Giancarlo Di Maio, con la sua libreria, è una vera e propria istituzione del centro storico di Napoli. In questo spazio si respira l’amore per la lettura, per la ricerca di testi originali ma anche e soprattutto per la città, perché situato nel suo cuore pulsante: Piazza del Gesù Nuovo. Ormai punto di passaggio prediletto dai napoletani, che io stessa, mentre intervistavo Giancarlo, ho visto entrare in libreria come richiamati da un senso di appartenza e di fascinazione per quel luogo così caldo e familiare.
Una bella coincidenza lega quest’intervista di qualche mese fa ad una notiza di questi giorni. Ieri, 8 ottobre, la scrittrice statunitense Louise Glück è stata insignita del premio Nobel ed una sua raccolta di poesie, Averno, è stata pubblicata in Italia proprio dalla casa editrice del padre di Giancarlo.
Qual è la storia della libreria?
Sotto l’insegna di famiglia, nove anni, fa ho aperto questo spazio qui in Piazza del Gesù. Anche mio padre, infatti, ha una libreria dal 1984, che ha lo stesso nome: Dante & Descartes. Ho voluto cominciare quest’esperienza di connubio tra libri usati e nuovi e, per una serie di eventi, mi sono ritrovato ad aprirla qui, nel centro storico di Napoli. All’epoca la città era diversa. È cambiata molto.
In che senso era diversa?
Perché adesso stiamo attraversando una fase post lockdown. C’è assenza di viaggiatori, di turisti, di curiosi. Il locale dove si trova adesso la mia libreria era chiuso da trent’anni e a me sembrò subito perfetto per la posizione. L’ambientazione era ideale per una libreria. Non esitai.
Tu vivi nel centro storico? Sei cresciuto in questa zona?
Sì adesso vivo a Montesanto, ma sono cresciuto nel quartiere di Fuorigrotta. Trascorrerevo molto tempo qui in centro, anche da ragazzino. Spesso passavo i pomeriggi nella bottega di mio padre in via Mezzocannone. Il centro storico è sicuramente il luogo dove ho sempre immaginato che un giorno ci sarebbe stata la mia attività.
Come trascorrevi il tempo nella bottega di tuo padre?
Era un diversivo per me. Un gioco. Per quanto mio padre non volesse che continuassi la sua attività, mi ci sono ritrovato dentro.
Tuo padre vende la stessa tipologia di libri?
Sì. Vende libri vecchi e nuovi. Trovandosi vicino alla Federico II, ha anche libri universitari. Poi ha una piccola casa editrice. La sua primissima libreria era in via Donna Albina. Negli anni Novanta si spostò in via Mezzocannone e nove anni fa si è trasferito in un altro locale, rimanendo sempre in via Mezzocannone.
Come immaginavi la tua libreria prima di aprirla?
Pensavo di creare una parete intera per i libri vecchi e la parete opposta per quelli nuovi. Così è stato.

Non hai pensato che la tua scelta fosse avventata? Considerando, ad esempio, l’esistenza di colossi della vendita on line come Amazon?
Sì, ma era anche questa la sfida per me. Immaginavo una libreria, che con la mia energia degli allora ventitré anni e la mia allegria, avrebbe attratto un pubblico giovane e non. Avevo in testa l’idea di specializzarmi nei libri più vecchi, più rari.
Hai una clientela fissa?
Sì, direi di sì.
Di persone del quartiere?
No, non per forza. Arriva gente pure da Bari. Che ne so, adesso se n’è andato un signore dal Cilento, che era venuto per un determinato motivo. Gli ho procurato un libro che cercava da molto tempo.
Ti aveva contattato on line?
No. Ci sono ancora tante persone che non utilizzano il web. Lui per esempio è arrivato a Napoli, mi ha ordinato il libro e poi è tornato a prenderlo. Però la rete la utilizzo: Instagram, Facebook. Ho creato delle pagine ufficiali della libreria su entrambi i canali social e questo sicuramente aiuta a far conoscere la libreria. Mi piace centrare questo lavoro sul carattere umano. Al di là dell’attività libraria, qui ci passano un sacco di amici, persone che conosco. Internet mi consente di non essere invisibile ma l’aspetto umano è proprio ciò che i grandi come Amazon e simili non possono avere. Quel taglio un po’ improvvisato che fa la differenza.
Posso confermare, perché mentre lo sto intervistando, entra talmente tanta gente nella libreria, che non riusciamo mai a concludere una frase.
Cosa pensi dei Kindle?
Ci sono varie scuole di pensiero. A me non piace l’idea di scaricare roba in maniera massiccia. Magari cose che non mi interessano realmente e che poi non leggerò mai. Penso che l’esperienza di acquistare un libro e di sceglierlo tra le proprie mani sia un’altra cosa però credo che le cose possano coesistere.

