Ricordo, fra parecchi altri, quei tipi del piccolo mondo antico vomerese […] Essi, si trovavano armonicamente inquadrati in quel primo tempo di vita vomerese arcaico, quasi idilliaco! Quel tempo in cui fra l’altro chi viveva sulla collina, sia per la separazione territoriale dalla città bassa, sia per certo spirituale distacco che ne conseguiva, istintivamente avvertiva, sebbene non dichiarato, uno spontaneo sentimento di differenziazione, come di autonomia, dal resto della città!
Gastone Bellet, Vomero capitale di Napoli
Si apre con una panoramica Le mani sulla città, celebre film di Francesco Rosi. Da una collina in lontananza satura di nuovissimi palazzi si passa a un terreno di fronte, dove alcuni imprenditori discutono di investimenti futuri, quotando nel cemento e nelle case il nuovo oro, l’affare più conveniente e meno rischioso.
La collina immortalata nella scena è il Vomero, quartiere collinare di Napoli e il suo passato recente è simile a quello di molti quartieri italiani nel dopoguerra. Estesa campagna di masserie piantate a broccoli fino a metà ‘900, con il boom economico, l’aumento demografico e le brame speculative di costruttori e politici, cede a un’urbanizzazione selvaggia che in pochi anni ne ha stravolto il paesaggio. Folte schiere di edifici si ammassano lungo l’area tra l’elegante nucleo ottocentesco e la collina di Posillipo, facendo del Vomero, con la vicina Arenella, il quartiere più densamente abitato della città.
Una decina di passi separano la finestra della mia stanza dalla cucina e le camere da letto del palazzo di fronte. Riportando così fuori dagli schermi e nella vita reale, quella inavvertita predisposizione a farsi le vite (domestiche) degli altri.
Fino ai sette anni ho abitato qui, in una casa al piano terra con un terrazzo assediato da edifici. La sensazione è di conoscere il quartiere da sempre, in realtà ho ripreso a frequentarlo solo da poco, quando sono tornato ad abitarci.
L’urbanizzazione del quartiere ha avuto due fasi principali. A fine Ottocento, primi nuclei familiari vi si insediarono quando la collina era poco più di un villaggio. Decisiva fu la costruzione delle prime strade e abitazioni (piazza Vanvitelli, via Scarlatti, via Bernini) e di due delle tre funicolari (Chiaia e Montesanto) che collegano il Vomero con il centro della città. A finanziare le opere fu la Banca Tiberina, istituto di credito piemontese.
Con l’inizio del Novecento, in collina iniziavano ad arrivare acqua, elettricità e i primi negozi. Il villaggio prese il nome di quartiere. A trainare il processo fu la sintonia tra la classe politica locale e i costruttori, i quali, tutt’altro che discretamente, iniziavano ad allungare le mani su intere fette di collina. L’iconografia dell’epoca, tra dipinti e foto sbiadite, mostra ancora spazi e scene campestri; prati rigogliosi, carri e carrozze trainate da asinelli, contadini con vacche che distribuiscono latte agli angoli delle strade. Lo stesso nome del quartiere pare derivi dal vomere, attrezzo usato per arare i campi.
Una seconda urbanizzazione, più nota, risale tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Il Vomero fu scelto tra le aree di espansione della città, per la sua fortunata posizione collinare e l’enorme potenziale di rendita. Ai primi complessi di edilizia popolare, pianificati dallo Stato con criteri architettonici ragionevoli (prima che razionalisti), seguì una seconda ondata in cui l’azione politica è estensione di quella imprenditoriale, che vide raddoppiare l’altezza dei primi palazzi e riempire di cemento il lato occidentale della collina.
La popolazione del quartiere passerà dai 70.000 degli anni ‘50 ai 150.000 abitanti degli anni ’70, accogliendo, in case accessoriate, buona parte della migrazione del ceto medio dal centro storico di Napoli e dai paesini della provincia.

