Roma: tra le geometrie e le arterie del Villaggio Olimpico

Ventinovesimo giorno di quarantena. Rinchiusa nella mia stanza in affitto al Villaggio Olimpico, tra una tazza di caffè e l’altra, mi accosto alla finestra, attendendo che qualunque minimo avvenimento possa presentarsi alla mia vista. Con l’isolamento e la solitudine i sensi si sono forse assottigliati e la più evidente modificazione percettiva dell’ambiente è di tipo uditivo. Le grandi finestre della mia camera si affacciano sul viadotto di Corso Francia, solitamente martoriato dal traffico e all’improvviso deserto in maniera surreale. In questo silenzio ho potuto assistere al lento germogliare delle foglie sui rami e imparato a distinguere il mite cinguettio dei passerotti da quello festante e scomposto dei pappagalli.

Sporgersi dallo stretto balconcino di via Portogallo significa vedere riflessa e rifranta l’immagine del proprio palazzo in innumerevoli altre facciate identiche, ricoperte di mattoncini arancioni. Osservando di nascosto i ciclamini colorati, le piante grasse, le maschere apotropaiche e i panni stesi sui balconi dei vicini, cerco di immaginarmi le vite e le solitudini degli altri, quasi fossimo in un romanzo di Georges Perec o Eshkol Nevo. E studiando la perfetta simmetria che sembra ordinare le vie di questo quartiere incastonato tra i Parioli e il Tevere, ripenso alle lunghe esplorazioni attraverso questi luoghi, mentre stavano iniziando a fiorire quelle possibilità attese da una primavera romana.

Abito al Villaggio Olimpico da pochi mesi e, quando l’ho attraversato la prima volta, ho avuto l’impressione di perdermi in strade aggrovigliate e indistinguibili tra loro, d’impigliarmi in una serie di contraddizioni che non riuscivo a sciogliere. Con il tempo ha iniziato ad apparirmi come un unico e grande organismo pulsante. Un grosso e complicato essere vivente, il cui ombelico potrebbe forse essere il Palazzetto dello Sport, con la sua pianta circolare e la copertura sferica. Progettato da Annibale Vitellozzi e Pier Luigi Nervi, la sua costruzione doveva rappresentare l’atto d’amore con cui portare alla luce il quartiere in vista dei Giochi del 1960. Ma negli anni il cordone ombelicale è stato reciso, e il Palazzetto trascurato, quasi del tutto dimenticato, nonostante continui a rappresentare, con le sue sembianze di misteriosa medusa fluttuante, il baricentro che tiene in equilibrio l’intera zona.

A poca distanza, in via De Coubertin, si apre come un enorme occhio l’Auditorium del Parco della Musica, progettato da Renzo Piano e inaugurato all’inizio del nuovo Millennio. Osservato dall’alto assomiglia ad una grande pupilla, circondata da ciglia di piombo, e pare custodire al suo interno tutte le possibilità dello sguardo: il concerto, il teatro, il cinema, la letteratura. E come il senso della vista apre al mondo, così l’Auditorium si dischiude alla città, pronto ad accoglierla e ospitarla nel fermento dei numerosi eventi organizzati nelle sale, nel silenzio concentrato della bibliomediateca, o nella vivacità colorata della fornitissima libreria Notebook. 

Il flusso del Tevere, che racchiude il quartiere e segna un confine a nord, sembra essere un’epidermide liquida sul quale la notte si riverberano le luci della città. Una pelle vibrante e sottile che non soltanto isola e protegge, ma mette in connessione, grazie all’attraversamento di Ponte Milvio, romantico e brulicante di gente, o del monumentale Ponte Flaminio, che Nanni Moretti in Caro Diario deve percorrere due volte al giorno con la sua vespa per sentirsi bene.

Solo addentrandosi tra le vie alberate e il complesso di case, che fu costruito per ospitare gli atleti partecipanti alle Olimpiadi, è possibile scoprire il cuore e le arterie che animano questo luogo. Via Germania, via Bulgaria, via Turchia, via Unione Sovietica…a primo impatto le strade danno l’impressione di differenziarsi soltanto per la nazione che dà loro il nome. Ma con l’avventurarsi e lo smarrirsi nell’intrico delle abitazioni emerge lentamente un variare delle geometrie e dei dettagli a seconda della zona: il colore diverso delle mattonelle ad ogni ingresso, il rincorrersi infinito dei portici, le vetrate che lasciano intravedere l’incrociarsi continuo delle scale, il motivo romboidale sui sanpietrini di Piazza Grecia.

Le prospettive e i colori del quartiere hanno attirato lo sguardo registico, che ne ha fatto spesso un set cinematografico. Particolarmente significativa è la scelta di Sergio Castellitto di ambientare il suo Nessuno si salva da solo tra queste strade. Nascendo negli anni Sessanta come un simbolo di speranza nel futuro e attraversando poi una fase di degrado e di riqualificazione, il Villaggio Olimpico non poteva che offrirsi come il luogo metaforicamente più adatto a fare da sfondo alla lacerante storia d’amore dei due protagonisti.

Tra le viscere di questo quartiere, tra i rifiuti e l’erba alta, capita spesso di ritrovare oggetti abbandonati o perduti, bambole, spazzole, zainetti, ed ogni volta mi domando quale storia vi si celi, e a chi appartenessero. Mi viene da pensarli come tracce delle tante forme di vita che si incrociano in questi luoghi, in cui studenti e precari affittano stanze più o meno economiche, sullo stesso pianerottolo di anziani che vivono qui da decenni, o nella stessa via in cui una famiglia rom si ferma per qualche tempo con la sua roulotte, ballando musiche gitane con i propri figli.

Il tessuto urbano e vivente del Villaggio Olimpico è fatto di case e mattoncini arancioni, dei ragazzi che si preparano a prendere la patente guidando nei larghi parcheggi, delle voci romanesche che ogni venerdì al mercato vendono carciofi, pecorino e borse in pelle. Appena apro bocca per comprare qualcosa, il mio accento nordico immediatamente riconoscibile diventa il pretesto per una lunga e allegra conversazione.

Ed è stata una sorpresa scoprire che bastasse entrare due volte nello stesso bar perché il mio nome venisse ricordato: così mi sono sentita accolta in una città splendida e difficile come Roma, condotta per mano in una realtà labirintica come il Villaggio Olimpico, che lentamente si sta districando per assumere contorni sempre più riconoscibili come «casa».

Prova generale

Gonne strette, capelli folti, sigarette lunghe tra indice e medio, eyeliner sulla palpebra mobile, orecchini a cerchio. Qui le ragazze sono tutte belle. La maggior parte studia recitazione alla Silvio D’Amico, come la padrona di casa, Olimpia Rota Mirizzi, e tutte le altre, qualsiasi cosa facciano nella vita, non fanno che straparlare di Xavier Dolan e di Vinyasa yoga. Qui le ragazze sono tutte brillanti.

Abbasso lo sguardo sulla mia tuta strategicamente nera e larga e penso: qui, non c’entri un cazzo Agnese. «Il suo prosecco» dico, porgendo un bicchiere di Foss Marai a un ragazzo davanti a me.

Qualche ora fa mi ha chiamato Giacomo Rota Mirizzi, famoso attore di teatro negli anni Novanta, chiedendomi di aiutare sua figlia per una festa che voleva improvvisare a casa, dopo il suo ritorno da uno stage alla Royal Centre School of Drama. Mi avrebbe pagata bene ovviamente e si scusava per il poco preavviso, di sabato poi. 

Sono ormai due anni, da quando ho finito il liceo, che lavoro come cameriera da loro e ci sono abituata. Assecondare i capricci di Olimpia non è affatto facile, anzi, spesso ho voglia di spaccarle le gengive ma amo lavorare in questa casa. Amo farlo perché è bellissima. Si trova nel vicolo di Febo, vicino all’incrocio con via dei Coronari, così quando esco a tarda notte posso passare davanti Piazza Navona e godermela nel silenzio notturno. E mi dimentico pure delle risposte di merda di Olimpia. Mi dimentico di tutto.

Acquerello di Alessandra Donato

«Agnese! La cucina fa schifo. Te ne sei accorta? Devi fare un caffè a loro» mi urla Olimpia puntando l’indice in direzione di tre ragazzi che vengono verso di me. Devono essere nuovi amici, mai visti prima. Metto subito le cialde e preparo le tazzine.

«A me macchiato per favore». A dirmelo è un ragazzo alto con una barba rossiccia. Mio Dio, mi sta sorridendo e ha un sorriso meraviglioso. Poi, riprende subito a parlare con i suoi due amici della sua vacanza in Bhutan.

Mi posiziono di fronte a lui e cerco di non dargli mai il mio profilo, soprattutto il sinistro. Non mi importa niente di quello che dice lo psicoterapeuta, io il naso me lo rifaccio. E come. Non posso passare la vita a studiare come muovermi in base alle condizioni di visibilità di quella gobba sul naso ereditata da mia zia Maria Assunta. Ovvio che sono insicura se devo pensare a tutti questi accorgimenti. 

Il caffè è pronto. Lo servo. I ragazzi lo bevono velocemente e fanno per andarsene. Mentre gli altri due continuano ad andare avanti, lui si ferma, torna indietro e raccoglie i fazzolettini con cui i suoi amici si erano asciugati la bocca e che avevano lasciato sui piattini.

