Quello scherzo infinito che ci ha fatto D.F. Wallace

Il viola è un colore per cui ho sempre provato una sincera simpatia accompagnata da un timore quasi reverenziale. Chissà se non sia stato un caso che per l’edizione italiana di Infinite Jest è stata scelta una copertina con nuvole rosa che galleggiano su un cielo viola. Non so dire se sia il colore della copertina, i dieci centimetri di pagine che lo compongono o il titolo che, giallo e maiuscolo, promette un infinito dissonante, quasi lugubre, uno “scherzo infinito”, ma al solo guardarlo, Infinite Jest mi ha sempre spaventata. Forse a spaventarmi era il timore di fallire, di non riuscire a parlare con quel romanzo; oppure il terrore della delusione che avrei provato qualora non avessi trovato quello che tutti mi promettevano. Poi un giorno di quarantena in cui ero in cerca di un amico abbastanza impegnativo da accompagnarmi per più di due pomeriggi di lettura intensa, mi sono avvicinata allo spaventoso libro dalla copertina viola, l’ho pesato nella mano, l’ho appoggiato sulle gambe, ho aperto la prima pagina e – fatto un gran respiro – ho iniziato a leggere. Mi ci son voluti nove giorni per leggere Infinite Jest

Corrie Baldauf, PD Rearick, Infinite Jest Project: Phase 1

Il primo giorno è stato tutto un correre da mia madre per leggerle alcune frasi la cui forma mi aveva colpita, quasi disarmata: “Guarda quanto è lunga questa frase, è lunga quattordici righe, le ho contate!”, le urlavo euforica, oppure: “Senti qua che frase assurda, Reginald dice che Wardine dice che la notte Roy Tony dice…”. 

Il secondo giorno non ho mai arrestato la lettura, ma una volta terminata sono nuovamente corsa da mia madre e, con la fretta e la prepotenza delle questioni improrogabili, le ho letto l’elenco lungo sette pagine di tutte le cose che ​«verrete a sapere se mai passerete del tempo in una struttura di recupero da Sostanze». Mi muovevo freneticamente, quasi sobbalzavo tanto sentivo la necessità di condividere con qualcuno ciò che stava crescendo in me. Cercavo nel mondo esterno la garanzia che non mi stessi ingannando, qualcuno in grado di convalidare le mie emozioni.

Il terzo giorno ho chiamato un’amica e con la voce che uso per le questioni importanti le ho letto il capitolo in cui si elencano tutti gli oggetti blu nella sala d’aspetto di C.T.; poi ho chiuso la telefonata e sono rimasta a dondolarmi sull’amaca, pensando a come deve esser difficile scrivere dopo David Foster Wallace.

Il quarto giorno è subentrato un sentimento nuovo, un misto di gelosia e di protezione. Di pagina in pagina quelle parole si aggrappavano strette alla mia carne mentre io lasciavo dei brandelli di me indietro, al capitolo della depressione di Kate Gompert, tra le telefonate di Hal e Orin, alla confessione dell’amore di Marathe per la moglie nata senza cranio. Allora sono diventata protettiva verso quei personaggi sconsiderati e folli e ho smesso di chiamare i miei amici e di correre da mia madre per leggere loro delle frasi mozzicate e senza contesto. Sapevo che nessuna loro risposta mi avrebbe soddisfatta, al contrario, avrebbe accresciuto la mia frustrazione. 

Corrie Baldauf, PD Rearick, Infinite Jest Project: Phase 1

Il quinto giorno ho letto accovacciata tra le margherite del prato da mattina a sera finché le ombre si son prese anche l’ultimo spicchio di sole sulla pagina. A quel punto ho chiuso il libro con un gesto secco e l’ho abbracciato forte. L’ho incastonato fra il petto e le ginocchia e ci ho avvolto le braccia intorno. Sono rimasta ferma così per un po’, come se averlo accanto al cuore potesse aiutare a imprimere quelle parole in me ancora meglio. 