Sono anni decisivi per lo sviluppo della città, studi successivi confermeranno che la logica della rendita immobiliare, e quindi della speculazione edilizia, abbia per anni sostituito, più che affiancato, gli investimenti nel settore industriale.
A completare lo sviluppo urbano, la realizzazione delle uscite della Tangenziale nel ’63 e soprattutto, l’apertura della metropolitana negli anni ’90, che ha ridotto la distanza tra la città e la sua periferia nord.
Città sopra la città, quartiere altolocato, Napoli bene; le definizioni riservate al contesto vomerese si sprecano e si sono sedimentate nell’immaginario cittadino, creando lo stigma del vomerese-tipo. Chiusura, distacco e senso di superiorità rispetto al resto della città – bassa, in particolare quella rozza, caotica e popolare. Sentimenti aristocratici risalenti forse ad un’arcadia vomerese, fatta di natura e panorami, lasciati essiccare al sole e indossati dal ceto medio che si è insediato negli anni ‘60 in un quartiere che ormai di bucolico non aveva più niente.
«A ognuno il suo panorama» prometteva il manifesto elettorale di Nottola, il costruttore del film di Rosi. Sarà stato anche questo ardente desiderio a far impennare la domanda di abitanti vomeresi. Oggi, uno spicchio di sole tra le palazzine e un posto auto sono venduti a peso d’oro da un’agenzia immobiliare della zona. Sono queste le note a margine emerse dalla mia prima assemblea di condominio la scorsa estate. In un clima afoso e pacifico, tra le proposte si discuteva di trasformare in «prato inglese» le semplici aiuole del parco e della possibilità di alzare un muro verso uno storico ex-casale confinante, oggi abitato da una numerosa famiglia di estrazione popolare. «Gentaglia» con arricciamento di naso, l’eloquente espressione che ha chiuso l’assemblea.

Se potesse, una parte del quartiere, chiuderebbe a chiave le entrate e vivrebbe di una socialità limitata ai confini della collina. Negli ultimi anni a dissacrare questo aspetto c’è la pagina facebook Vomeresi e altri infami. Nel repertorio, un’immagine della linea metropolitana di Napoli è affiancata alla scala evolutiva dell’uomo. L’uomo scimmia, da Piscinola si sviluppa a homo sapiens alla fermata Vanvitelli, per poi tornare scimmia al capolinea Garibaldi. Meno divertente è quando queste iperboli, in parte calcificate nel tessuto cittadino, riaffiorano e impattano nella realtà, non appena una rapina il sabato sera, a Via Scarlatti o nei centri della città, scuote e aizza la città buona e colta (con ampio seguito) contro quella incivile e cattiva. Più polizia nelle strade, telecamere di sorveglianza, chiudere di sera la metropolitana che consente l’ingresso ai barbari delle periferie, la lista delle richieste. Soluzioni che di sapiens hanno molto poco.
Tra periferie, semi periferie agiate e centro della città, così come tra un condominio e un abitato popolare affianco, la comunicazione è nulla; quando c’è, è filtrata dalle notizie di cronaca o da serie televisive patinate, che, si tratti di Posillipo o della suburra di turno, tra lo shock scandalistico e l’estetizzazione, ce li dipingono sempre così, proprio come ce li aspettavamo…

Oggi, confermando la propria vocazione moderna, il Vomero è un quartiere residenziale e commerciale. Pub, bar e negozi di abbigliamento primeggiano, assieme a mini e mega market. Nelle strade principali, le luminose insegne dei locali si alternano all’opaca squadratura delle targhe degli studi professionali.
La dimensione popolare è concentrata all’interno del quartiere, in un borgo chiuso tra palazzi signorili e residenziali.