Acquerello di Alessandra Donato

«Quando facevo il cameriere a Kensington, odiavo quando i clienti non buttavano i fazzoletti. È schifoso dover toccare la loro bava». «Ah, ma non si preoccupi. Sono abituata». «Non dovresti abituartici invece. È una cosa da cafoni. E non darmi del lei. Abbiamo la stessa età». Mi metto una ciocca di capelli dietro l’orecchio e abbasso lo sguardo. «Credo di sì». «Come credi? Mi sto facendo crescere un po’ troppo la barba ma guarda che ho vent’anni anch’io! Dai, ci vediamo dopo Agnese».  Oddio: si è ricordato il mio nome.

Lo vedo allontanarsi e andarsi a sedere in mezzo agli altri. Che bella voce che ha. Profonda. Sicuramente va in Accademia con Olimpia.  Non lo faccio mai a lavoro, però ho proprio bisogno di vino. Mi verso un po’ di Traminer e continuo a guardarlo. Olimpia siede vicino a lui e gli tocca il braccio mentre gli parla. Lei è brava in queste cose. Ed è così bella. A volte vorrei tanto essere come lei. 

Dopo dieci minuti di conversazioni e risate, lui si alza dal divano e si mette per un po’ in piedi davanti al camino acceso. Vedo che uno dei suoi amici gli fa un cenno, con fare preoccupato. Lui si è improvvisamente incupito, si passa nervosamente la mano davanti la bocca. Poi, dal nulla, sbotta.

«Ma la volete smettere?» urla. Silenzio improvviso. «Non vi sopporto. Davvero stasera vi siete agghindati, avete preso una bottiglia di vino dalla cantina dei vostri genitori e siete venuti qui a raccontarvi queste stronzate? Quant’è che sto qui: due ore? Non ne posso già più delle vostre filosofie di vita, dei vostri traguardi, dei vostri viaggi, della vostra solarità ostentata e della vostra determinazione. Mi avete già rotto il cazzo con la vostra ansia di fare cose e di avere successo. Mi fate venire voglia di fallire sistematicamente e con gusto, in tutto quello che faccio. Mi fate venire voglia di non fare niente e di non saper fare niente. Mi fate venire voglia di non essere nessuno».

Ha il fiatone e i suoi ricci si scuotono un po’ quando parla. Non riesco a smettere di guardarlo. Quante volte avrei voluto gridare le sue stesse cose in queste occasioni. Lo psicoterapeuta me lo dice sempre che il mio problema è che ho paura di tirar fuori quello che ho dentro, che parlo sempre sottovoce. 

Mi verso un altro bicchiere di vino. Qualcuno nel frattempo ridacchia coprendosi la bocca con il palmo.  Altri invece sono del tutto paralizzati e lo osservano timorosi di rompere quella bolla di silenzio che si è creata.

I suoi occhi sono ferrigni. Ed è così teatrale nel muovere le mani! Distoglie lo sguardo e lo rivolge verso il fondo della stanza e… oddio sta guardando me!

«E poi sapete? Ho proprio voglia di innamorarmi. Secondo me l’amore non è tanto questione di diventare una cosa sola con l’altro. Secondo me l’amore è questione di incastro. Tu te ne stai per conto tuo e poi arriva qualcuno, che anche lui sta per conto suo ma guarda caso si adatta perfettamente a te. E la cosa bella è che i vostri punti di contatto sono possibili proprio grazie al vostro essere diversi: dove uno ha una rientranza l’altro ha una sporgenza, dove uno avanza l’altro arretra. Ma rimanete distinti. Ora vi sto annoiando, forse preoccupando. Non pretendo di trovare l’incastro della mia vita stasera ma qualcuno che si sia riconosciuto nelle mie parole sì. E che sia disposto ora a condividere il fondo nero di un bicchiere di liquore, con me. Chiunque tu sia, non avere paura. Io non ne ho. Ma non posso rimanere ancora in questo festival della dissimulazione. Voglio la vita vera, anche quando non è un aneddoto brillante con cui fare bella figura alle feste. Ti aspetto qui».

Solo ora distoglie lo sguardo dalla mia parte e si allontana, va verso l’arco della porta. I suoi passi rimbombano. Tutti sono come rapiti. Il suo viso è paonazzo dal fervore. Si gira verso di noi con aria di sfida e le mani congiunte sulla cintura.

Sarà il Traminer ma io non ho alcun dubbio. 

Mi slaccio il grembiule e comincio a camminare verso di lui. È questione di istanti eppure mi sembra che il tempo stia passando lentissimo. Tutti si girano a guardarmi.

Forse è questo il momento che ho sempre aspettato.

È strano: mi sembra quasi che non sia io la ragazza che ora avanza verso questo tipo carismatico, così, spavaldamente, davanti a tutti. Eppure, allo stesso tempo, è come se non fossi mai stata me stessa come in questo momento. Ho il mento alto, il passo sicuro, non mi guardo intorno né dietro. 

Arrivo dinanzi a Simone. Lui mi rivolge quei suoi occhi, bellissimi. Vorrei poter vivere tutta la vita in questo punto. 

Ma a poco a poco, la sua espressione cambia. Si fa preoccupata. Non capisco. Poi si guarda intorno con improvviso imbarazzo e avvicinandosi un po’ a me, abbassando la voce, mi dice: «Era solo la prova di un monologo».

Arte senza Spazio

 

A seguito dell’impossibilità della presenza fisica dello spettatore nello spazio, i musei e le istituzioni culturali italiane si sono attrezzati per fornire un programma didattico ed espositivo alternativo. Alcune personalità che si occupano della comunicazione dell’arte in Italia, come Giulio Alvigini, che gestisce la pagina Instagram “Make Italian Art Great Again”, hanno avuto obiezioni sulla “corsa al digitale” di alcuni musei, ritenendo fosse in ritardo e non adeguata da un punto di vista qualitativo rispetto ad altre istituzioni con un rodato e solido programma online, anche osservando macroscopicamente la realtà internazionale.

È invece mia convinzione che la presenza in rete o sui canali di comunicazione non sia indispensabile per la completezza di un’offerta culturale. Anzi, penso che, senza l’introduzione di tecnologie specifiche, che diano alle mostre delle modalità didattiche e culturali efficaci e inedite, si tratti soltanto di una strategia di adeguamento alle tendenze comunicative del momento, senza portare un vero arricchimento al programma didattico e culturale dell’istituzione.

A questo proposito alcuni musei hanno scelto consapevolmente di non utilizzare canali digitali per la diffusione della cultura, nella convinzione che l’esperienza dello spettatore nello spazio museale può essere, a ragione, l’unica priorità. 

È necessario dunque che entrino in gioco tecnologie come il Gigapixel, la Realtà Aumentata, la Realtà Virtuale, il Machine Learning o l’Intelligenza Artificiale, che possono essere modalità di fruizione non approvate da tutti, che possono dividere il pubblico e che comunque dipendono interamente dalla qualità del progetto dei curatori e ricercatori che le applicano, ma che permettono l’esperienza delle opere in un modo nuovo, con l’aggiunta di elementi in più impossibili da sperimentare prima.   

Foto di Ilaria Palmieri

Che cosa succede quando, per cause di forza maggiore, l’unico ambiente visitabile è lo spazio della rete? Le seguenti realtà culturali italiane hanno organizzato una serie di contenuti e iniziative per far fronte a questa chiusura. Tali esempi non saranno giudicati in senso qualitativo, ma la breve analisi sarà piuttosto incentrata sulle modalità comunicative e didattiche, con lo scopo di comprendere il ruolo della presenza digitale delle istituzioni, profondamente e velocemente cambiato in questa situazione di emergenza, influenzando il dibattito sulla presenza all’interno della società e sulle modalità comunicative dell’istituzione culturale del futuro. 

L’arte non si è fermata. È questo un vero segnale della necessità primaria da parte delle persone di fruire di contenuti artistici? È questa la prova che l’arte e la creatività hanno un ruolo fondamentale per la collettività nei momenti più difficili?

Se si vuole adottare invece un approccio più cinico e pessimista, un aspetto da considerare è quello dell’incapacità delle persone di prendersi una pausa, di fermarsi a riflettere su ciò che si è visto durante la propria vita, senza il bisogno di continuare ad immagazzinare nuove informazioni, nuove immagini, nuove analisi e narrazioni sulle opere, nella convinzione e fiducia che si tornerà presto negli spazi dell’arte.

Se questa possibilità non viene contemplata l’offerta museale digitale durante questa emergenza può essere interpretata come una risposta alla dipendenza da parte delle persone al bombardamento mediale nei tempi dello streaming illimitato, della produttività forzata e della lotta continua al tempo morto e alla noia.

Vediamo alcune iniziative messe in campo delle realtà culturali più importanti in Italia. 

Pinacoteca di Brera, Milano 

Pre: La Pinacoteca di Brera, dopo l’assegnazione della carica di direttore a James M. Bradburne nel 2015, ha iniziato una graduale trasformazione sia a livello di allestimento dello spazio della galleria, sia di immagine, promozione e proposta dei contenuti digitali. Sul sito web della Pinacoteca è infatti possibile visualizzare l’intera collezione con la possibilità di selezionare uno specifico periodo di realizzazione delle opere, o un determinato artista, tecnica o sala espositiva con l’opzione di visionare anche gli artefatti non esposti all’interno dello spazio della Pinacoteca. 

Un’altra funzione, introdotta per la prima volta dalla piattaforma Google Arts and Culture, permette di vedere immagini di alcune opere acquisite in altissima definizione, con la possibilità di ingrandire alcuni dettagli e particolari fino a 40 volte la loro misura reale.  

