“La nostra folle, furiosa città”: il vortice della periferia di Guy Gunaratne

Uno schiaffo in faccia, un tormento interiore continuo e crescente, così si presenta La nostra folle, furiosa città, brillante opera prima del giornalista e scrittore inglese Guy Gunaratne, pubblicato in Italia da Fazi Editore la scorsa estate, segnata inevitabilmente da un profondo senso di liberazione dopo la prigionia del lockdown. Un periodo particolare quindi per consegnarlo in pasto ai lettori, bisognosi di evasione e leggerezza. Il racconto infatti ci trasporta subito in un vortice di violenza e grigiore, che non lascia alcuno spiraglio di luce, facendoci annaspare per 288 pagine in cerca di un appiglio, regalandoci una scrittura originale, ma non propriamente da spiaggia. 

Le pagine si snodano lungo quarantotto ore di vita di tre ragazzi adolescenti, amici, figli di culture diverse del mondo, portate dai loro genitori ad incontrarsi nella periferia nord di Londra, cupa, matrigna implacabile di una multiculturalità generatrice di scontri ed allo stesso tempo matrice fertile di relazioni forti e durature. È per l’appunto il caso di Selvon, promessa dell’atletica e figlio di genitori creoli, dell’aspirante rapper Ardan, nelle cui vene scorre sangue irlandese, e di Yusuf, Yoos per gli amici, il cui cuore custodisce gli insegnamenti dell’illuminato Abbà, compianto imam pakistano della moschea del quartiere. Alle loro vicende si sommano diversi flashback, necessari a dare un’inquadratura più precisa alle dinamiche presenti. Quelli di Nelson, padre di Selvon, con un passato nelle lotte degli immigrati del Commonwealth contro i sostenitori del «Keep Britain White», ormai paralitico ed incapace di parlare a seguito di un ictus, e quelli di Caroline, che dopo aver rinnegato le sue origini macchiate dal sangue versato dal terrorismo dell’IRA (Irish Republican Army) e aver lasciato Belfast, si rifugia nell’alcolismo, sorda persino alle richieste di attenzione di suo figlio Ardan, frutto di un amore passionale quanto violento.

Gunaratne racconta attraverso cinque punti di vista differenti, appartenenti ai cinque protagonisti, una storia intima e furiosa, interrompendo soltanto una volta il flusso narrativo così strutturato con un paragrafo in terza persona dedicato ad Irfan, il problematico fratello maggiore di Yusuf, figlio come gli altri di una violenza che non gli lascia scampo, e che è relegato quasi ad oggetto di scena di un vortice di eventi in cui si lascia annegare per trovare la propria possibilità di redenzione. 

Il romanzo ribolle di attualità, grazie ad una penna in grado di snocciolare gli avvenimenti che si susseguono veloci tra una partita a pallone nel cortile fra i grigi palazzoni dello Stones Estate, la moschea, le insegne luminose delle lavanderie H24 e i take away intrisi di puzza di fritto e di degrado, in maniera estremamente contemporanea. La lingua infatti è quella dello slang, dei neologismi, del modo di parlare proprio della sottocultura giovanile che popola la periferia londinese, in bilico fra la voglia di riscatto e la melma putrefacente costituita da xenofobia, razzismo, radicalizzazione religiosa e mancanza di prospettive, che plasmano le persone ad immagine e somiglianza delle strutture fatiscenti e del clima soffocante in cui sono costrette a vivere. 

«Ci sono parti di questa città che creano la forma di una persona, la plasmano con la dura saggezza e la distaccata crudeltà. Vedono con gli occhi delle luci della città e valutano le loro schiene sui muri di qua. Bevono la pioggia per irrigidire le loro fibre e temprarsi rispetto alle mille follie».

La storia raccontata prende le mosse da un vero fatto di cronaca che nel 2013 sconvolse l’opinione pubblica inglese e lo stesso autore: la barbara uccisione, da parte di due fondamentalisti islamici, di Lee Rigby, un ex soldato di 25 anni, a Woolwich, nella periferia sud di Londra. I personaggi di Gunaratne, gli abitanti di questa città folle e furiosa, sono vittime di un sentimento di identificazione con quegli assassini: parlano la stessa lingua, hanno le medesime origini, crescono fra gli stessi palazzi, hanno davanti gli stessi orizzonti e sono abituati a convivere con la paura di sfociare nella stessa rabbia violenta. Lottano con se stessi per sfuggire  un’angoscia esistenziale che allo stesso tempo li costituisce e li mantiene vivi. 

«La mano di Allah, si definiva, ma a noi pareva uno appena uscito dal cancello di scuola nostra. Aveva le nostre stesse scarpe da ginnastica. Parlava il nostro stesso slang di strada. Non era stato il sangue a scioccarci. Era stata la sua faccia che come uno specchio rifletteva i nostri cuori confusi e spaventati».

Anche Guy Gunaratne scrive per esperienza, essendo originario dello Sri Lanka e cresciuto a Neasden, area suburbana a nord-ovest di Londra, ed avendo per ciò stesso respirato e vissuto in quel crogiolo di sapori, odori, influenze culturali differenti, da cui scaturisce un’unica comunità multiculturale ed in qualche modo compatta, riconoscibile e in continuo fermento.

La lettura di questo romanzo è difficile perché la scrittura è diretta e sincera, non ammette sconti e arriva dritta come a scuoterci la testa e a guardarci dritto negli occhi. L’argomento trattato è di estrema attualità e non possiamo voltarci dall’altraparte mentre leggiamo. Non possiamo cambiare canale, come faremmo davanti a scene di scontri violenti mandate in onda al telegiornale. Chi legge La nostra folle, furiosa città deve essere pronto a non lasciarsi alle spalle la realtà: non si tratta di una lettura di evasione, ma piuttosto di invasione.

E se l’assurdo epilogo di Yoos apre paradossalmente uno squarcio di speranza nell’intera vicenda esistenziale degli altri protagonisti, la corsa senza sosta di Selvon, il grime veemente di Ardan, la presa di coscienza di voler rinnovare il rapporto con il figlio di Caroline e l’amore verso la moglie Maisie, che è sempre stato il motore propulsore di Nelson, rappresentano per ognuno di essi l’ancora a cui aggrapparsi per fuggire da quel «tamburo spaventoso, irascibile spirito famelico» che altrimenti li trascinerebbe inesorabilmente verso il baratro. 

La nostra folle, furiosita città, Guy Gunaratne,
Fazi editore,
Roma, 2020, 288 pagine, Euro 18, 50

Argentina, Italia, Spagna e Olanda: in viaggio con Marino Magliani

Sanremo, agosto 2020

Marino Magliani (Dolcedo, 1960) è uno scrittore e traduttore ligure. Collabora con varie case editrici, tra le quali Exorma, per la quale ha tradotto Sudeste di Haroldo Conti, Miraggi, Amos, Nutrimenti, Del Vecchio e Il canneto editore. Traduce per Arkadia dove cura la collana di letteratura ispanoamericana, Xaimaca-Jarama, con Alessandro Gianetti e Luigi Marfé. Ha tradotto anche con Riccardo Ferrazzi, Giovanni Agnoloni e Alberto Prunetti. Cura inoltre la collana Appennica per Tarka.

Siamo «nella Liguria costiera, dei palmizi e dei cartelloni pubblicitari». In Prima che te lo dicano altri (Chiarelettere, 2018), il protagonista, Raul Porti, dice: «Tutto quello che vedi da Dolcedo, Ripalta, Asinelli e Isolalunga e fin qui e poi fin giù al mare, un giorno sarà una scalinata di case». Appare chiaro un riferimento alla speculazione edilizia,  a quelle “selve di cemento” che, come diceva Biamonti,  «fanno male agli occhi». Qual è stata la sua percezione della Liguria costiera da bambino, poi crescendo e tornando?

Mi identifico molto con ciò che Italo Calvino scrive in quello che per me è un libro fondamentale: La strada di San Giovanni. Il padre, Mario Calvino, noto botanico, e al contempo contadino, cercava di portarlo con sé nella campagna di San Giovanni. Lo stesso faceva mio padre. Provengo da una Liguria non costiera come quella di Calvino, ma da un profondo fondovalle, una terra dove il mare davvero non c’è. Per cercarlo devi inventarlo o andare sulle pietraie e salire abbastanza. Sono sempre stato abituato a questa negazione del mare: l’ho sempre considerato più dei turisti e dei cittadini che nostro. Ci sono una serie di battute che mi hanno sempre commosso, quelle della gente del mio paese che diceva:

«Sei già andato al mare?» 

«Guarda se trovo il costume o i soldi per comprarlo, qualche giorno ci vado». 

Loro ci vanno un giorno all’anno, è una goduria, un paesaggio che non si concedono. Mio padre mi portava in campagna e mi diceva: «Marìn bisogna faticare». Io a quel punto ero il ragazzo che preferiva il mare esattamente come Calvino preferiva la parte costiera e luccicante. Ecco quindi che la mia frontiera era davvero quella che Biamonti, o forse Calvino, chiama la separazione fra la Liguria ridanciana e la Liguria sofferente, la Liguria della sofferenza come lavoro, la Liguria muta, aspra, che è quella dell’uliveto. Dal momento che sono figlio di contadini –mia madre era ancora più contadina di mio padre – io ho quindi sempre vissuto il mare come senso di colpa: è ciò che mi sono sempre concesso da ragazzo al posto di quello che avrei dovuto fare, cioè andare in campagna. Mio padre lavorava in un ristorante sulla Costa Azzurra, a Sainte-Maxime, e io andavo con lui d’estate. Il mare per me era più quel mare oltre la frontiera che questo mare e ne parlo nel L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exorma, 2017). Questa parola che noi usiamo, frontiera, non l’ho mai capita bene. Non sono di quelli per cui la frontiera è davvero un taglio, ma è una terra pulsante. È una zona che sfuma, così l’Italia può arrivare fino a Mentone e la Francia fino a Bordighera, anche se non ho mai vissuto la frontiera come Biamonti che era della frontiera e che aveva una grande considerazione per la cultura francese…

Biamonti aveva infatti uno sguardo proiettato verso ovest, verso Marsiglia, l’Esterel…

E verso quella luce che lui credeva insuperabile che era la luce della Liguria fino ad Arles, Nîmes, che poi si trasforme in luce africana andando giù verso la Spagna.

Ma la mia Liguria è quella di chi non l’ha vissuta. Io me ne sono sempre andato. Ho passato molto tempo in Spagna e Argentina e ora da trent’anni vivo in Olanda. Solo adesso che ho sessant’anni mi sto accorgendo che davvero non sono più di qua, non lo sono mai stato…Ora più che mai sono considerato uno straniero, un furesto, e questo mi dispiace. Possono dire che non ho combinato niente tutta la vita ma dirmi che non sono di qua è davvero come strapparmi quella specie di identità che al di là di tutto è come un tatuaggio, non la puoi cancellare…

Costiera ligure di Ennio Morlotti

Cosa l’ha portata a evadere, ad andarsene dalla Liguria? 

Me ne sono andato via di casa da bambino, ho vissuto molto a lungo in collegio. Uno dei temi de  L’esilio dei moscerini  è il collegio. Da noi chi aveva le terre lontane andava la mattina a lavorare e tornava la sera a casa: ciò significava non poter star dietro ai figli a scuola. Mia sorella era andata in collegio e non si era trovata bene. Per me è stata, quindi, una sorta di sfida. Ricordo che quando sono andato in collegio, al Col di Nava, avevo una nostalgia tremenda. Ma sapevo che  mia madre aveva fatto delle spese, aveva persino messo il numero 66 su tutti i capi della biancheria, e allora mi sono fatto forza e non sono più tornato a casa… Sono uscito dal collegio che avevo 15 anni, mi hanno mandato via per eccesso di tempo. Da Nava ero andato a Mondovì e poi a Roma dove avevo fatta tutta la trafila in prima magistrale… Poi laggiù, grazie a Dio, uno di questi frati mi ha detto: «Guarda non sappiamo se tu sarai un buon padre di famiglia ma sicuramente non sarai un buon frate», anche perché ero un ragazzo, la carne bruciava e si erano resi conto che non sarebbe stata quella la mia strada.

