Quale tipo di città? Agricola, commerciale, residenziale, turistica…

Ma non è affatto secondario che sia lo stesso concetto di “distanza” o “prossimità” a porre più problemi: parliamo di distanza fisica o di durata di percorso da un certo punto di partenza? Oppure parliamo di una distanza fisica tra due città, che però si traduce in valenze di tipo simbolico e persino religioso? Ad esempio, quanto al concetto di distanza intesa come tempo di percorrenza, basti pensare che fino a quando le automobili non da corsa difficilmente raggiungevano velocità di crociera superiori a 80-85 km/ora, e fino a quando inoltre, ancora non esistevano le autostrade, il percorso Roma-Firenze richiedeva una distanza/tempo dell’ordine di circa cinque ore.

Abitazione per donna nomade a Tokyo, di Toyo Ito
Fonte: In-the-world

Parchi e luoghi che, fino a poco fa, abbiamo eletto a  spazi per l’aggregazione sono stati momentaneamente sospesi. Come interpretiamo una città che rimane aperta per fornire “sussistenza” ai cittadini, ma che non vive dei suoi spazi pubblici e verdi?

Occorre una premessa non secondaria. Bisogna parlare di città, concependola nel suo doppio significato di urbs e civitas, pensarla non solo come spazio abitabile ma come “luogo” di aggregazione ovvero “topos” di un vissuto collettivo e pluralistico spesso anche conflittuale. In questo senso l’attuale momentanea “sospensione” potrebbe dunque somigliare a quella delle città alternative a quelle della residenza stabile, che secondo Cacciari sarebbero le città del solo negotium, il che, a me, sembra sia solo una comoda ed utile astrazione dialettica.

Esempio emblematico mi sembrano invece le città termali dove tutta la città è, come ben dici, spazio pubblico per l’aggregazione e luogo deputato della socializzazione anche simbolica. Invece l’attuale sospensione è finalizzata proprio alla non socializzazione e ciò con riferimento non solo agli spazi pubblici ma anche a quelli privati. Tale, inoltre, da non consentire neppure quella “fuga dalla città” di cui parla Cacciari ancora una volta ricorrendo ad una, almeno per me, vera e propria astrazione e questa volta letteraria: le arcadie.

Tornando al doppio significato di città, se ne viene improvvisamente abolito il termine civitas, la città diviene improvvisamente un luogo o non luogo vuoto: una provvisoria Ghost City, come frequentemente è accaduto e tuttora continua ad accadere negli Stati Uniti. Tutt’altra cosa è la condizione di sospensione delle città in un lungo o perfino definitivo abbandono perché, se di relativamente breve durata, la sospensione può potenzialmente trasformarsi in occasione e stimolo innovante. E ciò, proprio in Italia, offre interessanti, possibili e diffusi nuovi scenari insediativi. Utili, contemporaneamente al “rammendo” e sviluppo adeguativo sia dell’esistente modo insediativo della “città” sia del disperso ma sostanzialmente unitario tessuto dei borghi storici.

Porzione di città da Regent’s Park a Huston Station, Londra. Immagine di Lorenzo Bellacci

Si parla di città decentrata come chiave per la progettazione del domani. Come dovremmo vivere? In città dense o decentrate? 

Questo è un discorso complesso. È necessario tener conto delle preesistenze storiche insediative dei territori in cui si intende intervenire. Nei paesi di tipo capitalistico la concentrazione è massima per un principio di redditività. Converrai che è dunque difficile sintetizzare una risposta essendo il concetto non affatto semplice: fondare una città di che tipo e dove? La risposta è in rapporto a due condizioni: una è quella climatica e ambientale, vedi le aree estreme desertiche o dei poli, l’altra è in rapporto all’assetto storico. In Italia per esempio la distanza fra i singoli insediamenti è in genere relativamente breve. Non è così dappertutto come risulta infatti dal quadro storico.

Highrise of homes. Di James Wines

Immagine di copertina: Instant City Visits Bournemouth, di Peter Cook (Archigram)

Tra musica e colori: illustrare secondo Ginevra Vacalebre

Entrare nella mente di Ginevra Vacalebre deve essere qualcosa di meraviglioso. Mi è bastato sentire la sua voce al telefono per capire da quanta passione sia animato il suo lavoro da illustratrice ed animatrice. Dopo gli studi allo IED, questa giovanissima ragazza, a soli 24 anni, ha collezionato partecipazioni ad eventi pubblici di un certo spessore (si parla del RomaEuropa Festival e di una collaborazione con l’UNICEF) e a due videoclip musicali: ha contribuito con le sue animazioni al video di In peggio del rapper Dani Faiv e a quello di 16 marzo dell’eclettico Achille Lauro.

Abbiamo parlato di musica e colori, ma anche degli alberi che vede ogni mattina affacciandosi dalla sua stanza al Pigneto, riflettendo sul fatto che, in ogni progetto, i risultati migliori si raggiungono collettivamente, quando si viene a creare la giusta armonia.