Post: Appunti per una resistenza culturale

È questo il titolo del programma proposto dalla Pinacoteca. Iniziato il 26 Febbraio scorso viene presentato dal direttore Bradburne con la seguente affermazione: “Non posso che guardare il museo chiuso con una particolare emozione. È giustificabile, ma questi sono i luoghi dove le persone vanno anche per consolazione, per darsi forza. Il valore simbolico è basilare, una città deve dimostrarsi pronta a reagire. Ci vuole resistenza, coraggio e coesione sociale.”

Si tratta di diversi contenuti di tipo video che si concentrano talvolta su specifiche opere della collezione, talvolta presentano particolari dell’allestimento e si configurano generalmente come un approfondimento in pillole da parte di guide, artisti o esperti sull’istituzione milanese.  

Fondazione Prada, Milano – Venezia 

Francesco Vezzoli, Love Stories, Credits Dimitrios Kambouris/Getty Images Entertainement

Pre: La presenza digitale della Fondazione Prada inaugurata nella sua sede di Milano nel 2015 e di Venezia nel 2011, si riassume con la condivisione sui canali dei social network, in particolare Instagram e Facebook, senza però la proposta di veri e propri programmi digitali di fruizione delle mostre o delle opere, dedicandosi ad una presentazione dei programmi espositivi passati e presenti con la proposta sul sito web di comunicati stampa e video di presentazione delle mostre o iniziative culturali. 

Post: Rassegna streaming // Serie Podcast 

La Fondazione ha pensato di offrire, dal momento della chiusura degli spazi, una rassegna streaming realizzata in collaborazione con la piattaforma MUBI che contiene film d’autore provenienti da ogni parte del mondo. La rassegna inizia con Perfect Failures, una serie di 6 film incompresi al momento della loro uscita, accompagnata da Life-Edit, A Companion to Streaming and Solitude, un testo di Costanza Candeloro focalizzato sull’esperienza individuale e collettivo dello streaming. 

La Serie Podcast comprende Readings, e viene identificata come un’evoluzione dell’attività editoriale di Fonazione Prada, definita “antologia sonora composta da testi di studio, saggi critici e racconti d’autore commissionati dalla fondazione nell’ambito dei propri progetti multidisciplinari.” 

La Fondazione Prada propone inoltre il progetto Love Stories – A Sentimental Survey by Francesco Vezzoli, a cura di Eva Fabbris, in cui sull’account Instagram dell’istituzione l’artista esplora attraverso il linguaggio dei social, e in particolare dei sondaggi delle stories, lo stato emotivo, amoroso e psicologico di una vasta comunità online.

Triennale, Milano 


Goldschmied & Chiari, Azione, 2020, foto di Gianluca di Ioia

Pre: Il sito web della Triennale di Milano permette l’accesso alla collezione, all’archivio fotografico e all’archivio audiovisivo dell’istituzione grazie ad una completa digitalizzazione delle diverse risorse. 

Post: Decameron: storie in streaming 

Partendo dallo spunto del Decamerone di Giovanni Boccaccio, in cui un gruppo di giovani nel 1348 per dieci giorni si trattengono fuori da Firenze per sfuggire alla peste nera e a turno si raccontano delle novelle per trascorrere il tempo, la Triennale invita artisti, designer, architetti e intellettuali ad abitare gli spazi vuoti del museo per sviluppare una narrazione culturale. Le diverse novelle vengono trasmesse in diretta sul canale Instagram della Triennale. 

Museo Egizio, Torino 

Pre: Il sito del Museo Egizio propone diverse modalità didattiche di approfondimento culturale. È possibile scorrere una linea del tempo multimediale interattiva della storia del museo o accedere all’archivio digitale di molti artefatti e documenti tra cui il database consultabile dei papiri. 

Post: Le passeggiate del direttore 

Il direttore del Museo Egizio Christian Greco è il protagonista di video pubblicati ogni giovedì sul canale YouTube dell’istituzione torinese in cui vengono mostrate e raccontate le sale espositive concentrandosi su particolari opere o tematiche. 

Fondazione Musei Civici, Venezia 

Pre: La Fondazione Musei Civici di Venezia in collaborazione con Google Arts and Culture, piattaforma culturale digitale online dal 2011, propone la possibilità di effettuare una visita virtuale dei seguenti edifici: Palazzo Ducale, Cà Rezzonico – Museo del Settecento veneziano, Cà Pesaro – Galleria Internazionale di Arte Moderna, Palazzo Mocenigo, Museo Correr, Museo del Vetro, Museo di Storia Naturale e Palazzo Fortuny. L’utente ha la possibilità di visionare in modalità Street View le sale espositive, con la possibilità di visionare le opere acquisite in risoluzione Gigapixel. 

Post: Con la creazione della campagna #IoRestoaCasa con #MUVE vengono proposte non tanto iniziative ad hoc, ma piuttosto una promozione degli strumenti digitali già utilizzati dalla fondazione (visite virtuali, bollettini scientifici, catalogo online delle collezioni) associati ad una newsletter giornaliera per chi ne faccia richiesta contenente “una storia, un gioco, un’opera” e alla pubblicazione di contenuti sui canali social. 

MAXXI, Roma 

Pre: Le collezioni del MAXXI sono visionabili sul sito web dell’istituzione romana, con una suddivisione tra le sezioni arte e architettura. È inoltre disponibile uno spazio dedicato al Centro Archivi di Architettura, laboratorio sperimentale che collabora con l’Associazione nazionale degli archivi di architettura contemporanea per valorizzare e diffondere i documenti della cultura architettonica del passato prossimo e del presente. Oltre ad una sala di consultazione offre la possibilità di accedere ad un archivio digitale di disegni, modelli, fotografie e documenti consultabile online. Inoltre, il sito web contiene le schede biografiche delle personalità artistiche legate al MAXXI. Essendo partner di Google Arts and Culture, anche il Museo delle Arti del XXI secolo permette di effettuare un tour virtuale degli spazi espositivi con la possibilità di sfruttare la tecnologia Gigapixel per la visione di particolari inediti delle opere. 

Post: Liberi di uscire col pensiero 

Il programma del MAXXI successivo alla chiusura degli spazi fisici del museo comprende diverse iniziative attuate grazie al potenziamento dei canali social dell’istituzione con un particolare sfruttamento del canale YouTube e della IGTV di Instagram. Le tematiche principali sono la narrazione delle opere più importanti della collezione, il racconto dei 10 anni del MAXXI attraverso i suoi protagonisti in collaborazione con Sky Arte, le icone di architettura e design riassunte in pillole dei curatori del museo, laboratori per le famiglie e interviste agli autori di Libri al MAXXI. 

Immagine di copertina: Filippo Minelli, Bold Statements, VDNKH, Mosca

Storie di un isolamento parigino

Molti mi invidiano la vista, nessuno le scale.

Frédric Chopin

Chissà cos’ha provato Erika, quando, lo scorso marzo, un attimo dopo essersi laureata, si è affacciata alla finestra della sua mansarda. Chissà se quella sera i tetti di Parigi le sono sembrati diversi. Nessuna proclamazione solenne in un’aula universitaria, né una corona d’alloro a cingerle la testa, ma solamente il silenzio di una città vista dall’alto.

La mansarda di Erika

Erika ha terminato così, in piena solitudine, il suo percorso di studi durato cinque anni: un doppio titolo in giurisprudenza con gemellaggio tra l’università di Bologna e quella di Paris Nanterre. Nella capitale francese poi ha deciso di restare a vivere, tanto che nei prossimi mesi sosterrà l’esame di avvocatura in Francia.

Mi confessa che, da quando è in isolamento da sola nella sua mansarda, ha iniziato a vivere questo periodo come un’opportunità. Parigi è una città che ti domanda sempre di andare veloce. Finalmente ora può ritrovare un po’ di pace.

In Francia il pericolo del Coronavirus non è stato percepito come reale fino alla dichiarazione di Macron del 12 marzo, con la quale il presidente francese ha definito quest’epidemia come la più grande crisi sanitaria che la Francia abbia mai affrontato nell’ultimo secolo. Dopo aver annunciato la chiusura delle scuole ed altre restrizioni, non ha né rimandato il primo turno delle elezioni municipali, che si sono regolarmente tenute domenica 15 marzo, né ha annunciato l’obbligo della quarantena, che è stato decretato solamente il 17 del mese. Da quel giorno sono molti i ragazzi che trascorrono l’isolamento nelle proprie mansarde, in spazi che misurano da 9 a 30m² o poco più, quando l’appartamento è condiviso.

Ci sono istruzioni per l’uso, come direbbe lo scrittore Perec, che conosceva bene gli spazi parigini, per affrontare l’esperienza dell’isolamento in uno spazio così piccolo senza impazzire?

Foto di Marta Bevacqua

La risposta sembra nascondersi in questo scatto della fotografa Marta Bevacqua durante la sua quarantena a Parigi. L’immagine suggerisce l’unico antidoto possibile. La soluzione è da ricercare nella creatività e nell’inventiva, in gesti apparentemente inutili ma salvifici: trasformare un lenzuolo in una tenda, giocare con la luce e con le ombre, familiarizzare con l’infanzia. Insomma sentirsi vivi.