Alla fine dopo essere tornato e dopo aver girato tanto in Spagna e Sud America mi è successo qualcosa che era successo a Gabriel García Márquez: quando ha scoperto i racconti di Kafka ha pensato che se quello era scrivere lui di storie del genere ne aveva tante. La stessa cosa è capitata a me: ho cominciato a leggere, però il mio italiano era molto sporco. Fortunatamente ho conosciuto Gian Giacomo Amoretti, un professore dell’Università di Genova, che è stato molto disponibile. Dopo aver letto le mie cose mi disse che avrei dovuto migliorare la lingua, poiché passavo in continuazione dallo spagnolo all’italiano. Ho dovuto quindi ripossedere/riappropriarmi di una lingua che non mi apparteneva più. Probabilmente la mia prima lingua, l’unica lingua che io abbia mia davvero considerato mia, è stato il dialetto. Sono arrivato in prima elementare che non sapevo una parola di italiano, quindi ho dovuto scrivere molto.

Mi ricordo che quando vivevo in Costa Brava ho tradotto i menu per i ristoranti con un argentino col quale dividevo la casa, che era molto furbo come tutti gli argentini -la viveza criolla-. 

Era il 1982. L’argentino mi aveva detto: «Marino, senti un po’, se noi traduciamo i menù spagnoli in italiano e poi li vendiamo a tutti i ristoranti, tanto sono gli stessi, cliente per cliente possiamo fare dei soldi: 2000/3000 pesetas o mille più pasti». E in effetti abbiamo fatto un pacco di soldi. È stata la mia più grande impresa con la traduzione. 

Quindi il suo primo approccio con la traduzione ha riguardato il cibo, tradurre menù, prima di approdare alla traduzione letteraria…

Sì, poi dopo ho iniziato un po’ a tradurre letteratura. Tradurre non è facile…Pian piano mi hanno assegnato una collana. Non ho mai tradotto per grandi editori, ma per piccole case editrici, seppur di buona qualità, come Amos, Pellegrini, Lo Studiolo, Nutrimenti, Miraggi, Del Vecchio, Arkadia, Quodlibet (Compagnia Extra), Exorma…

Com’è arrivato a tradurre Robert Artl? 

Attraverso Adrián Bravi, un autore, mio coetaneo, arrivato dall’Argentina circa trent’anni fa, col quale siamo diventati amici. Lui mi faceva da consulente, mi ha passato tra le altre cose il nome di Haroldo Conti, e mi aveva detto che le Acqueforti di Buenos Aires di Robert Arlt  non erano state ancora tradotte. Quindi l’ho tradotto per Del Vecchio con Alberto Prunetti, un autore che si occupa di narrativa sociale, del lavoro. 

Il primo libro che ha tradotto?

Ho tradotto per una piccola casa editrice di Treviso (Anordest edizioni) La moglie del colonnello di Carlos Alberto Montaner, un cubano, giornalista dissidente, secondo Cuba un membro della CIA.

Prima avevo comunque tradotto molte altre cose, ma magari andavano in rete o si trattava di cose tecniche. Si dice sempre che la traduzione sia una professione solitaria, ma a me piace dividermi il lavoro, l’ho fatto, dicevo, con Riccardo Ferrazzi, Giovanni Agnoloni, Luigi Marfé, Alberto Prunetti, ma ultimamente è successo con Alessandro Gianetti e succederà con Piero Dal Bon. 

«Esule su altre rive», così si definisce Calvino in una lettera a Biamonti. Come si sente in Olanda? Si sente in esilio?

No,  in Olanda mi sento a casa anche se non frequento nessuno e forse è per questo che ci sto bene… Lavoro e per il resto ciò che faccio è andare nel bosco due ore al giorno o lungo la riva del mare a camminare. Più che sentirmi esule mi sento quasi un disertore, questa è la mia condizione. Anche perché disertore forse lo sono davvero e un po’ quando sono in Italia mi sento un clandestino. Non che sia un problema ma anche l’Olanda stessa non è che sia la mia patria. L’olandese è una lingua incredibile con la quale non riesco però a comunicare. Gli olandesi stessi non ti capisco se non parli perfettamente la loro lingua. Dal punto di vista del linguaggio l’Italia è la mia terra, da quello della creazione artistica è l’Olanda, solo lì riesco a lavorare.

Ho appena terminato un romanzo dove riesco a scindere le due figure, il traduttore in Olanda, il pellegrino/camminatore solitario e malinconico in Liguria. 

Come mai ha scelto il Sud America e nello specifico l’Argentina?

Il Sud America è la mia vita con gli argentini in Spagna, vivevo con loro, lavoravo con loro, ho assorbito la loro cultura e sono ancora in contatto con loro. Dopo la parentesi iberica ho vissuto quasi un anno laggiù, nel 1983 – il colpo di coda della dittatura– nella Pampa a Lincoln e poi a Carlos Paz. 

E che mi dice della Costa Brava?

Che era una specie di costa di plastica ed io da quelle parti ero un altro animale, un animale notturno, vivevo sempre d’estate e sempre di notte. Sono cose che lasciano i segni e bei ricordi. Era la fine degli anni ‘70 quando sono arrivato e me ne sono andato una decina di anni dopo. 

In Prima che te lo dicano altri è ricorrente il tema della luce. Nella parte ambientata in Argentina, ad esempio, si parla di una luce diversa: «la luce della pampa ingannava, esplodeva in un istante e spariva lentamente». Nella parte ambientata in Liguria, si può parlare quasi di un’assenza di luce. Mi viene in mente un Racconto di Calvino, Uomo dei gerbidi, dove è messo in risalto il contrasto tra luce e ombra, ma anche la luce biamontiana, una luce quasi creatrice di confini, in contrasto con le masse d’ombra, e i tramonti “color genziana”. Che ruolo ha la luce nei suoi romanzi?

Io vivo nel fondovalle, in un luogo talmente avaro che non ha neanche concesso un tramonto ai suoi abitanti. C’è il giorno e c’è la notte, è un po’ come la frontiera: o sei di qua o sei di là. Lì allora quella luce è soprattutto l’opaco. C’è il contrasto con quei tramonti lunghissimi e bellissimi che io ricordo dell’Argentina e del Mare del Nord d’estate.

Caro diario, ti racconto una serata al Sacher

«Sono le 20.38, che facciamo, cominciamo?». Con Carolina arriviamo al Cinema Nuovo Sacher per la proiezione di Caro diario e, dopo aver attraversato viale Trastevere senza mai prendere fiato, siamo comunque in ritardo. Corriamo per le scale alla ricerca del nostro posto in sala, e sì, con nostra sorpresa ci imbattiamo in Nanni Moretti impaziente di iniziare. Al nostro “buonasera” imbarazzato, ripete ancora una volta «Allora, incominciamo?», domanda che non sappiamo se interpretare come un invito o un rimprovero, per quel tono tra l’ironico e il nervoso che lo ha reso celebre.

In occasione del restauro in 4K di Caro diario, a cura della Cineteca di Bologna, sono state organizzate al Nuovo Sacher delle proiezioni introdotte dalla lettura da parte di Nanni Moretti di alcuni suoi diari, scritti tra il 27 aprile del 1992 e il 19 novembre 1993, settimana successiva all’uscita del film.

Assistere in questo cinema a una serata simile crea uno strano gioco di rimandi, tanto è sottile la linea che in Caro diario divide la vita dalla pellicola e la biografia di Nanni Moretti dalla costruzione del suo personaggio. Una linea che viene infine del tutto cancellata nella crudissima ripresa della chemioterapia nel terzo capitolo Medici.

Per noi, nate tra il ’93 e il ’94, questo film ha un significato particolare. Quando Chiara, un anno fa, si è trasferita al Villaggio Olimpico, le ho subito detto: «È uno dei quartieri che Nanni Moretti attraversa in vespa in Caro diario». Oggi che siamo qui, in questa stanza incastrata tra i platani di un quartiere nato per ospitare gli atleti delle Olimpiadi del 1960, penso che c’è un altro dettaglio che lega Nanni Moretti a questo luogo. Proprio qui infatti si trova il liceo Tito Lucrezio Caro, dove Nanni Moretti ha studiato, e qualche anno dopo anche io.

Il Ponte di Corso Francia che vediamo dalla finestra passa accanto alle case di questo quartiere e, attraversandolo, si ha per un momento l’impressione di entrarvi. In una scena del primo episodio del film, intitolato In vespa, vediamo Nanni Moretti sfrecciare sul viadotto, di cui parla così nelle pagine del suo diario: «Sarò malato ma io amo questo ponte. Ci devo passare almeno due volte al giorno». Questa passione, o forse sarebbe meglio dire ossessione per alcuni luoghi di Roma, è il tema centrale del primo capitolo. Tornarci spesso, soprattutto in quelli più amati come la Garbatella, è per lui rassicurante. Sarà per questo che ogni tanto sente il bisogno di spingersi oltre quelle zone già conosciute e raggiungere luoghi lontani e mitici come Spinaceto, quartiere che si nomina solo per parlarne male, o Casal Palocco, zona di villini in cui le persone si sono, a detta di Moretti, ingiustificatamente trasferite. Roma infatti negli anni Sessanta era bellissima e non c’era alcun motivo di abbandonarla.

Come quasi tutti in sala, ho visto così tante volte questo film da sapere quasi anticiparne le battute, ma quello che per me è nuovo, questa sera, è riconoscere per la prima volta i quartieri di Roma narrati con la musica di Leonard Cohen: il Villaggio Olimpico dove ho trovato una stanza in affitto, i Parioli da attraversare per arrivare in Accademia, Prati dove ho scoperto un piccolo cinema a cui mi sono affezionata. Anche se, durante questa permanenza romana, non sono ancora arrivata a spingermi fino a Spinaceto.

Dondolato dalle onde e quasi addormentato su un traghetto, Nanni Moretti dice: «Caro diario, sono felice solo in mare, nel tragitto tra un’isola che ho appena lasciato e un’altra che devo ancora raggiungere». Il secondo capitolo custodisce un altro frammento di esperienza, perché le Isole raccontate sono le stesse che hanno disegnato l’orizzonte della mia infanzia. Ancora oggi le Eolie osservate dalla costa sembrano ai miei occhi dischiudere una nuova promessa ogni estate. Ogni isola ha un carattere così forte e marcato da distinguersi nettamente da tutte le altre: appare sorprendente la capacità impressionistica di Moretti nel cogliere questi tratti specifici e nel trasformarli in “tipi”, come descritto nei suoi diari.

Una volta che ho avuto il coraggio di rimanere a Panarea più di quanto Nanni e l’amico Renato Carpentieri non facciano, terrorizzati dalla “festa in omaggio al cattivo gusto”, ho trovato su una bancarella uno splendido libro fotografico di Caro diario. Sembra quasi che questo film, catturando un po’ della luce e degli odori di questi luoghi, abbia per sempre inciso sull’immaginario che li circonda. E forse chi li abita sorride nel riconoscersi nel “nervosismo dovuto alla presenza del vulcano”, o quando si accorge di quanti bambini ci siano effettivamente a Salina.

Mentre guardo Caro diario per l’ennesima volta cerco di afferrare quale sia il segreto di questo film e in generale di Nanni Moretti. Intanto, penso come prima cosa, la capacità di aver dato voce alle proprie ossessioni, rendendole manifeste, invece di reprimerle. E questa pellicola, in quanto contemporaneamente risultato e processo di un lavoro diaristico, è forse l’emblema del modo di Moretti di concepire i propri film.

C’è un filo che lega le varie parti della filmografia morettiana che, come la vespa blu, si aggroviglia tra le case. In Caro diario sentiamo Moretti dire: «Che bello sarebbe un film fatto solo di case», e forse questa velleità si è realizzata nella sua ultima pellicola, Tre piani, di cui rimaniamo in attesa.

Caro Diario: la trama e le migliori scene del premiato cult di Nanni Moretti

Appena terminata la proiezione, continuiamo a discutere del film mentre camminiamo per Trastevere, fin quando un ragazzo non si avvicina e ci domanda con accento straniero: «Scusate, sapete indicarmi dov’è Piazza di Spagna?». Ha un sorriso gentile e familiare, un fascino quasi cinematografico.

Per fortuna Carolina conosce bene le strade e parla anche francese. Quasi come fossimo catapultate in una scena di Caro diario – quella in cui Nanni Moretti incontra Jennifer Beals – ci rendiamo conto di essere state appena fermate da Louis Garrel.