Ciao Ginevra, partiamo dal video della canzone 16 marzo di Achille Lauro. In che modo sei stata contattata? Qual è il tuo rapporto con la musica?

Parto subito dicendo che il mio lavoro, per come lo vivo io, è estremamente legato alla musica: nel senso che la musica mi accompagna sempre mentre disegno, a prescindere che si tratti di un’animazione per un video musicale o di un’illustrazione. Sono stata contattata da YouNuts! (casa di produzione composta da Antonio Usbergo e Niccolò Celaia n.d.r.) in modo abbastanza casuale: Antonio Usbergo ha commentato una mia animazione postata sul mio secondo profilo instagram, cineprav, attraverso cui seguo diverse persone che lavorano a stretto contatto con gli artisti del momento, perché mi interessa molto quello che c’è dietro alla costruzione di un personaggio. Dal suo «Bellissima!» è partita, incredibilmente, la nostra collaborazione: inizialmente a febbraio per il video di In peggio di Dani Faiv e dopo pochissimo tempo per 16 marzo di Achille Lauro, entrambi artisti che mi piacciono molto. Quest’ultimo lavoro è stato davvero impegnativo perché avevo a disposizione soltanto dieci giorni, per di più in pieno lockdown!

Sono molto curiosa: come avete fatto a costruire il video in questa condizione?

Era chiaro a tutti che il video non poteva essere girato in quel momento, infatti tutte le riprese sono state effettuate dalla stessa Benedetta (Porcaroli, la protagonista del video n.d.r.) a cui era stata procurata una videocamera. La questione più difficile secondo me è stata la consapevolezza di dover forzatamente lavorare da lontano: anche per il video di Dani Faiv ho lavorato a distanza con la produzione, nonostante fossi stata presente sul set durante la registrazione, ma l’idea di non potersi vedere dal vivo a causa delle misure restrittive ha pesato molto. È stata davvero una grande sfida!

Hai ricevuto delle direttive per le animazioni? Da che cosa hai tratto ispirazione?

Come mood principale mi hanno indicato gli anni ‘90. La mia reference personale è stata Lana Del Rey: il pezzo di Achille mi ha fatto pensare molto a Summertime Sadness. Ho interpretato una sorta di messaggio in 16 marzo che è uscito il 16 aprile e che ad un certo punto recita «Ti ri-innamorerai a marzo», come a dire che quest’anno è andato come è andato ma che l’anno prossimo ci sarà una bella rinascita sotto molti punti di vista. Sono convinta che, quando questo lockdown si allenterà, tutta la frustrazione accumulata servirà da concime per farci rifiorire in un momento successivo. La canzone inoltre parla di una storia d’amore finita perché uno dei due si è stancato di aspettare l’altro e di rimanere in una situazione indefinita, fatta di quel non-detto, di quelle lontananze che hanno comunque un significato. Ci ho rivisto molto delle mie esperienze personali.

Una cosa fondamentale per me poi è il ritmo della canzone, quasi per deformazione professionale, avendo anche suonato la batteria: prima di mettermi a “sketchare” qualsiasi idea, ascolto la canzone più e più volte, ballandoci sopra per farmi venire in mente delle immagini. Dalla musica passo al movimento che mi stimola immagini che poi diventano illustrazioni o animazioni. È stata un’esperienza molto intima e molto forte.

Un’immagine meravigliosa. Documentandomi sulla tua carriera ho notato che hai cominciato con animazioni ed illustrazioni per bambini: ti va di raccontarmi com’è andata? C’è qualche differenza con le illustrazioni per adulti? Preferisci le une rispetto alle altre?

L’illustrazione nasce per accompagnare un testo, che sia una rivista di qualsiasi genere o un libro per bambini. In questo periodo ho cercato di non precludermi progetti di nessun tipo e di pensare che sono in un momento della mia vita in cui posso permettermi di sperimentare: il fatto di accettare tutti i lavori che mi propongono mi permette di consolidare le mie competenze su varie cose.

L’anno scorso per esempio ho partecipato ad un evento organizzato in Piazza del Popolo a Roma dall’UNICEF, UNICEF Generation, facendo Live Scribing, disegnando i concetti principali di un discorso fatto in contemporanea da qualcun altro. Un po’ quello che fa Makkox per intederci. È stato molto emozionante e molto formativo perché non lo avevo mai fatto e soprattutto perché hanno partecipato vari personaggi come Enrico Mentana, Geppi Cucciari, Carlo Conti e perfino Virginia Raggi.