La pensa così anche Diego, ventisettenne cuneese che vive a Parigi da tre anni, dove lavora come ingegnere biomedico. Dopo settimane di isolamento in una mansarda di 30 m2 con vista Sacre-Coeur, ha capito che c’è solo un modo per non lasciarsi andare: organizzare bene lo spazio e il tempo. Chi vive in una soffitta conosceva bene la regola dell’ordine molto prima dell’isolamento. La pianificazione del tempo invece è una novità di questo periodo. Eh sì, perché se a Parigi fino a qualche settimana fa nelle mansarde si restava per poche ore, adesso è qui che file infinite di giorni si susseguono. Così Diego, per “sopravvivere”, oltre a lavorare, legge, suona la batteria e studia il basso. Invece di concentrarsi sul problema, alza gli occhi e si sente fortunato nell’avere davanti un paesaggio così.

Dall’alto, mi dice, con gli occhi raggiungi punti della città che non puoi vedere altrove.

Vista dalla mansarda di Diego

Tra le storie che raccolgo alcune si somigliano. Andrea per esempio ha molto in comune con Diego. Hanno la stessa età, vengono entrambi dalle parti di Cuneo e lavorano a Parigi come ingegneri, e come se non bastasse, vivono il rispettivo isolamento in una mansarda. Solamente la zona non è la stessa. Diego abita dalle parti di Montmarte mentre Andrea a Porte de Vanves. Ingegnere edile, sta lavorando alla costruzione di una nuova linea della metro di Parigi. Per lui la casa è sempre stata un luogo aperto. Cresciuto in un piccolo villaggio di campagna tra il verde degli aberi e un cortile, in cui il nonno, seduto su una panchina, gli raccontava i giorni difficili che aveva vissuto durante la Campagna italiana di Russia.

Con il tempo Andrea però ha imparato a ripensare il suo concetto di rifugio. Dalla casa aperta sul giardino si è trasferito in una stanza in un campus, poi in un appartamento condiviso e infine in una mansarda a Parigi di 50 m2 che divide con un coinquilino. Certo, ci sono giorni durante quest’isolamento più difficili di altri, ma Andrea si lascia sedurre dalle azioni quotidiane, sempre uguali ma rassicuranti nel loro ripetersi.

Si è abituato al sole che la mattina inonda la stanza di luce e ad alcune presenze in lontananza, come quelle due ragazze che leggono in balcone.

Vista dalla mansarda di Andrea

Quasi tutti mi hanno raccontato che cosa si prova a vivere con la testa tra i tetti, distesi su Parigi come gatti appollaiati. Ma solo Agata ha scelto di descrivere un tetto in particolare, quello in cui trascorre le sue ore migliori. Questo spazio, che raggiunge attraverso una piccola scala, è diventato con il tempo un luogo di socialità, quella che è impossibile avere in una mansarda. Sul tetto Agata invita diversi amici a trascorrere serate ma è anche un luogo che ama vivere in solitaria, godendosi il tramonto.

Dalla terrazza di Agata

Agata è l’unica a nominare le scale, gli infiniti gradini che bisogna affrontare ogni giorno per raggiungere una mansarda. Mi viene in mente, a proposito, una frase di Chopin. Quando a vent’anni lasciò Varsavia per trasferisi a Parigi, trovò la sua prima tana in un sottotetto, al numero 27 di boulevard Poissonnière. In una lettera dirà: «Molti mi invidiano la vista, nessuno le scale». Lo scenario non era molto diverso da quello che ha di fronte Agata. Anche lei oggi, come Chopin allora, affacciandosi ammira Montmartre.

Le scale della casa di Denis

Se è vero che le scale a chiocciola rappresentano senza dubbio un’altra delle scomodità del vivere in in una soffitta parigina, bisogna però ammetterre che hanno un fascino del tutto particolare. Ogni volta che le percorro, arrivata quasi a metà dei sei piani, guardando in basso, sono colta da una vertigine, sia pensando ai piani che ancora mi aspettano sia per l’altezza e il senso di vuoto che provo.

George Perec in Specie di spazi scrive: «Non si pensa abbastanza alle scale. Niente era più bello, nelle vecchie case, delle scale. Niente è più brutto, più freddo, più meschino, nei palazzi d’oggi. Si dovrebbe imparare a vivere di più nelle scale. Ma come?» e in un testo che pubblicherà più avanti, La vita, istruzioni per l’uso, sempre dedicato agli spazi e agli appartamenti parigini, aggiungerà: «Per le scale passano le ombre furtive di tutti coloro che un giorno ci furono».

Salendo le scale che conducono alle mansarde, quelle che un tempo erano le “chambres de bonne”, le stanze delle domestiche, che lavoravano negli appartamenti delle famiglie del palazzo, si nota che ad ogni piano c’è una porta. Una volta era da lì che le donne di servizio accedevano direttamente alla cucina dell’appartamento. Sento spesso, passando accanto a quelle porte, le voci delle famiglie che si mettono a tavola, i rumori delle stoviglie e le grida dei bambini che non vogliono andare a dormire. Per quanto sia affascinante vivere in una mansarda come Baudelaire, sentendo quelle voci al di là della porta però, non si può non avvertire l’ingiustizia di un sistema sociale, che a molti non offre altra scelta che quella di vivere in uno spazio così angusto.

Un palazzo haussmanniano, oggi come allora, è una strana piramide sociale rovesciata. In alto, nei sottotetti, vive chi non può permettersi un appartamento e ai piani inferiori invece ci sono i ricchi.

La mansarda di Sara

La più giovane dei ragazzi intervistati è Sara, ventenne, studentessa di sociologia a Padova e ora in Erasmus a Science-Po. A Parigi abita in una mansarda di 9 m2 al settimo piano del VI arrondissement, a Saint-Germain-des-Prés, a due passi dall’università. La sua casa potrebbe sembrare a molti un posto da incubo, per le dimensioni ridotte e per quel gabinetto proprio accanto alla cucina. Per lei però questo spazio è diventato con il tempo il suo angolo di mondo su Parigi. I tetti, mi racconta, appaiono come una distesa marina per il loro colore bluastro, specialmente adesso che è tutto fermo e che i gabbiani si stanno riappropriando della città.

Quando non aveva voglia di rientrare in una casa così piccola, restava il più possibile fuori, tanto a Parigi le cose da fare di certo non mancano. Ma adesso, da quando è in quarantena, è tutto diverso, perché quelle fughe non sono più concesse. Dopo la prima settimana di isolamento, senza poter muovere più di tre passi e senza poter praticare nessuna attività fisica, si è trasferita da un’amica, il cui coinquilino è rientrato in Italia.

La mansarda di Sara

La mansarda di Sara, così piena di vita, adesso che è vuota, ricorda bene il momento che stiamo attraversando. Indaffarati, con in testa partenze, viaggi, avventure, come colpiti da un vento venuto da lontano, ci siamo dovuti fermare.

Sono tanti i luoghi di Parigi che dall’11 maggio, data di inizio della Fase 2 in Francia, cominciano lentamente a riprendere vita. Immagino le mansarde tornare a essere quegli spazi sfiorati la sera e le terrazze, come quella di Agata, con il tempo riempirsi di nuovo di amici. Immagino quella luce estiva che a Parigi è ancora forte alle dieci di sera. Poi penso a qualcuno che rientra in bicicletta, percorrendo la Senna e Sara o un’altra ragazza piena di speranza come lei che, affacciata alla finestra, sogna la città che ha davanti agli occhi e la confonde con il mare.

Crediti dell’immagine di copertina: Andres Salvatori

Immagini e rivelazioni nel secondo romanzo di Ben Lerner

Nel mondo a venire tutto sarà come prima, ma un po’ diverso.

Nel mondo a venire, Ben Lerner

Città, cultura, persone e immagini. Riflettendo sugli spunti da cui muove il progetto di Tre Sequenze, non ho potuto fare a meno di pensare a Nel mondo a venire, secondo romanzo di Ben Lerner, pubblicato da Sellerio nel 2015, con la bella traduzione di Martina Testa. Letto in quarantena, questo libro sembrava parlare a me, a noi, a partire dal titolo. La natura prismatica del romanzo rende facile e illusorio riportarlo alla propria esperienza, ma ho deciso di assecondare l’illusione, lasciandomi coinvolgere dai parallelismi che mi sembrava di cogliere di riga in riga.

A marzo è uscito in Italia l’ultimo lavoro, Topeka School (Sellerio, traduzione di Martina Testa), di questo autore apprezzato dalla critica fin dagli esordi, con entusiasmo di autori come Paul Auster e Jonathan Franzen. Nato poeta – la sua prima opera è una raccolta di poesie, Le figure di Lichtenberg, pubblicata in Italia da Tlon nel 2017 – Ben Lerner si è affermato come scrittore di romanzi grazie al successo dell’esordio narrativo, Un uomo di passaggio (Neri Pozza, 2012), definito da John Ashbery «un romanzo straordinario sulle intersezioni tra realtà e finzione artistica nel mondo contemporaneo».

Il protagonista di Nel mondo a venire è un poeta trentatreenne di belle speranze: fidanzato con un’artista promettente, frequenta persone che possono definirsi l’élite culturale del paese e ha più di un’affinità biografica con l’autore. La pubblicazione di un suo racconto sul New Yorker gli frutta un contratto con una casa editrice prestigiosa (Ben Lerner ha intrapreso la carriera di romanziere con il racconto The Golden Vanity, pubblicato sul New Yorker nel 2012). Impaurito dal non riuscire a replicare il successo, è preoccupato anche per un problema di salute al cuore. Nel frattempo, la migliore amica Alex desidera un figlio e gli chiede di fare da donatore di sperma.

