Prova generale

Gonne strette, capelli folti, sigarette lunghe tra indice e medio, eyeliner sulla palpebra mobile, orecchini a cerchio. Qui le ragazze sono tutte belle. La maggior parte studia recitazione alla Silvio D’Amico, come la padrona di casa, Olimpia Rota Mirizzi, e tutte le altre, qualsiasi cosa facciano nella vita, non fanno che straparlare di Xavier Dolan e di Vinyasa yoga. Qui le ragazze sono tutte brillanti.

Abbasso lo sguardo sulla mia tuta strategicamente nera e larga e penso: qui, non c’entri un cazzo Agnese. «Il suo prosecco» dico, porgendo un bicchiere di Foss Marai a un ragazzo davanti a me.

Qualche ora fa mi ha chiamato Giacomo Rota Mirizzi, famoso attore di teatro negli anni Novanta, chiedendomi di aiutare sua figlia per una festa che voleva improvvisare a casa, dopo il suo ritorno da uno stage alla Royal Centre School of Drama. Mi avrebbe pagata bene ovviamente e si scusava per il poco preavviso, di sabato poi. 

Sono ormai due anni, da quando ho finito il liceo, che lavoro come cameriera da loro e ci sono abituata. Assecondare i capricci di Olimpia non è affatto facile, anzi, spesso ho voglia di spaccarle le gengive ma amo lavorare in questa casa. Amo farlo perché è bellissima. Si trova nel vicolo di Febo, vicino all’incrocio con via dei Coronari, così quando esco a tarda notte posso passare davanti Piazza Navona e godermela nel silenzio notturno. E mi dimentico pure delle risposte di merda di Olimpia. Mi dimentico di tutto.

Acquerello di Alessandra Donato

«Agnese! La cucina fa schifo. Te ne sei accorta? Devi fare un caffè a loro» mi urla Olimpia puntando l’indice in direzione di tre ragazzi che vengono verso di me. Devono essere nuovi amici, mai visti prima. Metto subito le cialde e preparo le tazzine.

«A me macchiato per favore». A dirmelo è un ragazzo alto con una barba rossiccia. Mio Dio, mi sta sorridendo e ha un sorriso meraviglioso. Poi, riprende subito a parlare con i suoi due amici della sua vacanza in Bhutan.

Mi posiziono di fronte a lui e cerco di non dargli mai il mio profilo, soprattutto il sinistro. Non mi importa niente di quello che dice lo psicoterapeuta, io il naso me lo rifaccio. E come. Non posso passare la vita a studiare come muovermi in base alle condizioni di visibilità di quella gobba sul naso ereditata da mia zia Maria Assunta. Ovvio che sono insicura se devo pensare a tutti questi accorgimenti. 

Il caffè è pronto. Lo servo. I ragazzi lo bevono velocemente e fanno per andarsene. Mentre gli altri due continuano ad andare avanti, lui si ferma, torna indietro e raccoglie i fazzolettini con cui i suoi amici si erano asciugati la bocca e che avevano lasciato sui piattini.

Acquerello di Alessandra Donato

«Quando facevo il cameriere a Kensington, odiavo quando i clienti non buttavano i fazzoletti. È schifoso dover toccare la loro bava». «Ah, ma non si preoccupi. Sono abituata». «Non dovresti abituartici invece. È una cosa da cafoni. E non darmi del lei. Abbiamo la stessa età». Mi metto una ciocca di capelli dietro l’orecchio e abbasso lo sguardo. «Credo di sì». «Come credi? Mi sto facendo crescere un po’ troppo la barba ma guarda che ho vent’anni anch’io! Dai, ci vediamo dopo Agnese».  Oddio: si è ricordato il mio nome.

Lo vedo allontanarsi e andarsi a sedere in mezzo agli altri. Che bella voce che ha. Profonda. Sicuramente va in Accademia con Olimpia.  Non lo faccio mai a lavoro, però ho proprio bisogno di vino. Mi verso un po’ di Traminer e continuo a guardarlo. Olimpia siede vicino a lui e gli tocca il braccio mentre gli parla. Lei è brava in queste cose. Ed è così bella. A volte vorrei tanto essere come lei. 

Dopo dieci minuti di conversazioni e risate, lui si alza dal divano e si mette per un po’ in piedi davanti al camino acceso. Vedo che uno dei suoi amici gli fa un cenno, con fare preoccupato. Lui si è improvvisamente incupito, si passa nervosamente la mano davanti la bocca. Poi, dal nulla, sbotta.