Mi interessano molto le dinamiche di volontariato, soprattutto per quanto riguarda la sostenibilità ambientale, e far parte di questo progetto mi ha dato l’opportunità di approfondire la condizione dei bambini nel mondo. Sempre lo scorso anno ho partecipato con un’agenzia di comunicazione di Roma a degli eventi per bambini che si sono tenuti al MAXXI e al MACRO in occasione del RomaEuropa Festival sezione Kids ed è stata la prima prova che mi ha permesso di lavorare e di interfacciarmi con i bambini. Dopo le esperienze con le animazioni video, attualmente sto lavorando ad un libro per bambini, oltre a frequentare un corso di Art Direction.

Non voglio ancora settorializzarmi, voglio continuare a cercare e soprattutto curiosare in diversi ambiti: mi piace molto capire come funzioni il lavoro degli altri e l’idea che dietro ad un progetto ci sia una costruzione collettiva. Le cose belle si fanno in tanti e quando si crea armonia all’interno del gruppo di lavoro.

Hai sempre saputo di voler fare del disegno (illustrazione e/o animazione) il tuo mestiere? Possiedi dei particolari riferimenti estetici o di stile?

Ho sempre amato disegnare, avrei anche voluto frequentare il liceo artistico se i miei non mi avessero convinto ad optare per il liceo classico, che effettivamente si è rivelata la scelta giusta, poiché questo tipo di scuola ti offre una visione molto ampia delle cose.

Ho sempre studiato con grande passione, soprattutto per comprendere le storie di vita che si celano dietro a quei nomi famosi citati sui libri che tutti conosciamo. Per esempio, durante il liceo, mi ha suscitato moltissime immagini lo studio della Divina Commedia, soprattutto grazie alle illustrazioni che ne ha fatto Salvador Dalí: è stato emozionante perché mi sono resa conto che, se anche un artista come Dalí è riuscito a prendere spunto da un testo o dal formaggio molle che stava mangiando per dipingere La persistenza della memoria, significa che l’ispirazione può essere trovata veramente in qualsiasi cosa. Mi rivedo molto in questa considerazione, l’ispirazione può scaturire da una passeggiata, da una serata fra amici… Poi vivendo a Roma, un’altra cosa che mi ispira particolarmente è la città. Nel caso specifico di Roma in particolare mi colpisce il contrasto tra cose antiche e cose nuove e anche un certo degrado urbano che però rende tutto molto vivo, cosa che apprezzo tanto. Vedo l’illustrazione come un filtro attraverso cui raccontare delle storie.

Focalizziamoci su Roma: in che quartiere vivi?

Vivo al Pigneto. Mi sono trasferita a Roma durante l’ultimo anno del corso allo IED, dopo due anni da pendolare, visto che sono nata e cresciuta fuori Roma, a Maccarese. Da quel momento è iniziata questa confluenza di immagini cittadine, per me nuova, perché fino a quel momento avevo vissuto in campagna. Il mio immaginario si è ampliato da piante e animali fino a comprendere la mobilità e la vita frenetica urbana. Mi trovo benissimo in questa zona perché posso raggiungere qualsiasi posto, andare alle lezioni di disegno dal vero, incontrare gli amici, semplicemente passeggiando. Il fatto che io viva in città ma abbia l’affaccio su un viale alberato mi fa rimanere sempre in una dimensione molto piacevole, anche perché mi basta affacciarmi dalla finestra per lasciarmi ispirare da quello che accade per la strada sotto ai miei occhi.

Mi è parso di capire che generalmente passi molto tempo nella tua stanza: puoi descriverci come si svolge la giornata tipo di un’illustratrice? Il lockdown ha cambiato qualcosa? 

Parto col dire che un illustratore o comunque un lavoratore del settore creativo da freelancer possa avere influenze molto diverse a seconda del periodo, quindi la mia routine cambia a seconda dei progetti del momento. Cerco di non svegliarmi mai dopo le 9.30 del mattino, faccio colazione e poi mi metto a disegnare, interrompendo solo per i pasti.

Prendiamo l’esempio di un lavoro di illustrazione di un libro: la prima cosa che mi impegna molto tempo è chiaramente la pre-produzione, che è la parte più intensa della progettazione di un lavoro, dove si fanno le prove dei colori e dei disegni. L’esecuzione di tavole è la parte più semplice, perché a quel punto si tratta solo di colorare: solitamente mi piace lavorare con tempere e matite colorate, soprattutto per le tavole delle illustrazioni per bambini. Per me questo tipo di lavoro, in questo momento, è molto meno faticoso si dover animare al computer, perché colorare per me è un’operazione molto istintiva, non preparo quasi mai i colori ma mi lascio trasportare dal momento.

Quindi direi che il lockdown ha cambiato in minima parte le mie giornate. Certo, non si poteva uscire fuori a cercare ispirazione, almeno fino a qualche giorno fa, quindi ho dovuto cercare delle alternative: quando sentivo il bisogno di andare in una determinata location, cercavo quello che mi interessava su Google Earth o dei riferimenti su YouTube, questione di organizzazione!