Ma non facciamo in tempo a realizzarlo, che già è sfrecciato verso il Centro: ventisette anni dopo l’uscita di Caro diario, non con una vespa, ma in monopattino.

Articolo di Carolina Germini e Chiara Molinari

La struttura e il tema di Caro diario hanno molti punti in comune con il taglio e l’idea della nostra rivista. Il film è diviso in tre episodi, legati dalla biografia di Nanni Moretti, e così anche noi abbiamo declinato in tre parti il nostro modo di osservare la città: attraverso i luoghi, la cultura e le persone che la abitano, colti in un unico movimento. Come Moretti in vespa, con i nostri articoli ci muoviamo tra gli spazi degli edifici, cercando di cogliere le trasformazioni urbane, convinti che i luoghi siano l’espressione più viva e autentica del vissuto storico e culturale della nostra società.

Il nuovo mondo del Black Mountain College

Nella contea di Buncombe, Carolina del Nord, nel 1933 ha inizio una delle esperienze collettive più illuminanti degli Stati Uniti d’America, che varca i confini geografici e si connette al fermento creativo d’Europa. Sui monti Blue Ridge, John Andrew Rice getta le basi di una nuova tipologia di scuola, un college dove l’arte si afferma in quanto presupposto fondamentale di un rinnovato stile di vita. 

Il Black Mountain College propone un sistema educativo progressista fondato sulle teorie di John Dewey, con una formazione accademica che prevede la piena autonomia decisionale dello studente; regna la volontà di garantire un accesso democratico alla formazione superiore e di assicurare la presenza di un ambiente accogliente e innovativo, dedicato alla ricerca e allo studio interdisciplinare e cooperativo, eliminando del tutto le tasse universitarie, gli esami, i voti e le usuali gerarchie accademiche. 

Il Black Mountain College può essere definito un’esperienza collettiva piuttosto che un luogo, dal momento che non è la collocazione geografica a definirne la natura. La scuola nasce come naturale aggregazione di personalità dall’estrazione sociale e dall’appartenenza culturale del tutto differenti, diviene una comunità di individui che si associa al solo scopo di convivere e condividere lo studio delle arti nel rispetto delle libertà e autonomie proprie e altrui, e diviene approdo di chi cerca un’alternativa agli stilemi della società borghese, che relegano la cultura al ruolo strumentale di forgiatrice di lavoratori e contribuenti della società civile.

Presso il Black Mountain le giornate vengono scandite dalle arti applicate e performative, percepite come differenti aspetti di un’unica esperienza individuale che coincide in toto con l’Arte. L’idea è mutuata dal pensiero di Dewey, ben espresso in Arte come esperienza. Differenti discipline artistiche sono ricondotte a una sola modalità di esperienza, riassumibile nella formula «l’arte in quanto esperienza estesa». L’estetico appartiene al vissuto quotidiano, dunque le attività didattiche del college divengono ricerca e sperimentazione costante, non confinata alle sole aule di studio.

La commistione tra la proposta filosofica di Dewey e il sogno di una libera comunità di artisti e studenti sostenuta da Rice conquista in silenzio il suo posto nella storia americana, influenzando irrimediabilmente l’arte contemporanea. La prima sede del college è negli edifici della Young Men’s Christian Association, nella plumbea e conservatrice provincia statunitense; ironicamente, è proprio presso la sede di un’organizzazione cristiana ecumenica che cresce un movimento volto a mettere in discussione ogni forma di istituzione sociale e culturale, abbattere ogni forma di gerarchia e pregiudizio di genere, assestando una sferzata al conservatorismo benpensante. 

In Europa, sempre a partire dal ’33, si assiste al progressivo inasprimento delle persecuzioni ai danni di intellettuali e artisti, un’epurazione culturale che vede il suo epicentro in una Germania sempre più reazionaria dove domina l’ascesa del partito nazionalsocialista; l’emblema della censura diverrà la definitiva chiusura del Bauhaus, simbolo delle avanguardie europee alle quali gli artisti del Black Mountain faranno spesso riferimento, tanto da assumere come insegnanti due dei maggiori rappresentanti del modernismo e della scuola di Weimar, Anni Fleischmann e Josef Albers. I due artisti gestiscono presso il Black Mountain College due laboratori, rispettivamente un laboratorio di tessitura e uno di pittura; le attività si svolgono con una costante influenza reciproca e introducono gli studenti alla semplificazione della composizione che i due  adottano nella arti applicate, giungendo a ridurre l’opera tessile e pittorica all’assoluta purezza cromatica.

All’insegna della costante collaborazione e condivisione tra gli artisti che abitarono il Black Mountain, rivoluzionaria è la fusione performativa che ha luogo presso il college nell’estate del ’52, con esibizioni combinate che vedono la collaborazione tra alcuni dei più innovativi artisti del Ventesimo secolo.

Tra le personalità più influenti dell’arte contemporanea, un ruolo di preminenza è rivestito da John Cage, che presso il Black Mountain immagina due delle sue produzioni più incisive: 4:33’’ e Theater Piece n.1

Entrambi i lavori segnano una svolta in seno alle arti performative: la performance viene ripensata dal punto di vista sonoro e spaziale, con un decisivo cambiamento della messa in scena. In 4:33” il silenzio diviene protagonista per 4 minuti e 33 secondi: il musicista non esegue alcun brano, lasciando che sia il suono della sala e il rumore prodotto dal tossire e dal vociare del pubblico a emergere. Il lavoro di Cage nasce dalla visione dei White Paintings di Raushemberg: il compositore propone l’opera pittorica in chiave performativa, realizzando una perfetta continuità tra il piano sonoro e il piano pittorico; in entrambi i casi l’opera diviene un medium che veicola la manifestazione del dinamismo del quotidiano, del gioco di luci e ombre che si alternano sui dipinti e del naturale vociare prodotto dai fruitori nella stanza che accoglie la performance di Cage.

Con Theatre Piece n.1 viene messa in scena un’opera molto ricca, che dà vita a diversi livelli di lettura, coinvolge molteplici artisti e discipline, e scompone lo spazio di esecuzione e fruizione. L’opera nasce dal dialogo costante tra le arti di John Cage e Merce Cunningham, compagni di vita e di ricerca che nel corso dell’indagine condotta nelle arti performative giungono a ridefinire il ruolo dell’atto creativo, liberandolo dalla necessità della narrazione, dal valore simbolico, dall’espressività e dal legame tra forma e contenuto; per Cage la musica diviene evento del quotidiano, abbraccia ogni elemento nel suo caos, diviene essa stessa evento casuale, senza distinzione tra armonia compositiva e rumore ordinario. Nella ricerca di Cunningham la danza diviene puro gesto eseguito dal corpo nella sua interazione con lo spazio, nella tensione corporea che si accompagna al ritmo sonoro, in un rapporto privo di referenzialità reciproca e intenzionalità espressiva. 

Theatre Piece n.1 viene messo in scena nel refettorio del Black Mountain, in cui si assiste per la prima volta a quel che Kaprow qualche anno più tardi definirà happening; l’opera ideata da Cage si presenta come un accadimento in tempo reale di arte visiva, danza, poesia e musica: in un flusso temporale continuo, limitato solo da un tempo scandito in time brackets da Cage, si sovrappongono letture di testi di Eckart, passi di danza improvvisati da Merce Cunningham, letture di testi di Charles Olson e Caroline Richards accompagnati al piano da Tudor e la visione dei White Paintings di Rauschenberg e diapositive proiettate alle pareti. 

Theatre Piece n.1 è tra le opere più esplicative non solo della rivoluzione del concetto di arte operata dai suoi autori, ma dello spirito intero di un luogo e di un’esperienza unica quale fu quella del Black Mountain College, che pure ebbe vita breve. In seguito alle difficoltà economiche, chiuse definitivamente nel 1957, ma lasciò un’eredità artistica irripetibile nel suo genere, mostrando la concreta possibilità di costruire non solo un modello scolastico nuovo, ma una forma di società alternativa.

Pagliacci in città: i clown di Heinrich Böll e Todd Phillips

Una sera della scorsa estate, non ricordo né dove né perché, insieme ad alcuni amici siamo finiti a parlare di Opinioni di un clown. Appena rincasato, questo sì che lo ricordo, sono andato al terzo ripiano della mia libreria. Mondadori, 1979. Traduzione di Amina Pandolfi. La caduta di George Grosz in copertina. Era proprio l’edizione – trafugata dalla casa di qualche parente – in cui l’avevo letto prima al ginnasio e poi a ventisette anni, per prepararmi a un viaggio in Germania. Jack in the book: dalle pagine di Böll è saltato fuori… Joker.

Non ci credete? Sentite qua: «Mi guardai nello specchio: i miei occhi erano completamente vuoti, per la prima volta non avevo bisogno di fissarmi allo specchio per una mezz’ora e fare ginnastica facciale per svuotarli. Era il volto di un suicida e quando cominciai a truccarmi il mio volto era il volto di un morto. Mi spalmai la faccia di vaselina e spezzai un vecchio tubo di biacca mezzo secco, ne spremetti fuori tutto quello che c’era ancora dentro e mi stesi la biacca su tutta la faccia: non un solo segno nero, non un punto rosso, tutto bianco, anche le sopracciglia ricoperte di bianco; sotto tutto quel bianco i capelli sembravano una parrucca, la bocca, pulita, era scura, quasi bluastra, gli occhi azzurri come un cielo di pietra, vuoti come quelli di un cardinale che non vuole confessare neppure a se stesso di aver già perso la fede da molto tempo. Non avevo neppure paura di me stesso».

Hans Schnier, il clown protagonista del romanzo di Böll, è un fratello minore del primo Joker – antieroe fumettistico della Dc Comics che comparve per la prima volta ottant’anni fa, nel 1940 – ed è un fratello maggiore del Joker più recente, quello di Joaquin Phoenix e Todd Philipps. Se pensiamo alla pellicola del 2019, leggere certe pagine di Opinioni di un clown diventa un’operazione continua di rinvii e travasi. Hans ricorda Arthur Fleck nei movimenti tristi e baldanzosi del corpo e del pensiero, nelle grottesche pantomime, nella solitudine. Hans ricorda Arthur quando sostiene che ciascuno di noi si porta al collo o sul petto le onorificenze dei propri momenti eroici (e questo aggrapparsi al passato, dice, «è l’ipocrisia»). Ricorda Arthur quando ammette di aver commesso la colpa più grave per un clown: suscitare pietà. Lo ricorda persino quando dal suo balcone al quinto piano cerca invano lo scintillio del marco che ha gettato giù nella strada, e di punto in bianco si mette a pensare se sia meglio essere cattolico o luterano. C’è di più. Fleck vive la fine di un amore, quello per sua madre, mentre Schnier è stato piantato da una donna che ha il nome di tutte le madri: Maria.

Marienkirche in Bonn mit Häusern und Schornstein – August Macke

La città in cui si svolge Opinioni di un clown è Bonn. Luci basse, case vuote di voci e piene di una desolazione che i personaggi di Böll sembrano perseguire intenzionalmente. È soprattutto nelle scene d’interni che questa Germania post-bellica raccontata dall’Ovest somiglia alla distopica Gotham/New York City di Todd Phillips. Il cicaleccio del mondo esterno risuona nella mente del protagonista durante le sue colazioni solitarie, e i monologhi sostituiscono i dialoghi. «Si parla di katholon, di stato corporativo, della pena di morte che richiama negli occhi della signora Blothert uno scintillio così strano e alza la sua voce a stridule sonorità in cui il riso e il pianto si mescolano in maniera lasciva. Hai tentato di consolarti con lo stantio cinismo di sinistra di Fredebeul: inutilmente. Inutilmente avrai cercato di arrabbiarti dello stantio cinismo di destra di Blothert. C’è una bella parola: niente. Non al Kanzler o al katholon, pensa al clown che piange nella vasca da bagno, al caffè che gli sgocciola sulle pantofole».