La trama è tutta qui, ma è la struttura a stupire: aneddoti, parti saggistiche, pezzi di libri, lettere, racconti, semplice cronaca si alternano in modo organico e soddisfacente: il protagonista passa dalla prima alla terza persona, è un io in bilico tra realtà e finzione, in perfetto stile postmoderno, ma senza la distanza che certe narrazioni postmoderne sembrano portare con sé.

New York è oggetto di descrizioni vivide, sospesa, come il protagonista, tra più piani temporali, tra più possibili futuri. In tutto questo, è costante la presenza delle immagini. Le fotografie (di film, di opere d’arte) sono parte della narrazione frammentaria, mutevole ed eccentrica – eppure sempre avvincente – con cui Ben Lerner alimenta il suo romanzo.

Città, cultura, persone e immagini sostengono, tutte insieme, una temperie narrativa densa e multiforme, tanto che Nel mondo a venire potrebbe essere definito, senza sbagliare, un libro sul tempo, i cambiamenti climatici, l’arte, il desiderio di paternità.

All’inizio e alla fine del romanzo New York viene minacciata da due uragani. Per due volte il protagonista vive l’atmosfera incerta che precede la catastrofe illuminato da una consapevolezza rivelativa e inquietante, riflessa nello skyline, dischiusa nelle azioni quotidiane. Di fronte all’evenienza della morte scopre momenti di libertà intellettuale; acquistando una confezione di caffè solubile al supermercato, si sente drogato dall’improvvisa lucidità con cui coglie i processi che gli hanno portato quel caffè tra le mani: «La grandiosità e la stupidità omicida di quell’organizzazione di tempo, spazio, carburante e forza lavoro diventavano visibili nel prodotto stesso, ora che gli aerei erano fermi sulle piste e le autostrade iniziavano a chiudere».

Quando la minaccia passa senza troppi danni per lui e per le sue cose, oltre al sollievo rimane la sensazione, un po’ deludente, che tutto sia tornato come prima. Eppure non è così e lo rivela la frase totem del romanzo, ripetuta più volte, messa in esergo, fatta brillare di una luce rassicurante e spaventosa: nel mondo a venire «tutto sarà com’è ora, ma un po’ diverso».

Di questa luce mi è sembrato brillare tutto il romanzo, letto in questi giorni apparentemente sospesi, e invece già pieni di un futuro che è sempre meno proiezione e sempre più presente.

L’invito è ad abbandonarsi alle oscillazioni di un oggetto letterario mutevole, che permette di scegliere diverse strade di lettura: lasciarsi suggestionare dalla riflessione filosofica sul tempo o dalle divagazioni sull’arte; godersi le parti più aneddotiche, quelle più umane, le descrizioni di New York; soffermarsi sulle foto inserite tra le pagine come segnalibri, seguendo l’autore nelle digressioni storiche. Sequenze indipendenti tra loro, ma che è possibile attraversare tutte insieme, smarrendosi e ritrovandosi, come nei migliori romanzi.

Nel mondo a venire, multiforme e intelligente romanzo di Ben Lerner, è il riflesso narrativo dell’ispirazione che muove Tre Sequenze: città, persone, cultura e immagini, come una quarta sequenza, importante e viva.

Ben Lerner, Nel mondo a venire, Sellerio, 2015, p. 293, 16 euro

New York: la Grande Mela morsa a metà

Una foto in bianco e nero, che mostra tante automobiline in coda, scattata da un padre che, in questo lungo periodo di quarantena, gioca con suo figlio. Ecco, se cambiamo anche solo di poco il nostro punto di vista, vediamo configurarsi una scena quotidiana di una trafficata e caotica strada di New York, dove il grigio a tratti si tinge di giallo e di nero o si illumina dei cangianti colori dei neon.  

A un mese dal mio distacco prematuro da New York, in fuga dall’incipiente epidemia da Covid-19, triste fine del mio sogno americano, viene spontaneo interrogarsi sulla faccenda, cercando di trovare qualche risposta, per dare un senso a questa quarantena piena di “e se…”.

Non sono certo l’unica ad avere vissuto giorni surreali, combattuta tra la paura e il desiderio di restare, e quindi vi risparmierò i dettagli. L’unica cosa che voglio e che riesco a ricordare è la mia incredulità nel fare quelle valigie, in un pomeriggio passato a staccare poster e a mettere da parte vestiti e ambizioni mai realizzate. 

Oggi, a un mese di distanza, mi chiedo perché non abbia visitato il Guggenheim prima di partire. Poi cerco di ricordarmi quale fosse la mia linea di metro, come ci si sentisse a passeggiare a Central Park e perché sia voluta andare proprio a New York e allora tutto pare un ricordo sfocato come in un sogno un po’ agitato. Oggi, confinata tra le pareti della mia stanza, inizio persino a dubitare di esserci veramente mai stata a New York. 

Foto di Jacopo Priori

In questi due mesi tagliati con l’accetta probabilmente della vita newyorkese ho vissuto solo la prima fase, quella più difficile e più eccitante, quando ancora devi trovare il tuo posto in una società che ti hanno descritto come leggendaria. Della Grande Mela si usa dire: se non sei a New York non sei da nessuna parte. Ecco, io ero a New York ma vi giuro che almeno il primo mese mi sentivo “da nessuna parte”. Nel tentativo di costruirmi una parvenza di quotidianità, vivevo inevitabilmente come l’ultima arrivata, errando in una città senza poterla realmente cogliere, senza poterla guardare negli occhi.  

Questo perché New York è una città più fragile di quanto ci aspettiamo, è un grande esperimento sociale mai visto prima, un complesso ingranaggio dove decine di nazionalità e culture convivono spesso in armonia e in disaccordo. Se Parigi e Londra sono città simbolo dei nuovi centri cosmopoliti, l’America e la sua New York ne sono la sublimazione. 

Le domande e le contraddizioni sono oggi la priorità di New York e delle sue istituzioni culturali. Chi l’ha pensata New York? Chi la vive oggi? Chi ha reso New York la capitale del mondo occidentale? 

Foto di Jacopo Priori

In effetti le New York finora conosciute sono tante. C’è la New York della moda, quella di Sex and the City, quella dei ricchi, quella dei poveri, quella di chi non parla nemmeno inglese. C’è la New York delle gallerie d’arte e la New York dell’architettura d’avanguardia. E poi c’è la New York dei grandi musei, quelli colmi di capolavori europei, quelli dei mecenati e dei “concerti tra le opere”, quelli che organizzano più gala che mostre, quelli in cui ogni conferenza ha un costo da svuotare le tasche a qualsiasi studente.

Proprio lì, accanto ai capolavori europei, c’è la New York dei musei di storia e società, che a molti potrebbero sembrare trascurabili, considerati luoghi che visito «se mi avanza tempo». Diffidate da queste indicazioni da tour operator, perché sono proprio queste istituzioni che permettono oggi alla città di costruire un nuovo senso di comunità, forgiando non intellettuali ma cittadini consapevoli. 

Tutto è cominciato con il grande esperimento dell’Anacostia Museum, frutto di una delle riunioni della American Association of Museums e nato nel 1967 in un cinema convertito nel sud-est di Washington DC, come primo museo del vicinato finanziato dalla federazione. È parte del complesso culturale Smithsonian, la stessa istituzione che al tempo si chiese come portare nei musei le comunità di latini e di afro-americani delle periferie. Queste comunità erano spesso molto povere, ma il motivo del loro scarso coinvolgimento culturale non dipendeva dal prezzo del biglietto. Infatti i neovisitatori avrebbero dovuto compiere lunghi spostamenti con i mezzi pubblici per poter raggiungere il centro della città. E una volta arrivati al museo avrebbero trovato un patrimonio culturale poco significativo per loro, in cui sarebbe stato difficile riconoscersi. Al tempo le sole correnti artistiche e culturali presentate nei grandi musei erano squisitamente europee o comunque occidentali, spesso acquisizioni illegittime o poco coerenti con le storie delle città in cui erano conservate. Poco ero lo spazio dedicato all’Oriente o alle arti africane. 

Anacostia Museum, 1970

Dillon Ripley dello Smithsonian decise allora di fondare un museo proprio nel cuore del sobborgo di Anacostia, per dare forma a una realtà attiva sul territorio in cui i cittadini avrebbero potuto identificarsi. Il museo aveva una collezione molto modesta, si trattava per lo più di mostre itineranti su pannelli in cartone, ma la sua forza risiedeva nelle sue attività. Col tempo il museo è diventato per la comunità un vero e proprio centro di aggregazione, con mostre incentrate sulla storia del quartiere di Anacostia. 

Gli stessi abitanti erano chiamati a dare il loro contributo. Venne creato uno speciale comitato, chiamato Neighborhood Advisory Committee, composto soprattutto da cittadini giovanissimi, Youth Advisory Council, che collaborano con i conservatori per la concezione di programmi e mostre.

Si organizzano proiezioni, dibattiti, concerti e lezioni aperte a tutti. This thing called Jazz, o The Rat: man’s invited affliction sono solo alcuni degli esempi virtuosi dell’Anacostia Museum. Il problema della violenza, della criminalità, delle diseguaglianze e della droga sono fondamentali nella narrazione del museo del vicinato. Inoltre il museo diventa l’osservatorio privilegiato per le istituzioni per comprendere i caratteri della comunità e risolverne i problemi. Viene fondato un centro di documentazione, ben presto il museo diventa luogo di incontro e di riunione. La scommessa di Anacostia si rivela essere oggi un modello e un caso di successo che ricalca i principi della corrente di pensiero della Nouvelle Muséologie. Il museo trasforma il visitatore, una volta passivo, in protagonista attivo nello svolgimento delle attività. 

