Cartolina da Parigi

SEGUE LETTERA

Ci si lascia alle spalle il Louvre con le sue tristi pyramides – tutte lucernari a effetto riflettente, e tutta la rive droite. Si imbocca Pont Royal – tutto squassato dal traffico e da non si sa bene che maniacali lavori di manutenzione stradale. Di là ci si affaccia, oltre la Senna, tra Quai Anatole France e Quai Voltaire, a rue du Bac che punta dritta al cuore di SaintGermain – ad addentrarcisi, fatti pochi passi, rue de Verneuil è proprio la prima che si incrocia.

Ci sono tornata a memoria, come teleguidata.

Stavolta non ci ho abitato che per un pomeriggio una notte e un principio di mattina.

Però ho fatto in tempo lo stesso a scoprire che: la boulangerie gestita da due anziane più burbere di mia nonna, dove compravamo baguettes quiches croissants e quant’altro, è diventata una pacchianissima sala da tè tutta rosa molto costosa; lo storico Bar des Lettres, dove mi bruciai la gola con un tenerissimo boccone di filetto infestato da un dito buono di crema piccante alle lenticchie, è diventato un burgy-tipo Café des Ècrivains dove credo la letteratura non si affacci da anni; e La Bouffe, ristorante ammiccante a Marco Ferreri diretto da una scostante signora italiana denueve-tipo che rinnegò con forza la sua prima naziona-lità e ci prescrisse carne, è semplicemente sparito.

E ho scoperto pure che al numero 5, dentro a un cortiletto che ingabbia tra gli edifici un albero di cinque piani, c’è stata sempre, per tutto il tempo che eravamo stati là a girellarci ad ogni ora, la casa di Serge Gainsbourg con sua moglie Jane Birkin e la figlia-ninfetta Charlotte più una ridda di amici-amanti-compari_di_bevute, e fuori le incursioni continue dei fans. Non ce n’eravamo accorti.

Gainsbourg è morto nel novantuno. Se anche io fossi stata una sua fan, sarei andata di corsa a sporcargli la facciata con la mia scritta_d’amore_spray sovrapporta a quella di chissà chi altro… Serge, avrei scritto per tutti gli altri, perché non c’è luogo da cui lui avrebbe potuto leggermi, siamo stati per un infinitesimo delle nostre rispettive esistenze reciproci vicini di casa (ne avrei approfittato per riesumare una vecchia – dimostrativa – polemica, peraltro non mia, sulla annosa confusione del parlante medio, italiano, tra rispettivo e reciproco. E a quel punto nessuno avrebbe più potuto fermarmi: già che c’ero mi sarei abbandonata anche a un raro, per me, fiotto di sentimentalismo esistenziale:), i nostri destini per qualche giorno hanno corso affiancati, insieme. Era l’ottantadue e io stavo al numero otto, dove sono tornata dodici anni dopo a controllare che tutto fosse al suo posto, per trovare che tutto era, come prevedibile, completamente diverso.

Dai piani alti del numero otto ho preso tutte le pose aeree che spiano la strada e i tetti e gli abbaini di fronte, includendo in alcune il mio interno: la cornice che ho messo a un quadro di per sé esistente prescrivendo la variante dello sguardo. Pochi isolati oltre, avevo bussato insistentemente alla porta dell’Istituto Italiano di Cultura, neppure un minuto dopo il ferreo orario di chiusura: tenuta fuori da un uscio di casa sbarrato da regolamenti di tempo.

I versi sono venuti sere prima nell’abbaino dove ho abitato il più delle vacanze: diciannovesimo arrondissement, Belleville (quartiere cinese, sentii dire in casa, però io, cinesi, non ne ho visti), camminato da Malaussène e animato da Pennac. Combinazione d’entrata: 361B2 –  a Parigi, al posto del citofono, ci sono delle pulsantiere ai portoni, simili alla tastiere del telefono, su cui si deve digitare una combinazione alfanumerica aprisesamo, altrimenti si resta fuori. Li ho scritti, i versi, alle dieci di sera passate, che impazzivo, perché era ancora pieno giorno, guardando ai tetti coltivati a scheletri d’antenne e padelle di paraboliche. Era una gelida sera nordica di giugno (fuori faceva neppure dieci gradi), passata frattanto a sal-tellare tra le proiezioni delle europee su France2 (che preannunciavano i successi del viscon-te di Villiers e del tangentista Tapie intento ancora, allora, a studiare da Benoît Blanc e il soft core su CanalPlus con qualche incursione su ArTé, canale culturale, che trasmetteva curiosi filmati militaristi (e non era la Legione Straniera) e Apostrophe di Bernard Pivot (ma, lì, incursioni veramente poche perché a me piaceva Pickwick di Baricco e Zucconi, con tutta quella faccenda di non poco impatto immaginoso del treno.

Poi, appena ha fatto notte (le undici passate), sono tornati tutti:

RAFFAELLA, che all’Accademia di Belle Arti sotto casa di Victor Hugo in Place des Vosges ha imparato un francese agile tutto sgrammaticato;

JOSEPHINE, gazzella ruandese coi fratelli sparsi nel mondo e i genitori rimasti nel Paese (col machete che gli pende sulla nuca ma ostinati a non mettersi in salvo);

MAXIME, che ha abitato per un anno in via del Vantaggio, margine della colonia francese a Roma, e sparge su tutto i suoi ammazz-ahó; e MATHIEU, che ha sciolto la sua brava barretta di nero e si è rollato con cura una canna proprio ben manufatta;

SEAN (il padrone di casa) o come qui lo chiaman tutti SYNN, di madre irlandese e padre marocchino, un afro-normanno a Parigi, dotato di fluente capigliatura rasta biondo-castana e fierezza musulmana, festeggiato da;

WOLFIE, soriano rosso accoccolato sulle mie gambe senza darmi ormai neppure più un filo d’asma o di èdema perioculare, (con un salto gli è saltato al collo).

A notte fonda poi abbiamo dato tutti l’assalto a un magnifico cous-cous vegetariano, e al dia-volo tutto il resto.

Pubblicato da Daniela Matronola

Sono uno scrittore - a volte poeta, a volte romanziera o raccontatrice, a volte cronista di cronaca culturale o critica/recensora, raramente fotografa. Pubblico dal 1992 sotto varie forme ma sempre col mio nome e la mia faccia. Penso basti.

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