Messo alle strette, quando suo fratello Leo gli chiede: «Ma che tipo di uomo sei, in conclusione?», Hans Schnier risponde: «Sono un clown e faccio raccolta di attimi». Far ridere è una questione di istanti, sembra dirci il personaggio di Böll. L’attimo è l’unità di misura dell’esibizione di un giullare, è quando il clown accende la miccia con una smorfia o una battuta, proprio come fa Joker in alcune delle sue più celebri apparizioni prima del film di Phillips, rivelandosi una bomba di comicità perturbante, pronta a esplodere in ogni momento e con gente di ogni età. Fa ridere quando dice: «Non rubare la barbara in barba al barbaro» nel Batman di Tim Burton; fa ridere in The Killing Joke quando dalla sua pistola esce una bandierina o quando racconta la barzelletta, spaventosa quanto spassosa, che chiude il fumetto; fa ridere persino con la faccia mefistofelica di Heath Ledger. «Quello là con i capelli verdi» ridacchia la mia nipotina di tre anni, mentre appiccichiamo le figurine sull’album Panini di Batman.

Joker non stanca e non si esaurisce dal 1940. Non è riuscito a darne una versione definitiva nemmeno Jack Nicholson, uno che quando interpreta un personaggio lo immortala. Riuscireste a immaginare Randle McMurphy o Jack Torrance con una faccia diversa? Eppure i protagonisti di Qualcuno volò sul nido del cuculo e di Shining mica li hanno inventati Milos Forman, Kubrick, i loro sceneggiatori; nossignori: si tratta di personaggi che avevano già una bella fetta di vita quando Nicholson si fece carico di loro, erano creazioni uscite dalla penna di gente come Ken Keasey e Stephen King, accidenti. Ma non hanno avuto scampo: l’attore di Neptune City ha vinto su di loro. Joker invece ce l’ha fatta, è sopravvissuto anche al ghigno di Jack.

Capelli verdi, risata incisa nella pelle, capace di divertirsi fino a ridicolizzare qualsiasi posizione etica. Non ce n’è per nessuno, non può esistere un altro cattivo così. Eppure, c’è stato un buono simile a lui nella storia della letteratura: Hans Schnier. Un figlio di ricchi industriali del carbone che decide di diventare clown perché sua madre, quando lui era bambino, riteneva i palloncini di gomma «un vero e proprio spreco». Un tedesco che ha qualche opinione, nessuna tesi, e rifiuta il precetto moralistico-protestante di costruire il proprio avvenire («prendi in mano il tuo destino, vinci le difficoltà con le tue forze»: questi sono gli inviti che i genitori rivolgono più volte ad Hans nel corso del romanzo e che lui puntualmente rifiuta).

Schnier e Joker rappresentano due modi diversi di usare la stessa maschera e di prendere la vita come una beffa: giullare triste con la lacrima all’occhio uno, pagliaccio psycho col ghigno sotto al naso l’altro. La storia di Hans finirà con l’improvvisazione di un numero in strada durante il Sabato di Carnevale – «tempo della follia» scriverà Böll nell’ultima pagina del romanzo, l’unico giorno in cui non è solo accettabile, ma quasi doveroso che tutti si vestano da buffoni e si atteggino a tali. Catarsi o carnevalata?

Il finale del Joker di Phillips ci pone davanti alla stessa domanda. Gotham a ferro e fuoco, le maschere che si moltiplicano, poi il manicomio – luogo della follia. È tutta una celebrazione dell’Arlecchino più irriverente e scioperato che si sia mai visto: un pagliaccio con il volto di un suicida, di un morto, di chi non ha paura nemmeno di sé stesso, dissacrante fino al crimine, senza regole e col grilletto facile. Catarsi o carnevalata? Gli abitanti di Gotham proclamano in un tripudio di teppismo e travestimento che Joker è diventato un’icona tra glamour e devozione. Perché? Forse per via del modo in cui sfida la sorte. Il jolly psicopatico è un compagno tragicomico e pazzoide del cavaliere scacchista di Bergman. Trovandosi di fronte alla morte, lui gioca a carte. «Pescane una dal mazzo» le dice. «Se è rossa mi salvo, se è nera hai vinto. Ma pescala tu». L’arcinemico di Batman è stato raccontato o come un degenere o come uno illuminato dalla pazzia, o come un gangster o come un no-global, talvolta barzellettiere altre profeta, ora maschera di un sistema di potere impazzito, ora voce degli ultimi e dei reietti. Ma se quello là con i capelli verdi ci piace tanto è soprattutto perché in lui riconosciamo l’uomo che, come massima forma di autodeterminazione, sceglie di affidarsi al caso.

Che pagliacciata, vero?

Frammenti di città: “Napùl” di Marco Perillo

Quest’estate a Napoli avevo con me una copia di Napùl dello scrittore e giornalista Marco Perillo. In quei giorni però stavo già leggendo Le correzioni di Jonathan Franzen, più mossa da un obbligo morale verso quel libro che per tutti andava assolutamente letto che da un vero desiderio. Ma l’atmosfera un po’ cupa delle prime pagine in contrasto con il sole di quella mattinata a Posillipo mi ha spinta a cambiare. E così ho iniziato Napùl, assecondando l’abitudine che ho da sempre di leggere le opere nei luoghi in cui sono ambientate. E non me ne sono pentita. Anzi. Quando ho lasciato Napoli non avevo ancora finito di leggerlo, ma i rumori assordanti dei motorini, che sfrecciano nel traffico di Corso Umberto I, mi rimbombavano ancora in testa così come la confusione di Forcella e la luce del sole che «scavalcò la gobba del Vesuvio per andare a scetare il mare».

Questa raccolta di quindici racconti ha la capacità non solo di risvegliare in chi è stato a Napoli sensazioni già vissute ma anche di accogliere il lettore nella città come fosse una religione o un rito a cui essere iniziati. 

Foto di Marco Perillo

Questo libro, come il titolo suggerisce, racconta l’incontro tra due mondi, la città di Napoli e le atmosfere orientali. Questo avviene soprattutto nell’ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, in cui Napoli viene definita «terra araba». In cosa consiste la somiglianza tra queste due realtà?

Napoli non è per nulla una città come le altre. È la sintesi di una stratificazione storica che va dai Greci ai giorni nostri, passando per le influenze di dominazioni straniere come quella francese o spagnola, ed anche araba, visto che la lingua napoletana è piena di parole che hanno tale derivazione. Napoli, non dimentichiamolo, è una città perennemente a cavallo tra Occidente e Oriente; se ne ha la percezione non appena vi si giunge con il treno, approdando a piazza Garibaldi. Una città, per certi versi, molto più simile ad una Gerusalemme o ad una Beirut, che non alle grandi capitali europee – anche se fino al 1860 è stata una di queste. È una città, negli ultimi tempi, risultata molto più vicina a Kabul – da cui il titolo, che è una crasi tra Napoli e appunto Kabul – che non ad una tranquilla realtà italiana. Una città in guerra, dunque. In emergenza continua, in battaglia, sotto bombardamento. Una città dilaniata dal suo male oscuro, quella criminalità ramificata in molte zone che è frutto del dolente passato della metropoli. Ai tempi del terrorismo islamico le cronache hanno evidenziato come Napoli sia stata spesso un crocevia – in termini di traffico d’armi, soldi o documenti falsi – per coloro che hanno messo a ferro e fuoco Parigi, Bruxelles o Berlino. Non solo, fenomeni come le “stese”, vere e proprie sparatorie in aria, in pieno giorno, per le strade, con l’unico scopo di una dimostrazione di forza, sono additabili come vero e proprio terrorismo. L’osmosi con l’estremismo islamico si completa quando alcuni gruppi di camorra hanno assunto l’aspetto estetico – pensiamo alle barbe – dei jihadisti. Nell’ultimo racconto immagino un giovane napoletano che per necessità diventa un foreign fighter per Al Qaeda. L’ho scritto molti anni prima che ciò si verificasse davvero, basti pensare alla  ragazza campana che si faceva chiamare Fatima e che inneggiava alla Guerra Santa: uno di quei casi straordinari in cui la  scrittura ci vede lungo e la narrativa anticipa i tempi. 

Napùl somiglia più ad una mappa che ad una raccolta di racconti. Si ha l’impressione di spostarsi continuamente da un luogo all’altro, come se si attraversasse la città. Avevi in mente, scrivendolo, di far vivere al lettore questo movimento?

Esattamente. Il mio  in fondo è  un lavoro costruito come una città: non è soltanto una raccolta di racconti, ma una città narrativa, in cui i racconti sono come veri e propri capitoli. C’è sempre qualche situazione che ritorna, qualche personaggio che si riaffaccia, qualche fil rouge tra una vicenda e l’altra, e ogni capitolo-racconto ha il nome di un quartiere, di una piazza, di una strada, che è altamente evocativo di ciò che accadrà. Per esempio, Anticaglia è la rievocazione di un antico mito ellenico in chiave contemporanea; Concezione è la storia di una ragazza che concepisce un figlio che non potrà mantenere e penserà di vendere ad altri. E così via. 

Foto di Marco Perillo

I racconti di questa raccolta sono come tessere che, incastrate tra loro, danno vita al mosaico della città di Napoli. Eppure, ogni tessera sembra formare un mosaico a sé, come se la diversità tra i quartieri di Napoli creasse più città in una. È così?

Sì, in effetti Napoli è formata da quartieri che sono come paesi piuttosto diversi tra loro. Pensiamo al Rione Sanità, una vera e propria Napoli nella Napoli. A Forcella, una sorta di kasbah orientale coi suoi problemi atavici, così diversa dalla nobile e decadente Posillipo o da Scampia, con i suoi moderni palazzoni abbandonati al loro triste destino. A supporto di ciò che sto dicendo, basti pensare che quartieri come San Pietro a Patierno, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio, Chiaiano, un tempo erano davvero paesi a sé stanti, inglobati nella città soltanto all’epoca del fascismo. Ecco anche perché Napoli è una città-mondo, una fucina di storie che non sono solo quelle dei suoi abitanti autoctoni, ma anche dei tanti stranieri che la popolano. Una città dalle contraddizioni perenni, dai mille chiaroscuri, che non si può capire se non provando a raccontarla. 

Il racconto Anticaglia, che apre la raccolta, mi sembra rappresenti un mondo a sé rispetto agli altri, come se fosse una porta magica che il lettore deve attraversare per essere iniziato al mondo esoterico di Napoli. È così? Qual è il rapporto di Napoli con la magia?

È proprio così, ed è ciò che lega questa mia opera narrativa con i vari saggi sulla città dai connotati storico-artistici-leggendari che ho scritto per la Newton Comptonn negli ultimi anni. Ma, al di là di questo, non vi poteva essere introduzione migliore: Napoli è la città del mistero, dell’esoterismo, del buio misto alla luce. Tutto nasce dal fatto che è una città fortemente energetica, vicina a potentissimi vulcani, dove i quattro elementi della natura si ritrovano insieme e fanno esplodere tutte le loro forze. Lo sapevano bene gli egizi alessandrini che nel I secolo d. C. vennero ad abitare nella zona del centro storico importando le loro usanze, tra cui le arti magiche. Non è un caso che la protagonista del racconto sia soprannominata Cleopatra. Si parla di «triangolo esoterico» nel cuore del centro antico, lì dove c’era il tempio di Iside e dove sorge il luogo più esoterico – e più affasciante – in assoluto: la cappella Sansevero. Napoli è anche città di fantasmi, di sangue dei santi che si scioglie senza spiegazioni scientifiche, di benefiche presenze casalinghe che ricordano i Lares romani. C’è poco da fare: Napoli è una città intrisa di magia. 

In nessuno dei racconti compare mai la Napoli sotterranea, ad accezione del teatro romano di Neapolis, eppure sembra che questa viva nei personaggi, come se l’avessero interiorizzata. Anche loro come Napoli hanno sempre un aspetto più profondo, nascosto. Come influenza la loro vita la presenza di questa seconda città?

La Napoli sotterranea è un grembo materno, una sorta di rassicurazione data dal fatto di poter sempre avere un rifugio, come accadde durante la Seconda Guerra Mondiale, quando le cavità protessero i napoletani dalle bombe e da un conflitto a tutti gli effetti e ancora più drammatico di quello d’oggi. È un rapporto naturale, poiché il tufo col quale sono fatti i palazzi della città venne estratto proprio dal suo ventre. Eppure, allo stesso tempo, la Napoli sotterranea fa paura. È il luogo dell’ignoto, del negativo, del vuoto, un labirinto in cui ci si può perdere e non tornare più. In poche parole, è la metafora perfetta della duplicità della città, dove bene e male, solarità e ombre si alternano e si rincorrono; é la città degli ibridi come le sirene, dei duplici come i Dioscuri, dei contrasti come i bianchi e i neri della maschera di Pulcinella. Il paradiso abitato dai diavoli, come si è detto, a giusta ragione, per secoli. 