Com’è la tua clientela?
Ci sono tutte le generazioni possibili. C’è una vera e propria trasversalità. Credo che Napoli sia una città ancora molto legata alla cultura del libro. I libri usati possono attirare tutti, dal classico perdigiorno al flâneur del centro storico.
E i turisti entrano? Hai anche libri in altre lingue?
Sì, certo. Ho molti libri usati in francese e in inglese. I viaggiatori entrano con grande interesse qui dentro. Alcuni amano approfondire il viaggio comprando libri su Napoli. Sorprendentemente molti turisti stranieri parlano l’italiano.
Nel frattempo osservo Giancarlo. La sua disponibilità, il suo sarcasmo e il suo sorriso rendono felici i clienti. Ha una forte passione che traspare sin da subito.
Che tipo di libri ti richiedono su Napoli?
Io curo in particolare lo sguardo dei grandi viaggiatori sulla città perché è «altro», che viene da fuori e che riesce a catturare cose che, noi che siamo troppo dentro, non riusciamo a vedere. Penso al grande maestro Goethe. Ultimamente ho preso una ristampa di uno scritto di Walter Benjamin, che si intitola Napoli porosa. Penso al racconto Spaesamento di Sartre ambientato a Napoli. Ci sono vari passaggi con protagoniste le grandi vie attraversate dalle ferite, che per Sartre sono i vicoli.

Tu sei un lettore?
Sì, certo.
Da quando eri piccolo?
No, ho cominciato a leggere quando ero già un po’ grande.
Come ti regoli per le scelte commerciali?
Alcuni titoli li scelgo in base ai miei gusti personali., Con le persone che passano spesso qui, parliamo di libri, ci scambiamo consigli e ci contaminiamo a vicenda. A volte all’improvviso autori dimenticati tornano a galla. Capita che riesca a salvare dall’oblio di alcune case editrici testi che sono rilevanti, anche secondo i miei clienti e quindi li facciamo diventare dei piccoli casi letterari. È divertente.
Per esempio?
Blaise Handra, scrittore semi-sconosciuto, che qui però ha trovato tantissimi lettori, tramite il passaparola. I suoi libri migliori sono Rapsodie Gitane e Moravagine. Il libro in assoluto che mi accompagna da quando ho aperto è di uno scrittore praghese e s’intitola Una solitudine troppo rumorosa. Il libro comincia più o meno così: «Sono trentacinque anni che lavoro alla carta vecchia della mia love story». È un inno alla carta vecchia, ambientato al macero della carta di Praga. Cento pagine di pura poesia. Mi accompagna da quando ho aperto e forse grazie a quel libro sono riuscito a dare un’impostazione di questo tipo, come trasposizione di quello che ho letto. Senza una copia di quel libro la mattina non apro il negozio.

Organizzi eventi o presentazioni di nuove uscite?
Ogni tanto sì. A volte organizziamo delle passeggiate per la città, rifacendoci ad esempio a Walter Benjamin con Napoli porosa o altri. A volte organizzavo presentazioni, ma adesso non riesco più.
L’incontro più strano o la persona o la richiesta più strana.
Le richieste strane sono quelle che magari non vanno nello specifico. Ad esempio questa brutta moda di avere libri antichi in casa portava persone a richiedere uno o due metri di libri e tu magari non sapevi come fare. Servono per riempire le librerie delle case. Chiaramente, a seconda del tipo di persona che fa la richiesta, ti inventi qualcosa. La cosa che mi sembra sempre più assurda è che ultimamente si sceglie anche il colore. Tutti uguali e tutti dello stesso colore. A me questa cosa del colore mi manda al manicomio. Mi sento un colorista. Dico: ma che cosa sto facendo? Sono cose per le quali io non posso sperare la vendita, se non per l’idea di antico che è finta, perché è soltanto sul dorso. Quindi a volte trattengo delle cose, tipo vecchi libri medici che non vuole più nessuno, enciclopedie e cose così. Si cerca di accontentare un po’ tutti, seguendo l’idea di trasversalità del pubblico. Incontri se ne fanno di tutti i tipi, anche perché il libro vecchio attrae veramente vari tipi di persone. C’è chi entra perché, secondo la propria fantasia, pensa che qui dentro ci deve essere per forza quella cosa specifica. A volte forzano anche la mano e vogliono comprare quel libro e basta. Però a volte è difficile riuscire ad accontentarli. La libreria di libri vecchi crea un forte immaginario.
Usi un archivio?
Per ordinare i libri nuovi utilizzo dei sistemi informatici. Invece, per quanto riguarda la disposizione all’interno della mia libreria, conosco tutto a memoria. Cerco di mediare tra la nuova maniera e la vecchia maniera. La vecchia maniera è un modo di lavorare che non esiste più e che va per settore. Non si utilizza il computer, ma soltanto la propria testa. Ad esempio: letteratura del Novecento italiano, ordine alfabetico, prime edizioni sono tutte qua. Io so cosa mi serve conservare o almeno credo di saperlo. È un lavoro che apprendi in base alle richieste. C’è un processo dentro la mente che non riesci nemmeno a controllare. Di fronte ho mafia e crimine, brigantaggio, libri di Benedetto Croce, poesia, critica letteraria. Si lavora con questi compartimenti così. Questo è il vecchio metodo che non considera l’uso di posizioni sul computer. Usi solo la testa e vai a cercare. Lavoro molto sulla memoria. Sono fissato.

