
Sono arrivata ad Hanoi il primo di marzo senza grandi aspettative. Ai miei occhi quel luogo aveva la colpa di essere una grande città e io, con la presunzione dei viaggiatori esperti, ero convinta che le grandi città fossero tutte uguali: chiassose, sporche, trafficate e maleodoranti.
Sono arrivata ad Hanoi una sera tardi in cui pioveva. La pioggia non la vedevo da tempo, era fitta, instancabile, potente. Le ho sorriso e lei ha sorriso a me. Abbiamo camminato insieme dalla stazione degli autobus al Quartiere Vecchio e quando sono arrivata all’ostello, il miracolo era avvenuto: quella pioggia aveva lavato via tutti i pregiudizi, le irritazioni, persino la stanchezza di una giornata lunga, complicata, a tratti amara. È stato allora che mi sono accorta che Hanoi cominciava a darmi del tu.
Dare del tu è una questione davvero spinosa. Si dà del tu a una persona cara, ad un amico, ad un amante. Dare del tu però può anche essere un atto di scortesia: si dà del tu a chi non si considera abbastanza meritevole per un “lei”. Da Hanoi ho ricevuto amichevoli e sinceri tu, ma quelli stessi tu, più avanti me li ha lanciati contro astiosa, facendomi capire che non ero la benvenuta.
La mattina dopo mi sono svegliata molto presto e sono scesa in strada prima delle sei. L’asfalto era bagnato per la grande pioggia della notte precedente ma la timida luce bianca del mattino faceva sperare in una giornata asciutta. I motorini e le automobili scivolavano sulle strade già trafficate ma ancora silenziose, lasciando spazio agli altri suoni della città: il rumore del mestolo contro le ciotole di ceramica, una serranda che viene alzata, le ruote dei carretti delle donne che vendono frutta e verdura ai bordi della strada, l’inestricabile vociare acuto dei vietnamiti.
Senza farmi scoprire ho seguito una donna che portava sulle spalle un bastone di bamboo a cui erano legati due cesti, in uno dei mandarini, nell’altro dei mango. Ho imitato la danza con cui attraversava gli incroci e mi sono fermata solo quando si è fermata lei, per fare colazione con zuppa di Phở. Ci siamo perse in vie strette, abbiamo sfilato per discreti tempietti e audaci negozi e infine abbiamo raggiunto il mercato centrale. Era un tripudio di colori e odori: banchi di fiori e di spezie, di pesci mai visti, di tartarughe marine e anguille; banchi di gamberetti essiccati, di verdura esotica, di frutta secca; banchi di carne con al centro appese amache su cui siedono donne, a sventolare instancabilmente stracci che tengono lontane le mosche.
Mi sono bastate quelle poche ore per innamorarmi di Hanoi. Mi piaceva alzare gli occhi e vedere i milioni di fili della corrente legare le abitazioni l’una all’altra, in una matassa nera che giunge poi a dei grandi pali elettrici. Guardando quei fili pensavo: Hanoi è bella perchè è schietta, si mostra per quel che è. Noi i fili li nascondiamo perché sono antiestetici, lei invece li ha resi parte del panorama.
E poi, è sì chiassosa, ma solo perché viva. Sui larghi marciapiedi, seduti su delle sedioline in plastica azzurra, si riversano quotidianamente giovani e anziani che, gli uni accanto agli altri, bevono chi un caffè filtrato con latte condensato, chi una birra Saigon, chi una limonata. Parlano molto, sorridono un poco.
Eppure, mentre io imparavo a dar del tu a quella città, lei mutava. All’inizio impercettibilmente, poi furiosamente. La prima avvisaglia è arrivata quello stesso primo giorno quando, tornata in ostello, mi hanno comunicato che avrei dovuto lasciarlo entro un’ora. Da qualche giorno il Coronavirus aveva iniziato la sua strage in Italia e temevano potessi contagiarli. A nulla era servito aprire il passaporto e mostrar loro i timbri che dimostravano che la mia permanenza fuori dall’Italia era cominciata molto prima che arrivasse il virus. Erano interessati solo alla prima pagina: passaporto italiano. L’umiliazione bruciava soprattutto perché succedeva proprio mentre avevo scelto di aprire il mio cuore ad Hanoi. Zaino in spalla e passaporto in mano, sono uscita in strada.

