“La nostra folle, furiosa città”: il vortice della periferia di Guy Gunaratne

Uno schiaffo in faccia, un tormento interiore continuo e crescente, così si presenta La nostra folle, furiosa città, brillante opera prima del giornalista e scrittore inglese Guy Gunaratne, pubblicato in Italia da Fazi Editore la scorsa estate, segnata inevitabilmente da un profondo senso di liberazione dopo la prigionia del lockdown. Un periodo particolare quindi per consegnarlo in pasto ai lettori, bisognosi di evasione e leggerezza. Il racconto infatti ci trasporta subito in un vortice di violenza e grigiore, che non lascia alcuno spiraglio di luce, facendoci annaspare per 288 pagine in cerca di un appiglio, regalandoci una scrittura originale, ma non propriamente da spiaggia. 

Le pagine si snodano lungo quarantotto ore di vita di tre ragazzi adolescenti, amici, figli di culture diverse del mondo, portate dai loro genitori ad incontrarsi nella periferia nord di Londra, cupa, matrigna implacabile di una multiculturalità generatrice di scontri ed allo stesso tempo matrice fertile di relazioni forti e durature. È per l’appunto il caso di Selvon, promessa dell’atletica e figlio di genitori creoli, dell’aspirante rapper Ardan, nelle cui vene scorre sangue irlandese, e di Yusuf, Yoos per gli amici, il cui cuore custodisce gli insegnamenti dell’illuminato Abbà, compianto imam pakistano della moschea del quartiere. Alle loro vicende si sommano diversi flashback, necessari a dare un’inquadratura più precisa alle dinamiche presenti. Quelli di Nelson, padre di Selvon, con un passato nelle lotte degli immigrati del Commonwealth contro i sostenitori del «Keep Britain White», ormai paralitico ed incapace di parlare a seguito di un ictus, e quelli di Caroline, che dopo aver rinnegato le sue origini macchiate dal sangue versato dal terrorismo dell’IRA (Irish Republican Army) e aver lasciato Belfast, si rifugia nell’alcolismo, sorda persino alle richieste di attenzione di suo figlio Ardan, frutto di un amore passionale quanto violento.

Gunaratne racconta attraverso cinque punti di vista differenti, appartenenti ai cinque protagonisti, una storia intima e furiosa, interrompendo soltanto una volta il flusso narrativo così strutturato con un paragrafo in terza persona dedicato ad Irfan, il problematico fratello maggiore di Yusuf, figlio come gli altri di una violenza che non gli lascia scampo, e che è relegato quasi ad oggetto di scena di un vortice di eventi in cui si lascia annegare per trovare la propria possibilità di redenzione. 

Il romanzo ribolle di attualità, grazie ad una penna in grado di snocciolare gli avvenimenti che si susseguono veloci tra una partita a pallone nel cortile fra i grigi palazzoni dello Stones Estate, la moschea, le insegne luminose delle lavanderie H24 e i take away intrisi di puzza di fritto e di degrado, in maniera estremamente contemporanea. La lingua infatti è quella dello slang, dei neologismi, del modo di parlare proprio della sottocultura giovanile che popola la periferia londinese, in bilico fra la voglia di riscatto e la melma putrefacente costituita da xenofobia, razzismo, radicalizzazione religiosa e mancanza di prospettive, che plasmano le persone ad immagine e somiglianza delle strutture fatiscenti e del clima soffocante in cui sono costrette a vivere. 

«Ci sono parti di questa città che creano la forma di una persona, la plasmano con la dura saggezza e la distaccata crudeltà. Vedono con gli occhi delle luci della città e valutano le loro schiene sui muri di qua. Bevono la pioggia per irrigidire le loro fibre e temprarsi rispetto alle mille follie».

La storia raccontata prende le mosse da un vero fatto di cronaca che nel 2013 sconvolse l’opinione pubblica inglese e lo stesso autore: la barbara uccisione, da parte di due fondamentalisti islamici, di Lee Rigby, un ex soldato di 25 anni, a Woolwich, nella periferia sud di Londra. I personaggi di Gunaratne, gli abitanti di questa città folle e furiosa, sono vittime di un sentimento di identificazione con quegli assassini: parlano la stessa lingua, hanno le medesime origini, crescono fra gli stessi palazzi, hanno davanti gli stessi orizzonti e sono abituati a convivere con la paura di sfociare nella stessa rabbia violenta. Lottano con se stessi per sfuggire  un’angoscia esistenziale che allo stesso tempo li costituisce e li mantiene vivi. 

«La mano di Allah, si definiva, ma a noi pareva uno appena uscito dal cancello di scuola nostra. Aveva le nostre stesse scarpe da ginnastica. Parlava il nostro stesso slang di strada. Non era stato il sangue a scioccarci. Era stata la sua faccia che come uno specchio rifletteva i nostri cuori confusi e spaventati».

Anche Guy Gunaratne scrive per esperienza, essendo originario dello Sri Lanka e cresciuto a Neasden, area suburbana a nord-ovest di Londra, ed avendo per ciò stesso respirato e vissuto in quel crogiolo di sapori, odori, influenze culturali differenti, da cui scaturisce un’unica comunità multiculturale ed in qualche modo compatta, riconoscibile e in continuo fermento.

La lettura di questo romanzo è difficile perché la scrittura è diretta e sincera, non ammette sconti e arriva dritta come a scuoterci la testa e a guardarci dritto negli occhi. L’argomento trattato è di estrema attualità e non possiamo voltarci dall’altraparte mentre leggiamo. Non possiamo cambiare canale, come faremmo davanti a scene di scontri violenti mandate in onda al telegiornale. Chi legge La nostra folle, furiosa città deve essere pronto a non lasciarsi alle spalle la realtà: non si tratta di una lettura di evasione, ma piuttosto di invasione.

E se l’assurdo epilogo di Yoos apre paradossalmente uno squarcio di speranza nell’intera vicenda esistenziale degli altri protagonisti, la corsa senza sosta di Selvon, il grime veemente di Ardan, la presa di coscienza di voler rinnovare il rapporto con il figlio di Caroline e l’amore verso la moglie Maisie, che è sempre stato il motore propulsore di Nelson, rappresentano per ognuno di essi l’ancora a cui aggrapparsi per fuggire da quel «tamburo spaventoso, irascibile spirito famelico» che altrimenti li trascinerebbe inesorabilmente verso il baratro. 

La nostra folle, furiosita città, Guy Gunaratne,
Fazi editore,
Roma, 2020, 288 pagine, Euro 18, 50

Pubblicato da Lavinia Micheli

Mi piacciono le cose semplici perché credo fortemente che da esse si sprigionino i valori più grandi. Cerco di applicare questa stessa filosofia al mio modo di comunicare scrivendo: "Le parole sono importanti!" ed una buona comunicazione è alla base di qualsiasi rapporto, da quello lavorativo a quello amoroso. Sono incuriosita dai meccanismi sociali e cerco di apprendere da tutto ciò che la vita può offrirmi, per questo sono laureata in Cooperazione Internazionale e Sviluppo e in Antropologia Culturale. Amo viaggiare (spesso con la mente) e scoprire altre sensibilità, altri punti di vista sul mondo e sulla vita. Ho vissuto per quattro mesi nella Sierra Norte di Puebla (Messico) per la ricerca della mia tesi di laurea sull'empowerment femminile delle donne indigene del luogo. Non smetto mai di stupirmi e di sorridere.

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