Quest’estate a Napoli avevo con me una copia di Napùl dello scrittore e giornalista Marco Perillo. In quei giorni però stavo già leggendo Le correzioni di Jonathan Franzen, più mossa da un obbligo morale verso quel libro che per tutti andava assolutamente letto che da un vero desiderio. Ma l’atmosfera un po’ cupa delle prime pagine in contrasto con il sole di quella mattinata a Posillipo mi ha spinta a cambiare. E così ho iniziato Napùl, assecondando l’abitudine che ho da sempre di leggere le opere nei luoghi in cui sono ambientate. E non me ne sono pentita. Anzi. Quando ho lasciato Napoli non avevo ancora finito di leggerlo, ma i rumori assordanti dei motorini, che sfrecciano nel traffico di Corso Umberto I, mi rimbombavano ancora in testa così come la confusione di Forcella e la luce del sole che «scavalcò la gobba del Vesuvio per andare a scetare il mare».
Questa raccolta di quindici racconti ha la capacità non solo di risvegliare in chi è stato a Napoli sensazioni già vissute ma anche di accogliere il lettore nella città come fosse una religione o un rito a cui essere iniziati.

Questo libro, come il titolo suggerisce, racconta l’incontro tra due mondi, la città di Napoli e le atmosfere orientali. Questo avviene soprattutto nell’ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, in cui Napoli viene definita «terra araba». In cosa consiste la somiglianza tra queste due realtà?
Napoli non è per nulla una città come le altre. È la sintesi di una stratificazione storica che va dai Greci ai giorni nostri, passando per le influenze di dominazioni straniere come quella francese o spagnola, ed anche araba, visto che la lingua napoletana è piena di parole che hanno tale derivazione. Napoli, non dimentichiamolo, è una città perennemente a cavallo tra Occidente e Oriente; se ne ha la percezione non appena vi si giunge con il treno, approdando a piazza Garibaldi. Una città, per certi versi, molto più simile ad una Gerusalemme o ad una Beirut, che non alle grandi capitali europee – anche se fino al 1860 è stata una di queste. È una città, negli ultimi tempi, risultata molto più vicina a Kabul – da cui il titolo, che è una crasi tra Napoli e appunto Kabul – che non ad una tranquilla realtà italiana. Una città in guerra, dunque. In emergenza continua, in battaglia, sotto bombardamento. Una città dilaniata dal suo male oscuro, quella criminalità ramificata in molte zone che è frutto del dolente passato della metropoli. Ai tempi del terrorismo islamico le cronache hanno evidenziato come Napoli sia stata spesso un crocevia – in termini di traffico d’armi, soldi o documenti falsi – per coloro che hanno messo a ferro e fuoco Parigi, Bruxelles o Berlino. Non solo, fenomeni come le “stese”, vere e proprie sparatorie in aria, in pieno giorno, per le strade, con l’unico scopo di una dimostrazione di forza, sono additabili come vero e proprio terrorismo. L’osmosi con l’estremismo islamico si completa quando alcuni gruppi di camorra hanno assunto l’aspetto estetico – pensiamo alle barbe – dei jihadisti. Nell’ultimo racconto immagino un giovane napoletano che per necessità diventa un foreign fighter per Al Qaeda. L’ho scritto molti anni prima che ciò si verificasse davvero, basti pensare alla ragazza campana che si faceva chiamare Fatima e che inneggiava alla Guerra Santa: uno di quei casi straordinari in cui la scrittura ci vede lungo e la narrativa anticipa i tempi.
Napùl somiglia più ad una mappa che ad una raccolta di racconti. Si ha l’impressione di spostarsi continuamente da un luogo all’altro, come se si attraversasse la città. Avevi in mente, scrivendolo, di far vivere al lettore questo movimento?
Esattamente. Il mio in fondo è un lavoro costruito come una città: non è soltanto una raccolta di racconti, ma una città narrativa, in cui i racconti sono come veri e propri capitoli. C’è sempre qualche situazione che ritorna, qualche personaggio che si riaffaccia, qualche fil rouge tra una vicenda e l’altra, e ogni capitolo-racconto ha il nome di un quartiere, di una piazza, di una strada, che è altamente evocativo di ciò che accadrà. Per esempio, Anticaglia è la rievocazione di un antico mito ellenico in chiave contemporanea; Concezione è la storia di una ragazza che concepisce un figlio che non potrà mantenere e penserà di vendere ad altri. E così via.