Ho imparato quel giorno che ad Hanoi, alle quattro del pomeriggio, comincia a piovere. Succede senza alcun preavviso, il cielo si oscura in un istante e la pioggia investe la città. Fitta. Instancabile. Potente. Quel giorno la pioggia mi ha osservata camminare alla ricerca di un ostello, ma non era più la sorridente pioggia del giorno prima, questa volta sogghignava. Finalmente ho trovato un posto in cui dormire e una volta asciutta è stato facile ritrovare il giusto spirito. Era stato, mi son detta, un evento isolato. Ed infatti, purché evitassi di rivelare la mia nazionalità, Hanoi si mostrava ogni giorno più accogliente.
La trovavo una città buffa: di mattina governata dalle donne che si affaccendano in compravendite, al pomeriggio attraversata solo dagli uomini, raggruppati attorno a una pipa alta e larga, a fumare il Thuoc Lao.

Mi piaceva come tutti si fermassero a salutarmi quando dipingevo sul ciglio della strada e molti si impegnassero in acrobatici gesti con le mani per spiegarmi come funziona lo Xiangqi, il loro gioco da tavola. Ogni giorno distinguevo meglio gli odori che provenivano dai pentoloni che si susseguivano sul ciglio della strada: salsa di pesce, brodo di manzo, zampe di pollo fritte, involtini. Mi sentivo accolta, e quando qualche giorno dopo lasciai la città per visitare il resto del Paese, ero ormai certa che quel piccolo incidente dell’ostello non contasse.
Per due settimane ho vagato per le risaie del nord fino a scendere nelle terre calde e assolate del sud. Erano posti magici ma qualcosa stonava, sia dentro che fuori di me. Viaggiare diventava sempre più complicato, intere città chiudevano i battenti, i posti di blocco per misurare la febbre ai turisti erano sempre più frequenti: era tempo di tornare ad Hanoi.
Ad accogliermi però c’era una città molto diversa. Non più quella vivace e appassionata di due settimane prima, ma una Hanoi intimorita e ostile, consapevole di non potersi ammalare, essendo priva quasi completamente di sanità pubblica. La maggior parte degli ostelli aveva chiuso e all’entrata di alcuni ristoranti si leggeva: “NO tourists” e in molti altri non facevo in tempo a varcare la soglia che la sala si raggelava e i proprietari agitavano le mani a segnare grandi “x” e aggiungevano: “Finish, finish!”.
Quel giorno ho avvertito sulla mia pelle la spinosa questione del darsi del tu. Hanoi mi guardava terrorizzata e continuava a darmi del tu, questa volta però per intimarmi di andar via. Certo, accadeva ancora di sentirla respirare con me, eravamo ancora capaci di sorridere dietro ai reciproci cipigli sospettosi e alle mascherine azzurre. Ma quella città che un po’ mi era capitata, un po’ avevo scelto, mi chiamava straniera e mi trattava da estranea. Come era brutto non sentirsi i benvenuti nel paese che si era scelto di visitare! E allora ho pensato a come deve essere difficile non sentirsi accolti nel paese in cui si è scelto di restare.
Ecco il grande insegnamento di quei giorni: scegliere di utilizzare il “tu” davanti all’ignoto richiede un grande atto di fiducia. Può essere l’inizio di una lunga amicizia o l’arma con cui si verrà feriti. Hanoi mi ha accolta e poi abbandonata, ma quando è arrivato il momento di fare i bagagli, l’ho salutata con la familiarità di sempre, rivolgendole un grande sorriso che stava a significare: Mi rifiuto categoricamente di tornare all’ipocrisia del lei. Credo lo abbia capito, perchè mi è sembrato di vederla sorridere di rimando. In fondo è un’esperienza così elettrizzante potersi dare del tu.
di Marta Cerreti