Foto di Marco Perillo

Leggendo Napùl si ha la sensazione che Napoli sia più grande di chi la abita, intendo dire che la presenza della città è talmente forte da schiacciare i suoi cittadini, come se non reggessero il peso della sua forza, al punto che c’è una totale contaminazione tra persone e luoghi. Penso a quando scrivi nel primo racconto che il gallerista ha il naso più grande di una campana di Santa Chiara.

Credo sia proprio così o almeno lo è per me, che sono ossessionato da questa città che rappresenta una tela di Penelope da fare e disfare ogni volta, un enigma enorme di cui non è possibile trovare la soluzione. Uno stimolo alla ricerca ma anche un buon viatico per diventare folli, se non si posseggono le chiavi interpretative per comprendere la città. Ho cercato quanto più possibile di narrare storie, di renderle universali, di sottolineare vicende umane talvolta ai limiti della realtà. Eppure, alla fine ciò che emerge prepotentemente è la città, la sua ambientazione, le sue atmosfere, le sue sfumature. 

Foto di Marco Perillo

Oltre all’identificazione delle persone con i luoghi, come nella descrizione «Sporco e zozzo era il centro storico, così simile a lei. Palazzi sgarrupati, uno sull’altro, senz’aria, a ricordare i suoi capelli», mi sembra che questo fenomeno avvenga anche all’inverso: la città tende a somigliare ai napoletani. Penso all’immagine iniziale del primo racconto in cui scrivi che il sole sembra fare di testa sua.

Sono d’accordo, la città è così potente che domina su tutto. La sua identità è inestricabile. E non è la sola al mondo. Penso a New York, che si trova sul suo stesso parallelo. Come fai a parlare dei suoi abitanti senza che la sua bellezza, il suo richiamo, balzi subito all’occhio? Ed è così con Partenope. È tutt’uno con chi la abita e viceversa. C’è un invisibile cordone ombelicale che lega tutto: la lingua, la musicalità, la gastronomia, il convivere con la precarietà dovuta a un vulcano, l’appellarsi ad entità superiori o invisibili per cercare di cavarsela. Tutto questo è Napoli. Ed è per questo che non si possono raccontare i napoletani senza raccontare, fin dentro al suo midollo, la città. 

L’uso del napoletano aiuta molto il lettore ad immergersi nelle atmosfere descritte e ad empatizzare con i personaggi, come succede anche leggendo Camilleri. Qual è il tuo rapporto con la lingua napoletana e come lo vivi attraverso la scrittura?

Questa forse è la caratteristica più importante di Napùl, apprezzata persino dai lettori geograficamente più lontani: un mix di napoletano e italiano, reso sia dal punto di vista fonetico che delle strutture grammaticali. Come nel caso di Camilleri, non importa che qualcosa non si capisca. Basta il ritmo, la musicalità, il lasciarsi andare, poi tutto si riannoda. Sono contento che tutto questo arrivi, si percepisca e lo si veda come un valore aggiunto dell’opera. Scrivendo di Napoli non potevo non tener conto della sua fonetica, delle sue inflessioni. Hai detto benissimo: lingua e non dialetto, con una sua dignità, le sue regole, le sue parole che derivano dallo spagnolo, dal greco, dal latino, dal francese, dall’arabo. Una lingua che è stata persino ufficiale fino alla caduta del Regno delle Due Sicilie: una lingua fortemente identitaria, tanto che per noi napoletani è ancora la prima lingua, quella che parliamo più spesso: si pensa in napoletano, si ragiona in napoletano. È una forma mentis, è una melodia antica, stratificata come la città. E pensare che c’è ancora qualcuno che si vergogna di parlarlo, che lo identifica come qualcosa di troppo popolare, di cafone! Non è così: la lingua napoletana è nobilissima. Come altrettanto nobile è la città.

La struttura di Napùl ricorda molto il taglio della nostra rivista, in cui città, cultura e luoghi vengono afferrati insieme e raccontati in un unico movimento. Pensi ci sia bisogno oggi di riconnettere questi tre elementi?

Assolutamente sì. L’ho vissuto sulla mia pelle. Quand’ero ragazzino amavo fare lunghe passeggiate per la città che un giorno avrei raccontato. Notavo bellezze semidistrutte – quante ve ne sono ancora –, oltraggiate dai rifiuti, dalla dimenticanza, da un voluto degrado, dalla disorganizzazione. Quanti posti meravigliosi chiusi e caduti nell’oblio, penso al cimitero delle Fontanelle. Eppure, nel tempo, anche grazie all’avvento dei social e del turismo low cost, i turisti si sono riversati a Napoli, l’hanno premiata, l’hanno amata, apprezzata, le guide hanno lavorato come non mai e non è un caso che ogni anno mi sia stato commissionato un saggio sulle bellezze storico-culturali della città. Perché solo capendo cosa si cela d’importante e profondo dietro le pietre, si riesce a riscoprire la loro importanza. Solo svelando le storie le stesse pietre sono in grado di parlare, di assumere valore, fascino. A Napoli c’è una scacchiera in marmo bianco di epoca romana incastonata in un antico campanile, quello della Pietrasanta. Essa è perennemente imbrattata dai writers perché non sanno di cosa si tratti. Eppure, se lo sapessero, la rispetterebbero. In ogni caso,  lo stretto legame fra città, luoghi e cultura, per quanto riguarda la mia esperienza, un po’ mi ha premiato. Nel corso di una delle mie presentazioni un’adolescente si alza e mi ringrazia, dicendo che prima odiava Napoli, credendo che fosse un luogo che non offrisse nulla, da cui fuggire al più presto. E invece, dopo aver letto ciò che scrivevo, insieme con me ha tolto il velo e ha potuto vedere la bellezza nascosta. Oggi non vuole più andarsene via. 

Fancy Meter

Oggi, Monica, è lunedì, il lunedì successivo alla Pasqua, lunedì in Albis. Tanti anni fa si festeggiava questo giorno a Caserta, la nostra città. 

Nel parco della reggia vanvitelliana, i contadini, gli operai, i borghesi venivano a migliaia. Ti ricordi? Si pranzava sull’erba, nei boschetti, nei prati e lungo le straordinarie vie d’acqua, alternate dalle famose fontane con i complessi scultorei: quelle dei delfini, di Eolo, di Cerere, di Venere e Adone e quella meravigliosa di Diana e Atteone. Si giocava, si amoreggiava,  si cantava e anche i vecchi saltellavano allegri al suono delle fisarmoniche. Tu eri bambina,  questo accadeva tanti anni fa.

Ora mi trovo rinchiuso in una strana cella, senza finestre, con le pareti, il pavimento ed il soffitto rivestiti di mattonelle bianche. Una lampada al neon è rimasta accesa sempre da quando sono qui. II mobilio è proprio essenziale: uno sgabello di metallo, sul quale sono seduto, e un piccolo tavolo anch’esso di metallo smaltato, come quelli degli ospedali. Se non ho sbagliato i conti, oggi fanno nove giorni che mi trovo in questo luogo senza sentire e vedere anima viva. Sono completamente nudo, ma non ho freddo né caldo e nemmeno il bisogno di bere o di mangiare.


Quando sono stato rinchiuso qui, ho trovato sul tavolo una scatolina con 18 pastiglie gialle. Le istruzioni dicono che devo ingoiarne due al giorno e che due pastiglie contengono le sostanze necessarie al nutrimento completo di un uomo adulto. Ne devo ingoiare una, appena sento gli stimoli della fame o della sete e questo mi dice, peraltro, che sono passate dodici ore. Mi sono attenuto scrupolosamente alle regole e oggi ho ingoiato le ultime due. Devo, perciò ritenere che questo sia l’ultimo giorno di carcerazione.


Avevo letto, tempo fa, su un vecchio libro, il pensiero di un filosofo, il quale sosteneva che l’unico modo per non perdere l’identità, per uno che si trovasse in una situazione analoga alla mia, fosse la conta dei secondi, dei minuti e delle ore. Ho contato fino a 60 e ho segnato su un foglio un’asticella per significare un minuto; 60 asticelle, un’ora, che ho segnato con un cerchietto, 24 cerchietti, un giorno (i giorni li avrei segnati con un asterisco), ma non ci sono arrivato a segnare un giorno. Non potevo avere altri pensieri, i numeri invadevano completamente il campo cognitivo; finché mi è balenata l’idea che stessi perseguendo una duplice follia: quella del filosofo e la mia. Così ho smesso. Ho perduto le coordinate spaziali e temporali, ma forse, almeno per il momento, non sono impazzito. O forse sì e non me ne accorgo, non so dirti. In ogni modo, fui rinchiuso alle 10 del mattino e questo, stando alle pasticche, che sono l’unico riferimento, dovrebbe essere il nono giorno.


Quando sono entrato qui ho trovato sul tavolo una penna ed una risma di fogli. La cosa mi ha destato meraviglia. Mi sono chiesto come mai ci permettessero di scrivere e, anzi, ci invitassero a farlo; non ho ancora una spiegazione, però mi è stato di grande conforto pensare che, in qualche modo, potessi rivolgermi a te; anche se,  non ho idea del come sarebbe possibile spedirti questa mia lettera.

Io fui arrestato domenica 13 aprile, la domenica delle palme, alle sette del mattino, sorpreso in casa, mentre ero ancora a letto, come in un romanzo di Kafka. Ma forse è bene che ti racconti con ordine. Qualche mese dopo la tua partenza, il nuovo Potere rese pubbliche, attraverso la televisione ed i manifesti murali, le ragioni dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Un mistero che era rimasto insoluto per molti anni. Dopo una settimana, in una sola notte, furono massacrati tutti i poeti, gli scrittori, gli attori, i musicisti e tutti gli artisti le cui opere avessero avuto una qualche risonanza  nel nostro Paese. Mi pare che, in quella circostanza, furono fucilate, solo da noi, a Caserta, 78 persone: 46 uomini e 32 donne. Questo, ripeto, avvenne in una sola notte. Furono assassinate in periferia, in quella zona, detta del Macello (ironia della sorte). Seguì una lunga campagna pubblicitaria, nella quale furono impiegati tutti i mezzi di comunicazione di massa per spiegare ad ogni cittadino l’inderogabile necessità del massacro. L’eliminazione degli artisti, si disse, era stata dettata dalla volontà di purificare il Paese dalla fantasia, fonte di degradazione morale e grave ostacolo per la produttività.


Nel gennaio scorso furono installati i fancy meter. Penso che tu ne abbia sentito parlare. I fancy meter sono apparecchi che possono captare le onde cerebrali emesse dai neuroni subcorticali. Pare che tale energia del cervello venga sprigionata nel momento in cui un individuo si accinge ad un’operazione creativa. I fancy meter registrano quest’energia e ne misurano il grado. Ne furono installati molti, quasi in ogni strada, specialmente nei centri abitati, ma io ne ho visti alcuni anche all’aperto in piena campagna.

In verità, dopo l’installazione dei fancy meter, non successe niente per alcuni mesi e, oramai, nessuno credeva più alla storia che potessero captare le onde cerebrali anche a distanza di 200 metri. Per un po’ di tempo non ci furono uccisioni, né arresti e credo che ogni artista avesse ripreso, segretamente, il proprio lavoro. E anch’io avevo ripreso quel progetto di sceneggiatura su “II cantico del Gallo Silvestre”, di cui avevamo discusso insieme. Sennonché, domenica, alle sette del mattino, come ti ho detto, fui arrestato. Le guardie si mostrarono gentili: mi dissero subito che ero sospettato di attività creativa, mi permisero di vestirmi con comodo e, perfino, di prendere il caffè. Fui portato con un furgoncino al Liceo Classico Pietro Giannone. Sì, proprio il Liceo che avevi frequentato tu anni prima è stato requisito e utilizzato per i processi. Ma più che di processo si è trattato di una specie di esame.