Antignano, centro del vecchio Vomero, ospita uno dei mercati rionali della città. L’infanzia ne consegna un’immagine negli interminabili trascinamenti materni. Oggi, non diversamente da allora, sotto l’ombra di drappi e ombrelloni vengono smerciati frutta e verdure, pesce, articoli per la casa, abbigliamento. Negli ultimi cinque anni, la trasformazione della zona ha consentito ai negozi storici del borgo (pescherie, macellerie, enoteche) di riconvertirsi e prolungare la loro attività anche di sera. Di recente, un comitato di abitanti e commercianti della zona si è opposto alla realizzazione di un garage sotterraneo al mercato di 900 box auto.
E se una moderna legge urbanistica, economica e sociale vuole il popolo emarginato dai centri urbani, non fa eccezione il Vomero come città nella città, anche se il caso riserva ai margini della collina i suoi scorci panoramici sul golfo. Nelle strette vie d’uscita dal quartiere, dove il tufo recupera sul cemento, si aggrappano file discontinue di abitazioni semplici, nel silenzio di discese e scalinate ripide che, lambendo i parchi privati, portano fino a mare.
Nei primi anni di università, la chiusura spaziale, claustrofobica del cemento vomerese si è fatta anche punto di ritrovo. A via Kagoshima, strada ripidissima e simbolo degli anni della speculazione, in un bar incastonato in una curva, sotto un gigantesco palazzo. Il pretesto per passarci il tempo era il biliardino, ma anche la possibilità di incontrare qualsiasi tipo di persona, e forse, senza saperlo, la rara occasione per rubarsi da quei palazzi un senso di riparo.
La chiusura sintetizza bene anche l’offerta culturale e di aree pubbliche. I cartelloni dei due teatri principali sono riempiti spesso da spettacoli di comici che della «napoletanità», un po’ pigramente, fanno la loro cifra. Le librerie storiche, chiuse una decina di anni fa assieme a molte del centro antico di Napoli, sono state rimpiazzate da piccoli negozi di una grande catena editoriale, non troppo accoglienti. Di biblioteca ce n’è una, molto piccola, angusta, sempre affollata. Se non fosse per un paio di storiche sale cinematografiche e l’iniziativa di qualche associazione, la situazione sarebbe abbastanza desolante.

La Floridiana è l’unica area verde del quartiere e per sempre luogo d’infanzia. Non come sentenza nostalgica, quanto per gli orari di apertura. Per anni il sito internet ha riportato «dalle 9 fino un’ora prima del tramonto», celando di fatto, specie d’inverno, dietro la forma ottocentesca l’ingresso limitato per nonni, passeggini e piccoli nipoti.
Via Cilea invece, strada che taglia il crinale della collina, sembra recepire il maggior numero di trasformazioni recenti, riguardanti il settore della ristorazione e rivolte a un target giovanile, più o meno ricercato e dal tocco cosmopolita. ‘O Sushi, Puok (panini gourmet) e ‘O talebano (kebab) i più gettonati.
La stessa strada termina segnando il confine con Posillipo. Qui, nel 2015 ha aperto il primo supermercato aperto 24/24 della città. È il sonno lo spazio rimasto in cui consumare. Di notte, in un deserto illuminato al neon, si possono acquistare arance a 5€ al kg e guacamole surgelato. Peccato che la ventata cosmopolita non abbia sfiorato gli orari di chiusura dei trasporti pubblici: 22 per le funicolari 22,30 metropolitana, con l’intermittenza di prolungamenti il sabato che sono accolti dalla città con la riconoscenza dovuta a chi ti concede qualcosa. Peccato, perché proprio dai trasporti, dal diritto alla mobilità, potrebbe cominciare a puntare una società impaurita e ammalata di sicurezza. Scommettendo su città aperte oltre gli orari del consumo, riducendo quella «separazione territoriale», fatta di chilometri e pregiudizi, che rende le periferie più desolate, i centri più autoreferenziali, e quartieri come il Vomero ghetti benestanti, quando non fortini da assaltare.