Come l’Anacostia Museum, così oggi il Museo della città di New York, fondato nel 1923, cerca di fare un po’ di ordine, di dare un senso alle storie della sue comunità, di spiegarle, di raccontarle. I temi trattati dal museo vanno dalla storia del baseball alla vicenda di Stonewall, fino alla mostra Who We Are: Visualizing NYC by the Numbers, anticipazione del censimento del 2020 che mette in evidenza l’importanza dei cosiddetti “data” per studiare il profilo demografico e sociale della città. 

Inutile dire che il museo solleva domande interessanti, come i fatti della sezione Activist New York, che racconta la storia delle lotte sociali che hanno segnato la città, questioni che noi turisti mai avremmo immaginato di ritrovare nelle sale di un museo. 

Nati sotto l’egida della regola «prima il visitatore poi le operte d’arte», forse i musei americani hanno capito fin da subito che bisognava saper parlare al proprio pubblico, rispettando la sacrosanta missione di cui sono investiti i musei, chiamati oggi più di prima a riflettere sulla società odierna, per farsi vettore sociale di un sistema culturale complesso e perennemente in crisi, sospeso tra emancipazione e disuguaglianza, prova generale per un mondo senza guerre.

Per questa ragione New York per molti è un sogno con i tratti della più cruda verità. Ricerchiamo la New York di Scorsese, di Woody Allen, ma presto ci rendiamo conto che dopo tutto l’unica New York che possiamo vivere è la nostra e ne siamo inesorabilmente delusi. Costretti in una quotidianità che lascia poco spazio alla fantasia, realizziamo che forse non siamo all’altezza di New York o che forse New York non è all’altezza della leggenda che la circonda. 

Foto di Jacopo Priori

La New York di cui scrivo mi ricorda l’Anastasia delle Città invisibili di Calvino. Come scrive lo scrittore torinese nel capitolo Le città e il desiderio : «hai scelto questa città perché ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come tagliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo».

Sono grata ai musei perché mi hanno sempre stimolato a interrogarmi sul rapporto tra la Storia e l’essere umano, mettendo in evidenza le contraddizioni di sistemi che all’apparenza ci sembrano perfetti. Per questo studio i musei e farlo a New York aveva forse più senso che altrove. Questa esperienza, sebbene un po’ a metà, mi ha fatto capire che se le sale di un grande museo sono trasposizione deiborough” della Grande Mela, allora la stessa New York è metafora di un’età adulta e di un mondo reale più difficile e complesso di quanto ci aspettassimo, ma non per questo meno bello e appassionante. 

Foto di Jacopo Priori

The City through an architect grandpa’s eyes and his granddaughter’s ones

Since ever I share the passion for urban and city design with my grandpa Vittorio Franchetti Pardo, historian of architecture. So, during this long quarantine when we have been a part, despite living close, I decided to call and interview him by phone.

Talking, we observed that the city has ideally, pheraps been the only one not isolated: population is confined into domestic walls while it is virtually opened without physical nor temporary boundaries.

Milan. Picture by Özge Su Erdem

The current pandemic condition which is affecting the whole world, is forcing us to spend a lot of time in our homes. A thought goes to our cities. What does the fact that animals and nature are gaining new or old urban places teach us? 

It depends on the place where it happens. Nowadays the phenomenon of regaining spaces by nature and animals can ,essentially, be seen in three cases. If it happens in urban places it means that a process of abandoning, long lasting or not, is going on – see in Rome the small streets or the borghi; as well as one of definitive neglect – this is the case of industrial buildings, work sites, or abandoned construction sites. If it happens in green areas is a sign that these spaces are not animated anymore by human presence. During the current unexpected pandemic, it is clear that the abandon refers to the first case. We hope then, to be able to go back to the previous condition of dwelling to face the running state of neglect. 

Milan. Picture by Özge Su Erdem

But the unsolved problem we should investigate is the following: which is the behaviour to maintain, concerning the problematic choice of value priority between needs and interests of men and the ones of nature? This question is even more problematic in times, like the ones we are living, where climate changes are going on, and where it is not that clear if these could be entirely blamed to humans. Imagining ancient and not ancient comparisons we could think that Dolomites were in the abysses of sea and that during roman and late-roman age the Maremma Toscana didn’t exist since the sea reached the current hilly level. We should, then, reflect on the speed of climate changes. We are called to keep an eye on them to evaluate the hierarchy of value priorities.

Milan. Picture by Özge Su Erdem

The extraordinary condition we are experiencing opens up many considerations. Can this be the opportunity to engage new forms of proximity and distance into urban design?

We could argue on this for hours, sitted on sofas – obviously over this time with the right measures of distance and masks. You will agree with me saying that the question about proximity and distance changes according to the city to design: it is inaccurate to think of a unique answer to this. Which is the city? What kind? A commercial one, a rural one, turistic.. 

Still, the idea of distance and proximity itself must not be seen secondary: are we speaking of distance in physical terms or as a period of time to cover a gap from a certain starting point? Or are we speaking about a physical distance between two cities which is translated into symbolic or religious values? To give you an example, as to distance as a period of time to reach a certain place, you should think that, when the highways didn’t exist, cars took more than five hours to reach Florence from Rome.

Dwelling for a Tokyo Nomad Woman by Toyo Ito
Source: In-the-world

Parks and spaces we used to experience  as shared ones, have been temporarily suspended. How can we read a city which keeps to be opened to give essentials to citizens but stops engaging with its public and green places? 

A foreword here seems to be necessary. We have to clarify if we are speaking of a city understood in its double meaning that is of urbs and civitas: as a place – and also a non-place! – of aggregation; so as a topos of a plural and collective livings, which are often even conflictual. In this meaning the current temporary “suspension” could be similar to the one of alternative cities, to the one of stable residences which, according to Cacciare should be the city of negotium only. This to me seems to be a useful dialectic abstraction. An emblematic example are, rather, thermal cities where all the city is a public space where people gather; socialization could be even symbolic. Instead, the current suspension is finalized at the non-socialization: this is extended from public spaces to the private ones. This condition is such that the “escape from the city” Cacciari was writing about is not even allowed. He is using once again, to me, an abstraction, this time a literary one: the arcadia. 

Going back to the double meaning of a city, if the therm civitas is suppressed, city becomes suddenly an empty place – or non-place: a kind of temporary Ghost City as it happened and keeps to happen in the US. This is of course a different condition of suspension from the cities experiencing long lasting or definitive abandon. This is true because, if the suspension is not that long, it can offer new stimulus and occasions. This, especially in Italy, gives interesting and new settlement’s perspectives. New scenarios are simultaneously useful for the development of the existing settlement of the “city” and useful for the scattered but essentially united system of urban storic hamlet. 

Portion of city from Regent Park to Huston Station, London. Image by Lorenzo Bellacci

A decentralised city seems to be the key for the design of the future. How should we live? In dense or decentralised cities?

This is a complex topic. It is necessary to consider the previous historic settlement of areas in which to intervene. In capitalist countries the density is really high for a profitability principle. I hope you will agree then, that it is quite hard to summarize an answer to this complex concept: what kind of city has to be settled, and where? The response is in relation with two conditions: from one side the climatic and ambiental one ( for example desert or iced areas); from the other it dialogues with the historical settlement. For example, in Italy the distance between individual settlements is not that much. But it is not  everywhere  like this, as we can see from the historical background.

Highrise of homes by James Wines

Cover Image: Instant City Visits Bournemouth by Peter Cook (Archigram)

Rome: between the geometries and the arteries of the Olympic Village

The twenty-ninth day of quarantine. Closed in my rented room in the Olympic Village, between a cup of coffee and the other, I approach the window, waiting for any minimal event thag could show up in my sight. Maybe senses became thinner because of isolation and loneliness, and the most evident change in perceiving the environment is auditive. The big windows in my bedroom overlook the usually congested Corso Francia’s viaduct, which is now suddenly deserted in a surreal way. In this silence I could observe the slow germinating of leaves on the branches, and I learnt how to discern the sparrows’ gentle tweeting from the parrots’ joyful and messy one.

Hanging out of the tight balcony in via Portogallo allows you to see the image of your building reflected and refracted in countless identical facades, completely covered by orange bricks. Looking secretly at the colourful cyclamens, the succulent plants, the apotropaic masks and the hanging laundry on the neighbours’ balconies, I try to imagine other people’s lives and loneliness, as depicted in one of Georges Perec’s or Eshkol Nevo’s novels. And watching the perfect symmetry that seems to organize the streets of this quarter nestled between the Parioli neighborhood and the River Tevere, I suddenly think again about my long explorations throughout these places, before the blooming of the spring in Rome.

I have been living in this district for a few months, and when I went through it the first time I had the impression of getting lost in the entangled and indistinguishable roads, of getting caught in a series of contradictions that I couldn’t dissolve. With the time it began appearing to me like a single and big pulsating organism. A large and complicated living being, whose navel could be maybe the Palazzetto dello Sport, with its circular plan and the spherical covering. Designed by Annibale Vitellozzi and Pier Luigi Nervi, its bulding should have symbolized the love act with which the whole Olympic Village was brought to life in view of the 1960 Games. But over the past few years the umbilical cord was cut off, and the Palazzetto neglected, almost completely forgotten, even though it still represents the barycenter which holds in balance the whole district, with its mysterious fluctuating jellyfish features.