Per te che cos’è una libreria indipendente? E la tua lo è?
Sì perché è una libreria gestita da una persona o da una famiglia e non da una catena. Non basta dirlo e definirsi tale per esserlo. Se non lavori con il pubblico, non cerchi di stimolarlo, sei indipendente ma fino a un certo punto. Per me la libreria indipendente dovrebbe essere anche altro. È un disastro questa definizione. È complicato, però, dopo questo macello che c’è stato con il virus: da un lato ci sono i grossi blocchi inamovibili come Amazon e dall’altro ci sono i piccoli che iniziano ad avere una voce interessante, iniziano a organizzarsi, iniziano a usare la tecnologia in modo intelligente, iniziano a fare consegne a domicilio.
Hai organizzato consegne a domicilio durante il Covid?
Sì. Per quanto la Campania fosse l’unica regione in cui non si potesse consegnare a domicilio. Abbiamo spedito sia in altre regioni sia nella mia città e questo mi ha fatto arrabbiare tantissimo. Perché mentre gli altri librai indossavano guanti e mascherina, prendevano la bicicletta e andavano a consegnare libri (anche quelli lombardi), noi qui non potevamo farlo ed era complesso gestire questa cosa. Un po’ si è creata una borsa nera del libro con consegne fuori dai supermercati. Follia, disastro. È stato veramente complicato. Questo sistema è stato anche un modo per fare disobbedienza civile a una cosa che non mi piaceva. Non era solo un fatto economico per me, ma una presa di posizione.
Hai notato un incremento delle vendite dopo la quarantena?
Ti posso dire la verità? Sì, ho notato un cambio di passo. Perché secondo me la lettura aiutava le persone a rallentare. Sono superstizioso, non voglio portare male, ma noto un miglioramento. Forse la gente si è ricordata dei libri.
I libri usati dove li compri?
Dai privati.
Cioè svuoti le case della gente?
Sì. Mi sono reso conto che una libreria è una cosa privata. Io ad esempio se mi ritrovassi con i libri di mio fratello o di mio padre li venderei. Spero che anche i miei tornino in circolo prima o poi, quando morirò. La mia casa è piena di libri. Perché magari ne metto alcuni da parte in libreria, me li porto a casa, li leggo e li rimetto in circolo.
Come vivi questa finestra su questa piazza della città?
Ne sono innamorato. Per me è bellissima. Io sembro spigliato, ma ho una certa timidezza e da qui riesco a vedere tutto il passaggio di là, quasi senza farmi vedere. Questo posto mi sembrava perfetto per una libreria, proprio perché è un po’ decentrato. In realtà sicuramente se una libreria si trova sulla strada di passaggio è meglio. Tutti i vecchi commercianti mi dicevano: «Non ti prendere quel posto» perché non è di passaggio. Più mi dicevano così e più mi fissavo sull’idea che dovevo aprire qui.

È arrivato il momento di raccontarti tutta la storia.
Avevo ancora la residenza da mia madre. Lei mi chiama e mi dice: «È successa una cosa grave». Io mi metto in un taxi, perché avevo pensato al peggio, e corro da lei. Arrivo a casa e trovo una raccomandata portata da un ufficiale giudiziario, che diceva che il posto era stato venduto a tal dei tali, a un nome grosso. Io ero in affitto e non sapevo che il posto fosse in vendita. Secondo la legge italiana, se tu hai un contratto commerciale hai il diritto di prelazione. Qualora il locale fosse venduto, arriva una lettera che ti concede sessanta giorni per comunicare il tuo interessamento e novanta giorni per pagare. Nonostante tutto, sono riuscito a comprarmelo e ho giurato e giuro, e lo dico anche qua. Lì c’è una foto di City Lights Bookstore a San Francisco, aperto da un grande poeta e grande libraio, che si chiama Lawrence Ferlinghetti, il quale ha creato una fondazione, perché vuole che dopo la sua morte – lui ora ha centouno anni – nel luogo dove ha aperto la sua prima libreria ci sia per sempre una libreria. Io voglio, spero, che qui ci sarà sempre una libreria e vorrei creare un vincolo. Spero di riuscirci.
Tutto questo è accaduto nel 2015 e, come dice Andy Warhol, ebbi quindici minuti di successo. Da Massimo Brai, che era allora ministro della Cultura, a chiunque tu possa immaginare scriveva di questo posto. Radio, interviste, giornali, «il Sole 24 ore», tesi di laurea sul modo di crowfunding che avevo creato. Avevo un’energia in quel momento.
Si trattava di un crowfunding creato da me, che funzionava così: una persona mi dava dieci euro e prendeva il corrispettivo in libri, oppure in buoni per acquistare libri in seguito. Semplicemente vendevo libri in un momento in cui avevo bisogno. Era un crowfunding atipico, che ho portato avanti su una piattaforma che si chiama Produzioni dal basso. La campagna si chiamava: A Piazza del Gesù Nuovo non volava una carta.