I racconti di questa raccolta sono come tessere che, incastrate tra loro, danno vita al mosaico della città di Napoli. Eppure, ogni tessera sembra formare un mosaico a sé, come se la diversità tra i quartieri di Napoli creasse più città in una. È così?
Sì, in effetti Napoli è formata da quartieri che sono come paesi piuttosto diversi tra loro. Pensiamo al Rione Sanità, una vera e propria Napoli nella Napoli. A Forcella, una sorta di kasbah orientale coi suoi problemi atavici, così diversa dalla nobile e decadente Posillipo o da Scampia, con i suoi moderni palazzoni abbandonati al loro triste destino. A supporto di ciò che sto dicendo, basti pensare che quartieri come San Pietro a Patierno, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio, Chiaiano, un tempo erano davvero paesi a sé stanti, inglobati nella città soltanto all’epoca del fascismo. Ecco anche perché Napoli è una città-mondo, una fucina di storie che non sono solo quelle dei suoi abitanti autoctoni, ma anche dei tanti stranieri che la popolano. Una città dalle contraddizioni perenni, dai mille chiaroscuri, che non si può capire se non provando a raccontarla.
Il racconto Anticaglia, che apre la raccolta, mi sembra rappresenti un mondo a sé rispetto agli altri, come se fosse una porta magica che il lettore deve attraversare per essere iniziato al mondo esoterico di Napoli. È così? Qual è il rapporto di Napoli con la magia?
È proprio così, ed è ciò che lega questa mia opera narrativa con i vari saggi sulla città dai connotati storico-artistici-leggendari che ho scritto per la Newton Comptonn negli ultimi anni. Ma, al di là di questo, non vi poteva essere introduzione migliore: Napoli è la città del mistero, dell’esoterismo, del buio misto alla luce. Tutto nasce dal fatto che è una città fortemente energetica, vicina a potentissimi vulcani, dove i quattro elementi della natura si ritrovano insieme e fanno esplodere tutte le loro forze. Lo sapevano bene gli egizi alessandrini che nel I secolo d. C. vennero ad abitare nella zona del centro storico importando le loro usanze, tra cui le arti magiche. Non è un caso che la protagonista del racconto sia soprannominata Cleopatra. Si parla di «triangolo esoterico» nel cuore del centro antico, lì dove c’era il tempio di Iside e dove sorge il luogo più esoterico – e più affasciante – in assoluto: la cappella Sansevero. Napoli è anche città di fantasmi, di sangue dei santi che si scioglie senza spiegazioni scientifiche, di benefiche presenze casalinghe che ricordano i Lares romani. C’è poco da fare: Napoli è una città intrisa di magia.
In nessuno dei racconti compare mai la Napoli sotterranea, ad accezione del teatro romano di Neapolis, eppure sembra che questa viva nei personaggi, come se l’avessero interiorizzata. Anche loro come Napoli hanno sempre un aspetto più profondo, nascosto. Come influenza la loro vita la presenza di questa seconda città?
La Napoli sotterranea è un grembo materno, una sorta di rassicurazione data dal fatto di poter sempre avere un rifugio, come accadde durante la Seconda Guerra Mondiale, quando le cavità protessero i napoletani dalle bombe e da un conflitto a tutti gli effetti e ancora più drammatico di quello d’oggi. È un rapporto naturale, poiché il tufo col quale sono fatti i palazzi della città venne estratto proprio dal suo ventre. Eppure, allo stesso tempo, la Napoli sotterranea fa paura. È il luogo dell’ignoto, del negativo, del vuoto, un labirinto in cui ci si può perdere e non tornare più. In poche parole, è la metafora perfetta della duplicità della città, dove bene e male, solarità e ombre si alternano e si rincorrono; é la città degli ibridi come le sirene, dei duplici come i Dioscuri, dei contrasti come i bianchi e i neri della maschera di Pulcinella. Il paradiso abitato dai diavoli, come si è detto, a giusta ragione, per secoli.

Leggendo Napùl si ha la sensazione che Napoli sia più grande di chi la abita, intendo dire che la presenza della città è talmente forte da schiacciare i suoi cittadini, come se non reggessero il peso della sua forza, al punto che c’è una totale contaminazione tra persone e luoghi. Penso a quando scrivi nel primo racconto che il gallerista ha il naso più grande di una campana di Santa Chiara.
Credo sia proprio così o almeno lo è per me, che sono ossessionato da questa città che rappresenta una tela di Penelope da fare e disfare ogni volta, un enigma enorme di cui non è possibile trovare la soluzione. Uno stimolo alla ricerca ma anche un buon viatico per diventare folli, se non si posseggono le chiavi interpretative per comprendere la città. Ho cercato quanto più possibile di narrare storie, di renderle universali, di sottolineare vicende umane talvolta ai limiti della realtà. Eppure, alla fine ciò che emerge prepotentemente è la città, la sua ambientazione, le sue atmosfere, le sue sfumature.