A few steps away, in De Coubertin street, the Auditorium del Parco della Musica, designed by Renzo Piano and inaugurated at the beginning of the new Millennium, opens itself like a huge eye. Observed from a high perspective, it resembles to a big pupil, surrounded by lead eyelashes, and it seems to safeguard all the possibilietes of the gaze: the concert, the theatre, the literature. And like the sense of the sight opens to the world, the Auditorium opens up to Rome, ready to host the city in the buzz of the many events organized in the rooms, in the absorbed silence of the library, or in the colourful vivacity of the well-stocked Notebook bookshop.

The flow of the River Tevere, which encloses the district and marks the northern border, seems a liquid epidermis on which the lights of the city reverberate during the night. A vibrant and thin skin that not only isolates and protects, but also connects, thanks to the romantic Ponte Milvio teeming with people, and the monumental Ponte Flaminio, which Nanni Moretti in Caro Diario has to cross with his Vespa twice every day to feel fine.

It is possible to discover the heart and the arteries that animate this place only entering in the tree-lined streets and in the housing complex built to host the athletes partecipating to the Olympic Games. Via Germania, via Bulgaria, via Turchia, via Unione Sovietica…at the first impact the streets look like discernible only for the nation that gives them the name. But venturing and losing the way in the tangle of the buildings, the change of geometries and details emerges slowly from zone to zone: the different colours of the tiles at every entrance, the infinite chase of the porticos, the glass windows that lets you glimpse the continuous intersect of the staircases, the rhomboid motif on the sampietrini in Piazza Grecia.

The perspectives and the colours of the district have attracted the film directors’ gaze, which transformed them in a movie set. Particularly meaningful is Sergio Castellitto’s choice of setting his Nessuno si salva da solo in these streets: born in the Sixties like a symbol of hope in future, with alternate phases of neglect and redevelopment, the Olympic Village offered itself like the most suitable place to represent metaphorically the tormented love story between the two main characters.

Between the innards of this place, between the garbage and the high grass, it happens to find lost or abandoned objects, such as dolls, hairbrushes, backpacks, and every time I wonder which story is concealed in them, and whom they belonged to. I like to think of them as the traces of the many life forms which interact in these places, where students and precarious workers rent cheap rooms on the same floora of aged people who have lived here for decades, or in the same street where a gypsy family stops for a while with their caravan, dancing their typical music with their children. 

In a short time maybe it isn’t possible to have a clear and lucid vision of all the dynamics which pervade the place where you live, but the impression is that the inner contradictions could coexist in a context which still preserves a spontaneous and working-class solidarity.

The urban and living pattern of the Olympic Village is made up of houses and orange bricks, of the guys who drive in the large parkings, training for their driving licence. It is made up of the Roman voices which sell artichokes, pecorino, leather bags every Friday at the market. As soon as I tell some words to buy something, my recognisable northern accent becomes the pretext for a long and cheerful conversation.

And I was sursprised to discover that after I entered twice in the same bar, they could remember my name: in this way I felt welcomed in a wonderful and difficult city like Rome, led by hand in a labyrinthine reality like the Olympic Village, which is slowly disentangling itself to assume outlines every day more recognizable like “home”.

L’essencia de Gràcia

«El meu país és tan petit que des de dalt d’un campanar es veu el campanar veí» diu la cançó de Lluis Lach. Així és com podem descriure Barcelona: una unió de petits pobles que podem veure des de l’alt campanar veí. En què la ruptura de les muralles de ciutat vella i la creació de l’eixample com a nexe d’unió d’aquells petits pobles va servir com a homogeneïtzació de la ciutat que coneixem avui dia.

Però hi ha un d’aquells petits pobles ple d’irreductibles graciencs que encara resisteix a l’annexió amb una vida pròpia, una llengua pròpia i una identitat pròpia. Normalment quan li preguntes a algú que no coneixes i no saps d’on són, si venen de qualsevol barri de Barcelona et diran que són de Barcelona. Però els de Gràcia et diran que vénen d’allà i quan els intentes corregir i els hi dius: «llavors ets de Barcelona també!». Ells et respondran molt amablement «Els de Gràcia sempre som de Gràcia».

És aquell barri que a pesar del floriment de turistes que es perden per anar al parc Güell i que queden bocabadats amb un racó de Barcelona que fins no fa gaire apareix al mapa turístic, desprèn aquell encant que no saps d’on ve. Potser perquè al mirar-te els peus, veus que s’ha substituït la rajola de la flor de l’eixample per unes pedretes de colors pàl·lids que acompanyen els carrers que no tenen vorera. Potser perquè Gràcia manté aquell caliu dels petits carrers amb cases no gaire altes i que de cop i volta es desemboca en aquelles places que tenen els seus bancs o de terrasses dels bars que sempre estan a arrebossar de gent que fa el cafè, el vermut, el dinar i «una birra». De gent que viu al barri i es veu obligada a esquivar tots els foresters que a marxa lenta els hi impedeixen anar al mercat, a buscar el pa o el diari. També podria ser que aquest encant estigui lligat al fet que sempre hi ha algú en una de les places afinant una guitarra i posant-se a cantar.

Sempre hi ha un: «dum, dududm, dum, dudum» d’un contrabaix que acompanyat d’un sempre so sensual del saxo sonant a la plaça de la Revolució o de la Virreina un dissabte per la tarda. És un bon lloc pels músics de carrer que toquen a prop de sales com La sonora, o el bar Helio, o abans el KGB . Que és on pots escoltar música en directe de nous grups catalans que estan emergint com Les Sueques o el Joan Colom ho van fer al seu dia davant d’un públic amb camises de llenyataire, ulleres de pasta i frondoses barbes.

I és que una mica més avall, a la plaça del Raspall encara podem sentir el ressò d’un palmeig amb ritme: «clap-clap-clap-clap-clap-clap-clap-clap-clap-clap» acompanyat sempre d’una guitarra i una veu sempre afinada que canta: «Al Garrotín, Al Garrotán, paso la vera de San Juan». I és que el Garrotin es l’estil musical del qual neix la rumba catalana, de la qual sempre hi ha hagut polèmica per saber-ne qui era el creador. El Garrotín segons els gitanos diuen que és la bandera de Catalunya, ja que defensen que és més antic que la sardana. Des dels cercles més íntims de la comunitat gitana han defensat que el creador era el gran Peret, que va popularitzar la seva autoria amb la cançó de «Barcelona és poderosa, Barcelona té el poder» a la clausura dels jocs olímpics del 92 i que ara s’utilitza com a espot publicitari de l’Ajuntament de Barcelona per animar a la conciutadania. D’altra banda per qüestions polítiques durant l’era franquista, es va dir que El Pescailla, casat amb la cantant bandera del règim Lola Flores, era el creador de la rumba.

Fotografia de Maria Paola Marciano

Però ara bé, la comunitat gitana de «La pequeña triana» no només ens va deixar en herència la rumba, sinó que moltes de les paraules que primer s’utilitzaven al barri de Gràcia i que posteriorment formaran part del diccionari quotidià català provenen del caló. Com per exemple: currar per dir treballar, halar per dir menjar, calés per dir diners o potra per dir sort.

Pocs barris poden dir que tenen aquesta biodiversitat digne d’una ciutat, ja que la comunitat gitana al barri de gràcia oscil·la entre 7 000 i 10 000 habitants, però hi hauríem d’afegir una nouvinguda comunitat libanesa que està omplint carrer Verdi d’excel·lents restaurants que competeixen amb els sempre refinats restaurants japonesos, o els bars de menú de tota la vida que s’omplen de gent que pica i fa una cervesa abans o després d’anar al teatre Lliure de gràcia al carrer Montseny o a una sessió de cinema en versió original al carrer Verdi, agafant així, el relleu cultural dels Lluïsos de Gràcia que durant més d’un segle i sobretot en el període de la postguerra va mantenir viva la flama de la cultura cinematogràfica i de les arts escèniques.

Gràcia sense tot aquest moviment cultural perd gran part de la seva essència i gran part dels seus ingressos econòmics en un barri que sempre s’hi ha barrejat una classe treballadora i petita burgesa que es pot veure en la seva arquitectura de cases particulars d’una ja llunyana època rural de la Vila, que s’han reformat en pisos, i els habitatges unifamiliars amb jardí de gent adinerada com la casa Vicens. Jardins d’algunes cases particulars que posteriorment s’han convertit en places com la plaça del sol, o la plaça John Lennon que omple el buit que va deixar la desaparició de les petites fàbriques que constituïen el teixit industrial de la Vila. Places públiques que han permès la reunió dels extractes socials d’aquest antic municipi i que han compartit alegries i patiments. Per tant és important destacar el moviment veïnal de Gràcia, que sempre ha sigut un espai on s’ha manifestat el desacord amb les injustícies socials. Avui en dia només cal veure els balcons del barri de Gràcia per destacar banderes o cartells de protesta que afecten sigui el barri, la ciutat o el país.