Fui condotto in un’aula, dove mi ordinarono di spogliarmi velocemente, poi subito mi fecero entrare in una sala d’attesa. Qui c’erano altri quattro uomini nudi: un fotografo, un pittore ed un giovane, poco più di un ragazzo, chitarrista, affetto da una forma ossessiva di onanismo, c’era anche uno scrittore e poeta di mezza età, piuttosto taciturno. Il ragazzo, durante l’attesa, nonostante la nostra presenza, si masturbò ininterrottamente e ininterrottamente pianse.
Il pittore era un uomo anziano dagli occhi chiari e bellissimi. Sembrava informato perfettamente di come si sarebbero svolti gli esami.


Fu chiamato per primo il fotografo; dopo una ventina di minuti il pittore anziano. Poi venne il mio turno. La Commissione si era installata nel gabinetto scientifico, che era stato sgomberato dalle apparecchiature della scuola. I giudici erano tre. Sedevano dietro un tavolo. II giudice principale, al centro, leggeva la mia cartella. Degli altri due uno, molto magro e pallido, doveva avere la mansione di tecnico, perché manovrava un proiettore cinematografico e un fancy meter di forma inusitata, più piccolo di quelli che avevamo visto per le strade, e dal ronzio appena percettibile; l’altro era un giovane che conoscevo. Mi ricordo che, anni prima, si era occupato di cronaca d’arte su qualche giornale locale. Gli accennai un saluto, ma mostrò di non conoscermi.


Entrando non me ne ero accorto, poi osservai con terrore che, in fondo all’aula, disteso su un lenzuolo, c’era il pittore anziano con la gola squarciata. Era stato ucciso pochi minuti prima.


II giudice principale, per un attimo, mi aveva dato un’impressione quasi rassicurante, o, almeno, diversa da quella che ebbi subito dopo. Indossava un incredibile abito rosa. La comica cravatta viola a fiocco, il volto tondo e roseo, i capelli a boccoli, gli occhiali cerchiati d’oro, facevano pensare ad un personaggio di varietà d’altri tempi. Quando, però, sollevò lo sguardo dalla cartella e fissò la mia nudità, cominciò a ridere, mostrando una bocca schifosa e immonda, quasi priva di denti. Smise di ridere all’improvviso e spiegò le modalità dell’esame, che si sarebbe svolto di lì a poco, con burocratica precisione. Indicandomi il fancy meter sul tavolo disse: “Lei conosce le possibilità tecniche del Fancy Meter?”

Risposi affermativamente col capo. “Bene. Le saranno presentati stimoli visivi. Noi sappiamo che nel suo cervello si produrrà energia creativa. La lancetta del fancy-meter comincerà a muoversi; osservi il quadrante! Guardi i numeri! I numeri fino a 30 sono in nero; dal 31 al 70 in rosso. Se, durante la presentazione degli stimoli, la lancetta si sposterà oltre il 30, nella zona dei numeri rossi, lei verrà ucciso immediatamente, come è accaduto al pittore. Viene usato il rasoio per motivi di parsimonia economica. Nel caso la lancetta resterà nella zona nera, lei verrà rinchiuso per qualche giorno, in attesa di essere venduto ai sensali.”


II giudice magro azionò il proiettore e, sullo schermo, riconobbi subito le immagini del “Dies Irae” di Dreyer. Pochi minuti di proiezione, poi il giudice magro fermò l’apparecchio, tolse la bobina, ne introdusse una più piccola, manovrò i pulsanti e sullo schermo comparve una ragazza nuda, molto bella, che si accarezzava i capezzoli; alle spalle, come un grande fondale, una pittura di Rauschenberg. Anche questa proiezione durò pochi minuti. La lancetta non aveva superato la zona dei numeri neri.


II giudice principale chiamò le guardie, battendo le mani due volte. Entrarono due colossi, vestiti da infermieri. Mi bendarono gli occhi, mi legarono i polsi e mi portarono fuori dall’aula. Dissi che avevo bisogno di urinare; mi risposero che non c’era tempo per fermarsi e che potevo farlo continuando a camminare. Così mi pisciai addosso, mentre venivo spinto a salire su di un altro furgone. Da allora non ho più avuto alcuno stimolo fisiologico. Durante il tragitto ho sentito l’orologio della Cattedrale. Erano le nove. Credo che, da quel momento, fino a quando non mi hanno introdotto nella cella in cui mi trovo adesso, non sia trascorsa più di un’ora.


In quel lasso di tempo ho riflettuto sugli stimoli visivi: il pittore anziano, durante l’attesa, spiegò che erano stati studiati stimoli speciali, conformi alle caratteristiche mentali di ciascuno di noi; ma non mi erano chiari i motivi per cui abbiano scelto, per me, la sequenza di Dreyer e la donna nuda. L’altro interrogativo riguarda i sensali. Chi sono questi sensali che dovrebbero prelevarmi oggi da un momento all’altro? II pittore ci disse che sono strani e misteriosi personaggi. Pare che siano del tutto afasici e che, per comunicare, emettano appena qualche suono gutturale. Vengono, tuttavia, considerati molto discreti ed efficienti: comprano dalle organizzazioni del Potere Centrale gli artisti di bassa creatività e li usano per i lavori più umili nei campi.


Cara Monica, non so dirti altro. Altro non conosco del mio destino. Spero di trovare il modo per inviarti questa lettera.

Un abbraccio forte

Racconto di Attilio Del Giudice

Immagine di copertina: Philipp Hackert, Giardino inglese

“Le sorelle Macaluso” di Emma Dante: una felicità promessa tra ricordo e attesa

Un piatto va in frantumi. E quello che segue è il tentativo meticoloso di ricomporne i pezzi, per quanto un minuscolo frammento sia per sempre andato perduto. È un piatto che fa parte del “servizio buono”, di quelle stoviglie tirate fuori dalla credenza per le occasioni importanti, quando in tavola c’è il “pesce finto” e chi apparecchia canta Cu ti lu dissi di Rosa Balistreri.

È per una cena che le sorelle Macaluso vengono a riunirsi nella vecchia casa in cui vivevano da ragazze, allevando colombi da affittare per battesimi e matrimoni. E come sui loro volti viene a incidersi il marchio indelebile del tempo, anche quelle stanze una volta abitate dagli entusiasmi giovanili si riempiono di crepe, di maniglie che si staccano, di oggetti impolverati che, come la bottiglia dell’Amaro 18, sopravvivono al lutto e alla malattia.

Con la sua seconda pellicola Le sorelle Macaluso, la regista palermitana Emma Dante ricerca un linguaggio cinematografico che possa tradurre la potente poetica del suo teatro e dell’omonima e acclamatissima pièce del 2014. 

Sul palcoscenico vuoto, l’impatto dei corpi delle sette sorelle messe in fila – ridotte a cinque per il film – riusciva a tessere la rappresentazione da sé, sciogliendosi in una commovente danza tra vivi e morti. Molta di quella struggente tensione tende a dissolversi nell’adattamento per il grande schermo, dove una narrazione “per capitoli” disperde la pregnanza e l’efficacissima compresenza di significati concentrata nei pochi elementi presenti sulla scena.

La macchina da presa, guadagnando la possibilità del primo piano, preserva tuttavia intatta la sensibilità che animava l’allestimento. Lo sguardo di Emma Dante si sofferma infatti sulle occhiaie scure, sulle costole che sporgono, sulle mani incartapecorite delle protagoniste che s’intrecciano per un’ultima volta sulla salma di una di loro. Lo spettatore è indotto a indugiare su ogni dettaglio, su quelle bambole e cartoline custodite e poi ritrovate dentro a un baule – quasi una reminiscenza dello spettacolo Ballarini (2010) – perché le memorie e le gioie passate possano ancora una volta rifiorire “col vento caldo di un’altra estate”, come risuona la versione di Inverno interpretata da Franco Battiato nel film.

Un’estate che nella pellicola assume i connotati ben precisi dell’estate palermitana, il ritmo della lunga camminata che ragazze di periferia devono compiere, attraversando il parco de La Favorita, per arrivare al mare di Mondello. Qui, il notissimo Antico Stabilimento Balneare – il Charleston – in stile Art Nouveau diviene fortezza di un’ideale promesse du bonheur: una promessa di felicità tragicamente non mantenuta. È proprio in una luminosa giornata estiva che un incidente dilacera brutalmente la spensieratezza delle sorelle, ritagliando un vuoto con il quale dovranno confrontarsi nel corso dell’intera esistenza.

La serenità immaginata è quella intravista dal buco scavato nel muro, che sembra promettere un altrove: è quella che muove i passi di danza di Maria e che guida le immersioni nella vasca da bagno di Lia, impaziente di raggiungere la spiaggia. Sarà poi quella stessa vasca ad accogliere il disincanto che sopraggiunge con il trascorrere del tempo, ospitando il corpo magro e consunto dal cancro di una sorella, o gli ingombranti e coloratissimi fiori per la veglia funebre di un’altra.

Questo altrove preannunciato è dunque un orizzonte che pare richiudersi, restringendosi nuovamente entro i confini delle mura domestiche, dove il rapporto irrimediabilmente viscerale tra le sorelle, fatto di tenerezza, colpa e rancore legato al passato, viene analizzato e dissezionato con crudezza, come il cuore di un animale selvatico. E dove una ritualità di piccoli gesti viene ripetuta negli anni, in una “liturgia familiare”, capace di rievocare la memoria di chi non c’è più. 

Ogni volta che Pinuccia si mette il rossetto sulle labbra guardandosi allo specchio, ci sarà la piccola Antonella – in attesa di poter crescere anche lei – a ricordarle quanto sia bella, e non importa quanti anni abbia. Chi muore non se ne va mai davvero, ed ogni vita che ha attraversato la casa lascia la sua traccia indelebile: proprio come quando si toglie un quadro e rimane l’alone sulla carta da parati.

Dodici attrici interpretano le cinque sorelle nelle differenti fasi della loro vita: Donatella Finocchiaro, Alissa Maria Orlando, Susanna Piraino, Anita Pomario, Eleonora De Luca, Viola Pusateri, Serena Barone, Simona Malato, Laura Giordani, Maria Rosaria Alati, Rosalba Bologna, Ileana Rigano.

La regista affida dunque i temi carissimi della propria “creatura” ad un notevole cast quasi interamente femminile, alle note di Gianna Nannini e alle delicate parole di Anna Maria Ortese che contribuiscono ad impreziosire la pellicola. Affiancata nella sceneggiatura dalle acutissime penne di Elena Stancanelli e Giorgio Vasta (anche quest’ultimo palermitano), Emma Dante concepisce un film forse imperfetto nella costruzione e nella tenuta, ma che propone un intensissimo affresco emotivo, in cui teatro, musica e letteratura si mescolano per restituire un modo di sentire profondamente siciliano. 

E se di fronte alla morte un vassoio di paste si offre come una disperata consolazione, la “promessa di felicità” viene custodita nel ricordo di un dolcissimo bacio tra ragazze all’Arena La Sirenetta di Mondello, e in quello starsi accanto tra sorelle mentre si guarda il mare.

Libreria Dante & Descartes: libri perduti e ritrovati

Giancarlo Di Maio, con la sua libreria, è una vera e propria istituzione del centro storico di Napoli. In questo spazio si respira l’amore per la lettura, per la ricerca di testi originali ma anche e soprattutto per la città, perché situato nel suo cuore pulsante: Piazza del Gesù Nuovo. Ormai punto di passaggio prediletto dai napoletani, che io stessa, mentre intervistavo Giancarlo, ho visto entrare in libreria come richiamati da un senso di appartenza e di fascinazione per quel luogo così caldo e familiare.

Una bella coincidenza lega quest’intervista di qualche mese fa ad una notiza di questi giorni. Ieri, 8 ottobre, la scrittrice statunitense Louise Glück è stata insignita del premio Nobel ed una sua raccolta di poesie, Averno, è stata pubblicata in Italia proprio dalla casa editrice del padre di Giancarlo.

Qual è la storia della libreria?

Sotto l’insegna di famiglia, nove anni, fa ho aperto questo spazio qui in Piazza del Gesù. Anche mio padre, infatti, ha una libreria dal 1984, che ha lo stesso nome: Dante & Descartes. Ho voluto cominciare quest’esperienza di connubio tra libri usati e nuovi e, per una serie di eventi, mi sono ritrovato ad aprirla qui, nel centro storico di Napoli. All’epoca la città era diversa. È cambiata molto.