Oltre all’identificazione delle persone con i luoghi, come nella descrizione «Sporco e zozzo era il centro storico, così simile a lei. Palazzi sgarrupati, uno sull’altro, senz’aria, a ricordare i suoi capelli», mi sembra che questo fenomeno avvenga anche all’inverso: la città tende a somigliare ai napoletani. Penso all’immagine iniziale del primo racconto in cui scrivi che il sole sembra fare di testa sua.
Sono d’accordo, la città è così potente che domina su tutto. La sua identità è inestricabile. E non è la sola al mondo. Penso a New York, che si trova sul suo stesso parallelo. Come fai a parlare dei suoi abitanti senza che la sua bellezza, il suo richiamo, balzi subito all’occhio? Ed è così con Partenope. È tutt’uno con chi la abita e viceversa. C’è un invisibile cordone ombelicale che lega tutto: la lingua, la musicalità, la gastronomia, il convivere con la precarietà dovuta a un vulcano, l’appellarsi ad entità superiori o invisibili per cercare di cavarsela. Tutto questo è Napoli. Ed è per questo che non si possono raccontare i napoletani senza raccontare, fin dentro al suo midollo, la città.
L’uso del napoletano aiuta molto il lettore ad immergersi nelle atmosfere descritte e ad empatizzare con i personaggi, come succede anche leggendo Camilleri. Qual è il tuo rapporto con la lingua napoletana e come lo vivi attraverso la scrittura?
Questa forse è la caratteristica più importante di Napùl, apprezzata persino dai lettori geograficamente più lontani: un mix di napoletano e italiano, reso sia dal punto di vista fonetico che delle strutture grammaticali. Come nel caso di Camilleri, non importa che qualcosa non si capisca. Basta il ritmo, la musicalità, il lasciarsi andare, poi tutto si riannoda. Sono contento che tutto questo arrivi, si percepisca e lo si veda come un valore aggiunto dell’opera. Scrivendo di Napoli non potevo non tener conto della sua fonetica, delle sue inflessioni. Hai detto benissimo: lingua e non dialetto, con una sua dignità, le sue regole, le sue parole che derivano dallo spagnolo, dal greco, dal latino, dal francese, dall’arabo. Una lingua che è stata persino ufficiale fino alla caduta del Regno delle Due Sicilie: una lingua fortemente identitaria, tanto che per noi napoletani è ancora la prima lingua, quella che parliamo più spesso: si pensa in napoletano, si ragiona in napoletano. È una forma mentis, è una melodia antica, stratificata come la città. E pensare che c’è ancora qualcuno che si vergogna di parlarlo, che lo identifica come qualcosa di troppo popolare, di cafone! Non è così: la lingua napoletana è nobilissima. Come altrettanto nobile è la città.
La struttura di Napùl ricorda molto il taglio della nostra rivista, in cui città, cultura e luoghi vengono afferrati insieme e raccontati in un unico movimento. Pensi ci sia bisogno oggi di riconnettere questi tre elementi?
Assolutamente sì. L’ho vissuto sulla mia pelle. Quand’ero ragazzino amavo fare lunghe passeggiate per la città che un giorno avrei raccontato. Notavo bellezze semidistrutte – quante ve ne sono ancora –, oltraggiate dai rifiuti, dalla dimenticanza, da un voluto degrado, dalla disorganizzazione. Quanti posti meravigliosi chiusi e caduti nell’oblio, penso al cimitero delle Fontanelle. Eppure, nel tempo, anche grazie all’avvento dei social e del turismo low cost, i turisti si sono riversati a Napoli, l’hanno premiata, l’hanno amata, apprezzata, le guide hanno lavorato come non mai e non è un caso che ogni anno mi sia stato commissionato un saggio sulle bellezze storico-culturali della città. Perché solo capendo cosa si cela d’importante e profondo dietro le pietre, si riesce a riscoprire la loro importanza. Solo svelando le storie le stesse pietre sono in grado di parlare, di assumere valore, fascino. A Napoli c’è una scacchiera in marmo bianco di epoca romana incastonata in un antico campanile, quello della Pietrasanta. Essa è perennemente imbrattata dai writers perché non sanno di cosa si tratti. Eppure, se lo sapessero, la rispetterebbero. In ogni caso, lo stretto legame fra città, luoghi e cultura, per quanto riguarda la mia esperienza, un po’ mi ha premiato. Nel corso di una delle mie presentazioni un’adolescente si alza e mi ringrazia, dicendo che prima odiava Napoli, credendo che fosse un luogo che non offrisse nulla, da cui fuggire al più presto. E invece, dopo aver letto ciò che scrivevo, insieme con me ha tolto il velo e ha potuto vedere la bellezza nascosta. Oggi non vuole più andarsene via.

Napoli è una Città dai tanti problemi ma sa essere accogliente e calorosa con i suoi visitatori.
Chi decide di venire a Napoli, deve farlo senza tenere conto degli stereotipi detrattivi che girano sulla Città.
buon prosieguo!
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