Il·lustració de Maria Paola Marciano

Aquestes places són les que donen vida a Gràcia, potser per això Mercè Rodoreda va voler dedicar-hi una obra com la de La plaça del Diamant. Una obra que descriu el patiment de la Colometa abans i després de la guerra i que serveix com a personificació d’un patiment generalitzat del barri de Gràcia i de Catalunya. Una plaça sobre la qual hiballava la Colometa durant les festes de Gràcia, i una plaça on tants s’hi van refugiar en els antiaeris construïts a sota per a tal de sobreviure durant els bombardejos de l’aviació italiana.
Refugis que ara, la major part s’han convertit en pàrquings, però que al seu dia van captivar a Winston Churchill la seva resistència i eficiència de la societat civil davant dels bombardejos que queien per primer cop a una ciutat. El primer ministre anglès no només va agafar com a exemple els ciutadans de Barcelona en el discurs del 18 de juny del 1940: «I do not at all underrate the severity of the ordeal which lies before us; but I believe our countrymen will show themselves capable of standing up to it, like the brave men of Barcelona, and will be able to stand up to it, and carry on in spite of it, at least as well as any other people in the world. Much will depend upon this». Sinó que va contractar els arquitectes que van construir els refugis de Barcelona per a construir-los a Londres i protegir així la població de les bombes de la Luftwaffe.

Fotografia de Maria Paola Marciano

Lluny del obscur passat històric de Barcelona i de Gràcia, en aquests dies de quarantena els carrers i les places tornen a estar buits, és estrany imaginar el carrer Gran que travessa Gràcia de dalt abaix buit amb els comerços tancats, sense nens que van vestits de blau a jugar a futbol al històric C.E Europa que va marcar una època durant els anys 60 i els anys 90. Gràcia sense la vida que ens dóna tant els que som de fora com els que hi habiten perd la seva gràcia, però a pesar de la història sempre ha demostrat que mantindrà la seva única essència.

Hanoi: può una città darti del tu?

Sono arrivata ad Hanoi il primo di marzo senza grandi aspettative. Ai miei occhi quel luogo aveva la colpa di essere una grande città e io, con la presunzione dei viaggiatori esperti, ero convinta che le grandi città fossero tutte uguali: chiassose, sporche, trafficate e maleodoranti.

Sono arrivata ad Hanoi una sera tardi in cui pioveva. La pioggia non la vedevo da tempo, era fitta, instancabile, potente. Le ho sorriso e lei ha sorriso a me. Abbiamo camminato insieme dalla stazione degli autobus al Quartiere Vecchio e quando sono arrivata all’ostello, il miracolo era avvenuto: quella pioggia aveva lavato via tutti i pregiudizi, le irritazioni, persino la stanchezza di una giornata lunga, complicata, a tratti amara. È stato allora che mi sono accorta che Hanoi cominciava a darmi del tu. 

Dare del tu è una questione davvero spinosa. Si dà del tu a una persona cara, ad un amico, ad un amante. Dare del tu però può anche essere un atto di scortesia: si dà del tu a chi non si considera abbastanza meritevole per un “lei”. Da Hanoi ho ricevuto amichevoli e sinceri tu, ma quelli stessi tu, più avanti me li ha lanciati contro astiosa, facendomi capire che non ero la benvenuta

La mattina dopo mi sono svegliata molto presto e sono scesa in strada prima delle sei. L’asfalto era bagnato per la grande pioggia della notte precedente ma la timida luce bianca del mattino faceva sperare in una giornata asciutta. I motorini e le automobili scivolavano sulle strade già trafficate ma ancora silenziose, lasciando spazio agli altri suoni della città: il rumore del mestolo contro le ciotole di ceramica, una serranda che viene alzata, le ruote dei carretti delle donne che vendono frutta e verdura ai bordi della strada, l’inestricabile vociare acuto dei vietnamiti. 

Senza farmi scoprire ho seguito una donna che portava sulle spalle un bastone di bamboo a cui erano legati due cesti, in uno dei mandarini, nell’altro dei mango. Ho imitato la danza con cui attraversava gli incroci e mi sono fermata solo quando si è fermata lei, per fare colazione con zuppa di Phở. Ci siamo perse in vie strette, abbiamo sfilato per discreti tempietti e audaci negozi e infine abbiamo raggiunto il mercato centrale. Era un tripudio di colori e odori: banchi di fiori e di spezie, di pesci mai visti, di tartarughe marine e anguille; banchi di gamberetti essiccati, di verdura esotica, di frutta secca; banchi di carne con al centro appese amache su cui siedono donne, a sventolare instancabilmente stracci che tengono lontane le mosche. 

Mi sono bastate quelle poche ore per innamorarmi di Hanoi. Mi piaceva alzare gli occhi e vedere i milioni di fili della corrente legare le abitazioni l’una all’altra, in una matassa nera che giunge poi a dei grandi pali elettrici. Guardando quei fili pensavo: Hanoi è bella perchè è schietta, si mostra per quel che è. Noi i fili li nascondiamo perché sono antiestetici, lei invece li ha resi parte del panorama.

E poi, è sì chiassosa, ma solo perché viva. Sui larghi marciapiedi, seduti su delle sedioline in plastica azzurra, si riversano quotidianamente giovani e anziani che, gli uni accanto agli altri, bevono chi un caffè filtrato con latte condensato, chi una birra Saigon, chi una limonata. Parlano molto, sorridono un poco.

Eppure, mentre io imparavo a dar del tu a quella città, lei mutava. All’inizio impercettibilmente, poi furiosamente. La prima avvisaglia è arrivata quello stesso primo giorno quando, tornata in ostello, mi hanno comunicato che avrei dovuto lasciarlo entro un’ora. Da qualche giorno il Coronavirus aveva iniziato la sua strage in Italia e temevano potessi contagiarli. A nulla era servito aprire il passaporto e mostrar loro i timbri che dimostravano che la mia permanenza fuori dall’Italia era cominciata molto prima che arrivasse il virus. Erano interessati solo alla prima pagina: passaporto italiano. L’umiliazione bruciava soprattutto perché succedeva proprio mentre avevo scelto di aprire il mio cuore ad Hanoi. Zaino in spalla e passaporto in mano, sono uscita in strada.

Acquerelli di Marta Cerreti

Ho imparato quel giorno che ad Hanoi, alle quattro del pomeriggio, comincia a piovere. Succede senza alcun preavviso, il cielo si oscura in un istante e la pioggia investe la città. Fitta. Instancabile. Potente. Quel giorno la pioggia  mi ha osservata camminare alla ricerca di un ostello, ma non era più la sorridente pioggia del giorno prima, questa volta sogghignava. Finalmente ho trovato un  posto in cui dormire e una volta asciutta è stato facile ritrovare il giusto spirito. Era stato, mi son detta, un evento isolato. Ed infatti, purché evitassi di rivelare la mia nazionalità, Hanoi si mostrava ogni giorno più accogliente. 

La trovavo una città buffa: di mattina governata dalle donne che si affaccendano in compravendite, al pomeriggio attraversata solo dagli uomini, raggruppati attorno a una pipa alta e larga, a fumare il Thuoc Lao. 

Acquerelli di Marta Cerreti

Mi piaceva come tutti si fermassero a salutarmi quando dipingevo sul ciglio della strada e molti si impegnassero in acrobatici gesti con le mani per spiegarmi come funziona lo Xiangqi, il loro gioco da tavola. Ogni giorno distinguevo meglio gli odori che provenivano dai pentoloni che si susseguivano sul ciglio della strada: salsa di pesce, brodo di manzo, zampe di pollo fritte, involtini. Mi sentivo accolta, e quando qualche giorno dopo lasciai la città per visitare il resto del Paese, ero ormai certa che quel piccolo incidente dell’ostello non contasse.

Per due settimane ho vagato per le risaie del nord fino a scendere nelle terre calde e assolate del sud. Erano posti magici ma qualcosa stonava, sia dentro che fuori di me. Viaggiare diventava sempre più complicato, intere città chiudevano i battenti, i posti di blocco per misurare la febbre ai turisti erano sempre più frequenti: era tempo di tornare ad Hanoi.

Ad accogliermi però c’era una città molto diversa. Non più quella vivace e appassionata di due settimane prima, ma una Hanoi intimorita e ostile, consapevole di non potersi ammalare, essendo priva quasi completamente di sanità pubblica. La maggior parte degli ostelli aveva chiuso e all’entrata di alcuni ristoranti si leggeva: “NO tourists” e in molti altri non facevo in tempo a varcare la soglia che la sala si raggelava e i proprietari agitavano le mani a segnare  grandi “x” e aggiungevano: “Finish, finish!”. 

Quel giorno ho avvertito sulla mia pelle la spinosa questione del darsi del tu. Hanoi mi guardava terrorizzata e continuava a darmi del tu, questa volta però per intimarmi di andar via. Certo, accadeva ancora di sentirla respirare con me, eravamo ancora capaci di sorridere dietro ai reciproci cipigli sospettosi e alle mascherine azzurre. Ma quella città che un po’ mi era capitata, un po’ avevo scelto, mi chiamava straniera e mi trattava da estranea. Come era brutto non sentirsi i benvenuti nel paese che si era scelto di visitare! E allora ho pensato a come deve essere difficile non sentirsi accolti nel paese in cui si è scelto di restare.

Ecco il grande insegnamento di quei giorni: scegliere di utilizzare il “tu” davanti all’ignoto richiede un grande atto di fiducia. Può essere l’inizio di una lunga amicizia o l’arma con cui si verrà feriti. Hanoi mi ha accolta e poi abbandonata, ma quando è arrivato il momento di fare i bagagli, l’ho salutata con la familiarità di sempre, rivolgendole un grande sorriso che stava a significare: Mi rifiuto categoricamente di tornare all’ipocrisia del lei. Credo lo abbia capito, perchè mi è sembrato di vederla sorridere di rimando. In fondo è un’esperienza così elettrizzante potersi dare del tu. 

di Marta Cerreti