In che senso era diversa?

Perché adesso stiamo attraversando una fase post lockdown. C’è assenza di viaggiatori, di turisti, di curiosi. Il locale dove si trova adesso la mia libreria era chiuso da trent’anni e a me sembrò subito perfetto per la posizione. L’ambientazione era ideale per una libreria. Non esitai.

Tu vivi nel centro storico? Sei cresciuto in questa zona?

Sì adesso vivo a Montesanto, ma sono cresciuto nel quartiere di Fuorigrotta. Trascorrerevo molto tempo qui in centro, anche da ragazzino. Spesso passavo i pomeriggi nella bottega di mio padre in via Mezzocannone. Il centro storico è sicuramente il luogo dove ho sempre immaginato che un giorno ci sarebbe stata la mia attività.

Come trascorrevi il tempo nella bottega di tuo padre?

Era un diversivo per me. Un gioco. Per quanto mio padre non volesse che continuassi la sua attività, mi ci sono ritrovato dentro.

Tuo padre vende la stessa tipologia di libri?

Sì. Vende libri vecchi e nuovi. Trovandosi vicino alla Federico II, ha anche libri universitari. Poi ha una piccola casa editrice. La sua primissima libreria era in via Donna Albina. Negli anni Novanta si spostò in via Mezzocannone e nove anni fa si è trasferito in un altro locale, rimanendo sempre in via Mezzocannone.

Come immaginavi la tua libreria prima di aprirla?

Pensavo di creare una parete intera per i libri vecchi e la parete opposta per quelli nuovi. Così è stato.

Foto di Valentina Fiordiliso

Non hai pensato che la tua scelta fosse avventata? Considerando, ad esempio, l’esistenza di colossi della vendita on line come Amazon?

Sì, ma era anche questa la sfida per me. Immaginavo una libreria, che con la mia energia degli allora ventitré anni e la mia allegria, avrebbe attratto un pubblico giovane e non. Avevo in testa l’idea di specializzarmi nei libri più vecchi, più rari.

Hai una clientela fissa?

Sì, direi di sì.

Di persone del quartiere?

No, non per forza. Arriva gente pure da Bari. Che ne so, adesso se n’è andato un signore dal Cilento, che era venuto per un determinato motivo. Gli ho procurato un libro che cercava da molto tempo.

Ti aveva contattato on line?

No. Ci sono ancora tante persone che non utilizzano il web. Lui per esempio è arrivato a Napoli, mi ha ordinato il libro e poi è tornato a prenderlo. Però la rete la utilizzo: Instagram, Facebook. Ho creato delle pagine ufficiali della libreria su entrambi i canali social e questo sicuramente aiuta a far conoscere la libreria. Mi piace centrare questo lavoro sul carattere umano. Al di là dell’attività libraria, qui ci passano un sacco di amici, persone che conosco. Internet mi consente di non essere invisibile ma l’aspetto umano è proprio ciò che i grandi come Amazon e simili non possono avere. Quel taglio un po’ improvvisato che fa la differenza.

Posso confermare, perché mentre lo sto intervistando, entra talmente tanta gente nella libreria, che non riusciamo mai a concludere una frase.

Cosa pensi dei Kindle?

Ci sono varie scuole di pensiero. A me non piace l’idea di scaricare roba in maniera massiccia. Magari cose che non mi interessano realmente e che poi non leggerò mai. Penso che l’esperienza di acquistare un libro e di sceglierlo tra le proprie mani sia un’altra cosa però credo che le cose possano coesistere.

Foto di Valentina Fiordiliso

Com’è la tua clientela?

Ci sono tutte le generazioni possibili. C’è una vera e propria trasversalità. Credo che Napoli sia una città ancora molto legata alla cultura del libro. I libri usati possono attirare tutti, dal classico perdigiorno al flâneur del centro storico.

E i turisti entrano? Hai anche libri in altre lingue?

Sì, certo. Ho molti libri usati in francese e in inglese. I viaggiatori entrano con grande interesse qui dentro. Alcuni amano approfondire il viaggio comprando libri su Napoli. Sorprendentemente molti turisti stranieri parlano l’italiano.

Nel frattempo osservo Giancarlo. La sua disponibilità, il suo sarcasmo e il suo sorriso rendono felici i clienti. Ha una forte passione che traspare sin da subito.

Che tipo di libri ti richiedono su Napoli?

Io curo in particolare lo sguardo dei grandi viaggiatori sulla città perché è «altro», che viene da fuori e che riesce a catturare cose che, noi che siamo troppo dentro, non riusciamo a vedere. Penso al grande maestro Goethe. Ultimamente ho preso una ristampa di uno scritto di Walter Benjamin, che si intitola Napoli porosa. Penso al racconto Spaesamento di Sartre ambientato a Napoli. Ci sono vari passaggi con protagoniste le grandi vie attraversate dalle ferite, che per Sartre sono i vicoli.

Foto di Valentina Fiordiliso

Tu sei un lettore?

Sì, certo.

Da quando eri piccolo?

No, ho cominciato a leggere quando ero già un po’ grande.

Come ti regoli per le scelte commerciali?

Alcuni titoli li scelgo in base ai miei gusti personali., Con le persone che passano spesso qui, parliamo di libri, ci scambiamo consigli e ci contaminiamo a vicenda. A volte all’improvviso autori dimenticati tornano a galla.  Capita che riesca  a salvare dall’oblio di alcune case editrici testi che sono rilevanti, anche secondo i miei clienti e quindi li facciamo diventare dei piccoli casi letterari. È divertente.

Per esempio?

Blaise Handra, scrittore semi-sconosciuto, che qui però ha trovato tantissimi lettori, tramite il passaparola. I suoi libri migliori sono Rapsodie Gitane e Moravagine. Il libro in assoluto che mi accompagna da quando ho aperto è di uno scrittore praghese e s’intitola Una solitudine troppo rumorosa. Il libro comincia più o meno così: «Sono trentacinque anni che lavoro alla carta vecchia della mia love story». È un inno alla carta vecchia, ambientato al macero della carta di Praga. Cento pagine di pura poesia. Mi accompagna da quando ho aperto e forse grazie a quel libro sono riuscito a dare un’impostazione di questo tipo, come trasposizione di quello che ho letto. Senza una copia di quel libro la mattina non apro il negozio.

Foto di Valentina Fiordiliso

Organizzi eventi o presentazioni di nuove uscite?

Ogni tanto sì. A volte organizziamo delle passeggiate per la città, rifacendoci ad esempio a Walter Benjamin con Napoli porosa o altri. A volte organizzavo presentazioni, ma adesso non riesco più.

L’incontro più strano o la persona o la richiesta più strana.

Le richieste strane sono quelle che magari non vanno nello specifico. Ad esempio questa brutta moda di avere libri antichi in casa portava persone a richiedere uno o due metri di libri e tu magari non sapevi come fare. Servono per riempire le librerie delle case. Chiaramente, a seconda del tipo di persona che fa la richiesta, ti inventi qualcosa. La cosa che mi sembra sempre più assurda è che ultimamente si sceglie anche il colore. Tutti uguali e tutti dello stesso colore. A me questa cosa del colore mi manda al manicomio. Mi sento un colorista. Dico: ma che cosa sto facendo? Sono cose per le quali io non posso sperare la vendita, se non per l’idea di antico che è finta, perché è soltanto sul dorso. Quindi a volte trattengo delle cose, tipo vecchi libri medici che non vuole più nessuno, enciclopedie e cose così. Si cerca di accontentare un po’ tutti, seguendo l’idea di trasversalità del pubblico. Incontri se ne fanno di tutti i tipi, anche perché il libro vecchio attrae veramente vari tipi di persone. C’è chi entra perché, secondo la propria fantasia, pensa che qui dentro ci deve essere per forza quella cosa specifica. A volte forzano anche la mano e vogliono comprare quel libro e basta. Però a volte è difficile riuscire ad accontentarli. La libreria di libri vecchi crea un forte immaginario.

Usi un archivio?

Per ordinare i libri nuovi utilizzo dei sistemi informatici. Invece, per quanto riguarda la disposizione all’interno della mia libreria, conosco tutto a memoria. Cerco di mediare tra la nuova maniera e la vecchia maniera. La vecchia maniera è un modo di lavorare che non esiste più e che va per settore. Non si utilizza il computer, ma soltanto la propria testa. Ad esempio: letteratura del Novecento italiano, ordine alfabetico, prime edizioni sono tutte qua. Io so cosa mi serve conservare o almeno credo di saperlo. È un lavoro che apprendi in base alle richieste. C’è un processo dentro la mente che non riesci nemmeno a controllare. Di fronte ho mafia e crimine, brigantaggio, libri di Benedetto Croce, poesia, critica letteraria. Si lavora con questi compartimenti così. Questo è il vecchio metodo che non considera l’uso di posizioni sul computer. Usi solo la testa e vai a cercare. Lavoro molto sulla memoria. Sono fissato.

Foto di Valentina Fiordiliso

Per te che cos’è una libreria indipendente? E la tua lo è?

Sì perché è una libreria gestita da una persona o da una famiglia e non da una catena. Non basta dirlo e definirsi tale per esserlo. Se non lavori con il pubblico, non cerchi di stimolarlo, sei indipendente ma fino a un certo punto. Per me la libreria indipendente dovrebbe essere anche altro. È un disastro questa definizione. È complicato, però, dopo questo macello che c’è stato con il virus: da un lato ci sono i grossi blocchi inamovibili come Amazon e dall’altro ci sono i piccoli che iniziano ad avere una voce interessante, iniziano a organizzarsi, iniziano a usare la tecnologia in modo intelligente, iniziano a fare consegne a domicilio.

Hai organizzato consegne a domicilio durante il Covid?

Sì. Per quanto la Campania fosse l’unica regione in cui non si potesse consegnare a domicilio. Abbiamo spedito sia in altre regioni sia nella mia città e questo mi ha fatto arrabbiare tantissimo. Perché mentre gli altri librai indossavano guanti e mascherina, prendevano la bicicletta e andavano a consegnare libri (anche quelli lombardi), noi qui non potevamo farlo ed era complesso gestire questa cosa. Un po’ si è creata una borsa nera del libro con consegne fuori dai supermercati. Follia, disastro. È stato veramente complicato. Questo sistema è stato anche un modo per fare disobbedienza civile a una cosa che non mi piaceva. Non era solo un fatto economico per me, ma una presa di posizione.

Hai notato un incremento delle vendite dopo la quarantena?

Ti posso dire la verità? Sì, ho notato un cambio di passo. Perché secondo me la lettura aiutava le persone a rallentare. Sono superstizioso, non voglio portare male, ma noto un miglioramento. Forse la gente si è ricordata dei libri.

I libri usati dove li compri?

Dai privati.

Cioè svuoti le case della gente?

Sì. Mi sono reso conto che una libreria è una cosa privata. Io ad esempio se mi ritrovassi con i libri di mio fratello o di mio padre li venderei. Spero che anche i miei tornino in circolo prima o poi, quando morirò. La mia casa è piena di libri. Perché magari ne metto alcuni da parte in libreria, me li porto a casa, li leggo e li rimetto in circolo.

Come vivi questa finestra su questa piazza della città?

Ne sono innamorato. Per me è bellissima. Io sembro spigliato, ma ho una certa timidezza e da qui riesco a vedere tutto il passaggio di là, quasi senza farmi vedere. Questo posto mi sembrava perfetto per una libreria, proprio perché è un po’ decentrato. In realtà sicuramente se una libreria si trova sulla strada di passaggio è meglio. Tutti i vecchi commercianti mi dicevano: «Non ti prendere quel posto» perché non è di passaggio. Più mi dicevano così e più mi fissavo sull’idea che dovevo aprire qui.

Foto di Valentina Fiordiliso

È arrivato il momento di raccontarti tutta la storia.