«Ma la volete smettere?» urla. Silenzio improvviso. «Non vi sopporto. Davvero stasera vi siete agghindati, avete preso una bottiglia di vino dalla cantina dei vostri genitori e siete venuti qui a raccontarvi queste stronzate? Quant’è che sto qui: due ore? Non ne posso già più delle vostre filosofie di vita, dei vostri traguardi, dei vostri viaggi, della vostra solarità ostentata e della vostra determinazione. Mi avete già rotto il cazzo con la vostra ansia di fare cose e di avere successo. Mi fate venire voglia di fallire sistematicamente e con gusto, in tutto quello che faccio. Mi fate venire voglia di non fare niente e di non saper fare niente. Mi fate venire voglia di non essere nessuno».

Ha il fiatone e i suoi ricci si scuotono un po’ quando parla. Non riesco a smettere di guardarlo. Quante volte avrei voluto gridare le sue stesse cose in queste occasioni. Lo psicoterapeuta me lo dice sempre che il mio problema è che ho paura di tirar fuori quello che ho dentro, che parlo sempre sottovoce. 

Mi verso un altro bicchiere di vino. Qualcuno nel frattempo ridacchia coprendosi la bocca con il palmo.  Altri invece sono del tutto paralizzati e lo osservano timorosi di rompere quella bolla di silenzio che si è creata.

I suoi occhi sono ferrigni. Ed è così teatrale nel muovere le mani! Distoglie lo sguardo e lo rivolge verso il fondo della stanza e… oddio sta guardando me!

«E poi sapete? Ho proprio voglia di innamorarmi. Secondo me l’amore non è tanto questione di diventare una cosa sola con l’altro. Secondo me l’amore è questione di incastro. Tu te ne stai per conto tuo e poi arriva qualcuno, che anche lui sta per conto suo ma guarda caso si adatta perfettamente a te. E la cosa bella è che i vostri punti di contatto sono possibili proprio grazie al vostro essere diversi: dove uno ha una rientranza l’altro ha una sporgenza, dove uno avanza l’altro arretra. Ma rimanete distinti. Ora vi sto annoiando, forse preoccupando. Non pretendo di trovare l’incastro della mia vita stasera ma qualcuno che si sia riconosciuto nelle mie parole sì. E che sia disposto ora a condividere il fondo nero di un bicchiere di liquore, con me. Chiunque tu sia, non avere paura. Io non ne ho. Ma non posso rimanere ancora in questo festival della dissimulazione. Voglio la vita vera, anche quando non è un aneddoto brillante con cui fare bella figura alle feste. Ti aspetto qui».

Solo ora distoglie lo sguardo dalla mia parte e si allontana, va verso l’arco della porta. I suoi passi rimbombano. Tutti sono come rapiti. Il suo viso è paonazzo dal fervore. Si gira verso di noi con aria di sfida e le mani congiunte sulla cintura.

Sarà il Traminer ma io non ho alcun dubbio. 

Mi slaccio il grembiule e comincio a camminare verso di lui. È questione di istanti eppure mi sembra che il tempo stia passando lentissimo. Tutti si girano a guardarmi.

Forse è questo il momento che ho sempre aspettato.

È strano: mi sembra quasi che non sia io la ragazza che ora avanza verso questo tipo carismatico, così, spavaldamente, davanti a tutti. Eppure, allo stesso tempo, è come se non fossi mai stata me stessa come in questo momento. Ho il mento alto, il passo sicuro, non mi guardo intorno né dietro. 

Arrivo dinanzi a Simone. Lui mi rivolge quei suoi occhi, bellissimi. Vorrei poter vivere tutta la vita in questo punto. 

Ma a poco a poco, la sua espressione cambia. Si fa preoccupata. Non capisco. Poi si guarda intorno con improvviso imbarazzo e avvicinandosi un po’ a me, abbassando la voce, mi dice: «Era solo la prova di un monologo».

Pubblicato da francescascerrato

Nata a Firenze. Si laurea in Filosofia a Roma – dopo un periodo di studio alla Sorbonne di Parigi - con una tesi in Estetica nella quale analizza il rapporto tra prodotti audiovisivi e narrazione di sé. Da sempre interessata alla letteratura, ha frequentato la scuola di scrittura creativa Molly Bloom di Roma.

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