Al sesto giorno la fase della gelosia era terminata, così ho chiamato un amico che aveva letto il romanzo e abbiamo passato ore a far congetture su cosa significhi la muffa che mangia Hal e il velo che porta Joelle, abbiamo parlato del presidente Johnny Gentle e di Eschaton. Se da una parte parlarne con qualcuno che aveva letto quelle pagine mi ha rinvigorita, ho però sentito crescere una grande angoscia, perché quasi nessuna emozione o ipotesi combaciavano, come se avessimo letto due libri diversi con in comune solo il nome dei personaggi principali. 

Così, il settimo giorno non ho parlato proprio con nessuno. Ho invece trascinato il libro da una parte all’altra della casa, leggendo ogni nota con una minuzia quasi patologica. Ero decisa a non lasciarmi sfuggire nulla, ad attenermi al testo così da poter richiamare il mio amico e affermare con sicurezza: “Non me lo sono inventata, è proprio scritto nero su bianco”.

L’ottavo giorno ho finalmente realizzato che pretendere una risposta conclusiva, una univocità, significa non aver capito nulla di questo grande manifesto postmoderno. Va bene giocare ai piccoli detective, ricostruire una cronologia, rileggere alcune frasi iniziali alla luce degli ultimi capitoli. È però ingannevole pensare di trovare la risposta all’interno di quelle pagine. La risposta è nel lettore ed è quindi sempre parziale e fallibile. Dopotutto, è capitato a tutti di leggere un romanzo, parlarne dopo tempo con qualcuno e trovarsi in disaccordo su un dettaglio, tornare a casa e stupirsi di come si era ricamato su qualcosa che non c’era. Significa che quel romanzo non ha funzionato? Al contrario, significa che quel romanzo ha funzionato talmente bene che lo si è interiorizzato, lo si è fatto proprio. Ecco cosa significa capire Infinite Jest: accogliere le dissonanze e far proprie le confusioni. 

Il nono giorno, voltata l’ultima pagina, ho sentito che il mio tempo con quel libro era tutt’altro che terminato. Avevo appena cominciato a masticarlo, ora bisognava che lo digerissi e non era certo possibile farlo da sola. Protagonisti del libro sono l’incomunicabilità, la solitudine, la dipendenza da sostanze e da segreti, l’ambizione soffocante, l’anedonia, ma per dar conto di queste esperienze, si deve dialogare con un altro. È un libro di cui bisognerebbe costantemente parlare per scambiarsi sensazioni, uscire da se stessi e guardarsi da un’altra prospettiva. Questo confronto non mira a sormontare l’incomunicabilità e la solitudine, né a risolvere la depressione e la dipendenza. Ma a prenderne atto. Infinite Jest è un romanzo violento e che violenta proprio perché, invece di offrire soluzioni, pone ai suoi lettori domande alle quali non esiste la risposta semplice che vorremmo noi.

In quest’opera David Foster Wallace segue la vita di almeno trentaquattro personaggi. I più non sono protagonisti, alcuni appaiono solo per qualche pagina, non sappiamo nulla di loro se non quello che loro vogliono dirci, tuttavia tutti sono fortemente caratterizzati, tutti hanno una dignità, una profondità, una storia da raccontare. Pertanto, se i libri producessero un suono, Infinite Jest sarebbe il vociferare alto, indistinguibile – inquieto e tormentato – prodotto da una stanza affollata di gente ad una festa; sarebbe, quindi, il romanzo più rumoroso di tutti. Eppure, Infinite Jest è il più grande inno al silenzio che sia mai stato concepito, perché utilizzando milleduecento pagine e oltre trenta personaggi, quel che ci sta davvero raccontando è che in alcuni casi le conversazioni e le parole reiterano l’incomunicabilità e il silenzio invece di alleviarli. 

Eccolo, lo scherzo infinito che ci ha fatto David Foster Wallace!

David Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi Editore, pp. 1280, euro 19

Pubblicato da martacerreti

Nata a Roma nel 1995, si laurea in Filosofia alla Sapienza Università di Roma con una tesi in Filosofia e Letteratura. Nell'ultimo anno è stata borsista all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e ha viaggiato in Sud-Est Asiatico. Le piace leggere più che scrivere e disegnare più che fotografare.

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