Avevo ancora la residenza da mia madre. Lei mi chiama e mi dice: «È successa una cosa grave». Io mi metto in un taxi, perché avevo pensato al peggio, e corro da lei. Arrivo a casa e trovo una raccomandata portata da un ufficiale giudiziario, che diceva che il posto era stato venduto a tal dei tali, a un nome grosso. Io ero in affitto e non sapevo che il posto fosse in vendita. Secondo la legge italiana, se tu hai un contratto commerciale hai il diritto di prelazione. Qualora il locale fosse venduto, arriva una lettera che ti concede sessanta giorni per comunicare il tuo interessamento e novanta giorni per pagare. Nonostante tutto, sono riuscito a comprarmelo e ho giurato e giuro, e lo dico anche qua. Lì c’è una foto di City Lights Bookstore a San Francisco, aperto da un grande poeta e grande libraio, che si chiama Lawrence Ferlinghetti, il quale ha creato una fondazione, perché vuole che dopo la sua morte – lui ora ha centouno anni – nel luogo dove ha aperto la sua prima libreria ci sia per sempre una libreria. Io voglio, spero, che qui ci sarà sempre una libreria e vorrei creare un vincolo. Spero di riuscirci. 

Tutto questo è accaduto nel 2015 e, come dice Andy Warhol, ebbi quindici minuti di successo. Da Massimo Brai, che era allora ministro della Cultura, a chiunque tu possa immaginare scriveva di questo posto. Radio, interviste, giornali, «il Sole 24 ore», tesi di laurea sul modo di crowfunding che avevo creato. Avevo un’energia in quel momento. 

Si trattava di un crowfunding creato da me, che funzionava così: una persona mi dava dieci euro e prendeva il corrispettivo in libri, oppure in buoni per acquistare libri in seguito. Semplicemente vendevo libri in un momento in cui avevo bisogno. Era un crowfunding atipico, che ho portato avanti su una piattaforma che si chiama Produzioni dal basso. La campagna si chiamava: A Piazza del Gesù Nuovo non volava una carta.

«Il mondo è l’India». Un viaggio di Pier Paolo Pasolini

È il 1961 quando Pier Paolo Pasolini si reca per la prima volta in India; è in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante. La Porta dell’India è una visione degna de Le mille e una notte per il viaggiatore inesperto: un penoso stato di eccitazione e una enorme folla vestita di asciugamani accolgono Pasolini all’arrivo a Bombay. Il soggiorno indiano diviene una esibizione di intrepidezza: il desiderio di avventurarsi nella notte indiana è una speranza – un inno alla curiosità: la possibilità di perdersi nelle dolcezze altrui, nella notte altrui. È da questa irrequietezza che nasce L’odore dell’India: un groviglio di appunti – frammenti di emozioni, frammenti di sensazioni che non possono essere taciute. 

L’odore dell’India ha inizio al Taj Mahal: «È quasi mezzanotte, al Taj Mahal c’è l’aria di un mercato che chiude […] Sono le prime ore della mia presenza in India, e io non so domare la bestia assetata chiusa dentro di me, come in una gabbia. Persuado Moravia a fare almeno due passi fuori dall’albergo, e respirare un po’ d’aria della prima notte indiana». Il mare, le automobili, i mendicanti sono l’anima della notte indiana – sono loro le luci e le ombre della notte a Bombay: «Sono tutti dei mendicanti, o di quelle persone che vivono ai margini di un grande albergo, esperti della sua vita meccanica e segreta: hanno uno straccio bianco che gli avvolge i fianchi, un altro straccio sulle spalle, e, qualcuno, uno straccio intorno al capo: sono quasi tutti neri di pelle, come negri, alcuni nerissimi. C’è un gruppo sotto i portichetti del Taj Mahal, verso il mare, giovanotti e ragazzini: uno di essi è mutilato, con le membra come corrose, e sta disteso avvolto nei suoi stracci, come, anziché davanti a un albergo, fosse davanti a una chiesa. Gli altri attendono silenziosi, pronti. Non capisco ancora qual è la loro mansione, la loro speranza. Li sbircio appena, chiacchierando con Moravia, che è già stato qui ventiquattro anni fa».

Lo sguardo di Pasolini è rapito dai mendicanti che abitano le vie notturne dell’India, dolcemente addormentati ai margini delle vie: «Esseri favolosi, senza radici, senza senso, colmi di significati dubbi e inquietanti, dotati di un fascino potente». «Ci sogguardano, me e Moravia, lasciandoci perdere: il loro occhio inespressivo non deve vedere in noi niente di promettente. Anzi, quasi si chiudono in se stessi camminando stancamente».

La notte indiana è animata da canti e riti, cerimoniali silenziosi – lieti momenti di estasi tra i monumenti secolari: «Ma, dentro, nella penombra dell’arco, si sente un canto: sono due, tre voci che cantano insieme, forti, continue, infervorate. Il tono, il significato, la semplicità sono quelli di un qualsiasi canto di giovani che si può ascoltare in Italia o in Europa: ma questi sono indiani, la melodia è indiana. Sembra la prima volta che qualcuno canti al mondo. Per me: che sento la vita di un altro continente come un’altra vita, senza relazioni con quella che io conosco, quasi autonoma, con sue leggi interne, vergini. Mi pare che ascoltare quel canto di ragazzi di Bombay, sotto la Porta dell’India, rivesta un significato inafferrabile e complice: una rivelazione, una conversazione della vita».

La scrittura di Pasolini ha il ritmo di una preghiera, è una scrittura mai artificiosa: Pasolini è, con le mani giunte, complice della vita dell’altro – una vera sentinella in ascolto: «E le vacche per le strade: che andavano mescolate alla folla, che si accovacciavano tra gli accovacciati, che deambulavano coi deambulanti, che sostavano tra i sostanti: povere vacche dal mantello diventato di fango, magre in modo osceno, alcune piccole come cani, divorate dai digiuni, con l’occhio eternamente attratto da oggetti destinati a un’eterna delusione. Era quasi notte, ed esse si accovacciavano ai bivi, sotto qualche semaforo, davanti ai portoni di qualche disordinato edificio pubblico, mucchi neri e grigi di fame e smarrimento».

La vita indiana è descritta con parole nude e crude, rendendo nitido e cocente ciò che viene descritto: ci troviamo di fronte alla verità immediata dell’occhio. La povertà della vita in India è rappresentata con la semplicità che sempre accompagna la stessa povertà: «Questa enorme folla vestita praticamente di asciugamani spirava un senso di miseria, di indigenza indicibile, pareva che tutti fossero appena scampati a un terremoto e, felici per esserne sopravvissuti, si accontentassero dei pochi stracci con cui erano fuggiti dai miserandi letti distrutti, dalle infime catapecchie. Ora eccoli là, due di questi scampati, che cantano insieme sotto la Porta dell’India, aspettando l’ora del sonno, nella calda notte estiva».

Le sensazioni di Pasolini si mescolano con l’autenticità delle immagini, restituendo al lettore suoni e colori, profumi di una terra lontana e, al contempo, così vicina: «Quasi tutte le case, cadenti, hanno davanti un piccolo portico: e qui… mi trovo davanti a uno dei fatti più impressionanti dell’India. Tutti i portici, tutti i marciapiedi rigurgitano di dormienti. Sono distesi per terra, contro le colonne, contro i muri, contro gli stipiti delle porte. I loro stracci li avvolgono completamente, incerati di sporcizia. Il loro sonno è così fondo che sembrano dei morti avvolti in sudari strappati e fetidi. Sono giovani, ragazzi, vecchi e donne coi loro bambini. Dormono raggomitolati o supini, a centinaia. Qualcuno è ancora sveglio, specialmente dei ragazzi: sostano ad aggirarsi o parlare piano seduti alla porta di qualche negozio chiuso, sugli scalini di qualche casa. Qualcuno si sta sdraiando in quel momento, e si avvolge nel suo lenzuolo, coprendosi la testa. Tutta la strada è piena del loro silenzio: e il loro silenzio è simile alla morte, ma a una morte, a sua volta, dolce come il sonno».

Le descrizioni pasoliniane sono ritmate dalla vita indiana: sono, esse stesse, i suoni, i colori, gli odori dell’India – compongono e scompongono tutto ciò che l’occhio cattura. La vita indiana è descritta nell’immediato, rapito e veloce, tempo dell’istante: l’India descrive se stessa servendosi della penna pasoliniana, e la sua veridicità è autenticamente nota dalle immagini pasoliniane, intense e viscerali – convulse. Pasolini attraversa l’India immergendosi completamente in essa, lasciandosi catturare e incantare: la passeggiata ad Ajanta, il Clark’s Hotel di Banaras, la compagnia di Sardar e Sundar, l’incontro con Revi; ogni momento è vissuto con l’intensità di una rivelazione: ogni accadimento, sia pur il più banale, è rivestito dell’importanza di una scoperta: «Mi piaceva camminare, solo, muto, imparando a conoscere passo per passo quel nuovo mondo, così come avevo conosciuto passo passo, camminando solo, la periferia romana: c’era qualcosa di analogo: soltanto che ora tutto appariva dilatato e sfumante in un fondo incerto», e ancora: «Le cose mi colpivano ancora con violenza inaudita: cariche di interrogativi, e, come dire, di potenza espressiva. I colori dei pepli delle donne, che lì erano perdutamente accesi, senza nessuna delicatezza, verdi che erano azzurri, azzurri che erano viola; l’oro delle conchette per l’acqua, piccole e preziose come scrigni; i mucchi di folla vestita di stracci svolazzanti; i sorrisi nelle facce nere sotto i turbanti bianchi: tutto mi si riverberava nella cornea, imprimendosi con tale violenza da scalfirla».

La conoscenza delle cose avviene attraverso una totale e totalizzante immersione nelle cose stesse: Pasolini attraversa i colori e i suoni, i canti e gli odori come se tutto ciò che vede fosse, per la prima volta, venuto al mondo, come se egli stesso avesse aperto gli occhi per la prima volta. Sono inevitabili alcune analogie, ma esse stesse non hanno come scopo quello di evidenziare delle similitudini piuttosto servono ad evidenziano delle differenze: «Eppure gli indiani si alzano, col sole, rassegnati e, rassegnati, cominciano a darsi da fare: è un girare a vuoto per tutto il giorno, un po’ come si vede a Napoli, ma, qui, con risultati incomparabilmente più miserandi».

L’avventura pasoliniana si situa in un contesto di perenne scoperta, una curiosità che non si esaurisce, un desiderio costante, costantemente rivolto verso il reale, verso tutto ciò che vien visto: tutte le domande restano aperte, tutte le digressioni irrisolte: a comunicare è l’essenza stessa di un colore – i colori dei pepli delle donne, che lì erano perdutamente accesi, senza nessuna delicatezza, verdi che erano azzurri, azzurri che erano viola; l’oro delle conchette per l’acqua, piccole e preziose come scrigni; di un gesto: «Basta guardare come dicono di sì. Anziché annuire come noi alzando e abbassando la testa, la scuotono circa come quando noi diciamo di no: ma la differenza del gesto è tuttavia enorme. Il loro no che significa sì consiste in un far ondeggiare il capo […] teneramente: in un gesto insieme dolce: «Povero me, io dico di sì, ma non so se si può fare», e insieme sbarazzino: «Perché no?», impaurito: «È così difficile», e insieme vezzoso: «Sono tutto per te» […] viste a distanza le masse indiane si fissano nella memoria, con quel gesto di assentimento, e il sorriso infantile e radioso negli occhi che l’accompagna. La loro religione è in quel gesto». 

L’odore dell’India termina con gli appunti manoscritti su carta intestata del Clark’s Hotel di Banaras; sono le otto del mattino del 15 gennaio 1961. Sulla carta del Clark’s Hotel Pasolini scrive: «Di Banares non so altro che il fumo mattutino che si raccoglie tra gli alberi come in conche freschissime di [?], e il grido in bengali di uno che passa per la strada. Si ripete così la vecchia storia: il mondo stupendo, e orrendo e io che lo contemplo, ricco, fin troppo ricco, degli strumenti necessari a registrarlo». Il fumo mattutino che si raccoglie tra gli alberi in conche freschissime di… è quanto resta di Banares, una visione che è una certezza: tra il fumo mattutino, gli alberi e le conche c’è tutta la magia e tutto l’incanto di Banares, dell’India: un odore che rammenta un’esperienza: «La strada scorre infinita. Attimo per attimo c’è un odore, un colore, un senso che è l’India: ogni fatto più insignificante ha un peso d’intollerabile novità».