Spesso capita di vivere in una città da molto tempo e di non riuscire a conoscerla per intero. Nelle grandi città, poi, la questione si complica. Prendete Roma: sono venuta a conoscenza delle attività di MaTeMù solo recentemente, ma comunque non ne conoscevo la potenza e il valore finché non mi sono recata sul posto ad ammirare da vicino questo progetto, nato in seno al Cies Onlus-Centro Informazione Educazione allo Sviluppo. L’unica scuola d’arte gratuita d’Italia, per dirla con le parole di Alessandro Baricco, e centro di aggregazione giovanile. Ma MaTeMù non è solo questo: è soprattutto un’interazione di persone e culture diverse volta alla ricerca del bello. Ne ho parlato con la coordinatrice Dina Giuseppetti e con Gabriele Linari, regista, autore ed attore della scena teatrale romana che proprio qui ha fondato la Compagnia Teatrale MaTeMù nel 2017.
Cominciamo da te, Dina, com’è nata l’idea di MaTeMù?
Allora, nasce come centro di aggregazione giovanile. Alcuni di noi lavoravano già come educatori ed educatrici di strada con ragazzi e ragazze di questa zona, in particolare con alcuni e alcune di loro che ballavano la break dance vicino alla stazione Termini. Questi ragazzi e queste ragazze provenivano da diversi Paesi e tra di loro c’erano anche moltissimi ballerini professionisti. Ad un certo punto è arrivata l’esigenza di cercare un posto dove ritrovarsi e fare attività con loro: abbiamo vinto un bando di gara ed è cominciata l’avventura di MaTeMù.
Che in realtà nasce nell’ambito del CIES Onlus…
Sì, infatti io sono arrivata al CIES proprio per gestire questo spazio. Oggi MaTeMù non è più soltanto un centro di aggregazione giovanile perché si è evoluto nel tempo: è qualcosa che ancora non esisteva all’epoca, perciò l’abbiamo chiamato “Spazio giovani e scuola d’arte”, un nome che racchiude tutte le anime di questo luogo. È uno spazio, rivolto a ragazzi e ragazze dai 10 ai 25 anni, che si propone di rimuovere le disparità di accesso alla cultura e all’arte. Alla base c’è l’idea che la cultura e l’arte siano dei bisogni primari, non dei lussi ma dei diritti, che quindi devono essere di tutti. Questo spazio è il risultato di anni di lavoro passati a renderci conto che non è così. L’accesso alla cultura e all’arte è profondamente elitario e non solo per motivi economici: un altro aspetto fondamentale è quello socioculturale. Se tu nasci e cresci con difficoltà socioeconomiche non riesci neppure ad immaginare, per esempio, di andare a teatro. O comunque pensi che quella realtà non abbia nulla a che fare con te, quindi la escludi automaticamente dai tuoi desideri senza averla mai sperimentata. Un conto è vivere in una casa piena di libri con genitori che ti portano al cinema o a teatro, che hanno tutti gli strumenti per scegliere le possibilità migliori, ed un altro è non avere la possibilità di scegliere. Quindi abbiamo cominciato a fare questi corsi di attività artistiche, tutti gratuiti, ma tenuti da professionisti nella loro disciplina. Quindi il livello di qualità è molto alto.
E che corsi si possono frequentare attualmente a MaTeMù?
Attualmente i corsi sono 12: strumenti musicali (chitarra, batteria, tromba, pianoforte e alfabetizzazione musicale); canto, rap, break dance, fumetto e arti grafiche e tre corsi di teatro. Tutto completamente gratuito. Siccome la nostra impressione è che il problema di accesso a queste discipline non sia soltanto economico, abbiamo affiancato a questi corsi una scuola di italiano per stranieri, il supporto scolastico gratuito, il supporto psicologico, l’orientamento alla formazione e al lavoro e anche uno spazio ludico-ricreativo (biliardino, ping pong, il cortile ecc.). In questo modo anche i ragazzi che sono più in difficoltà si avvicinino a MaTeMù tramite questa via: spesso vengono per imparare l’italiano, avere un supporto psicologico oppure per trovare lavoro. Vengono per questi motivi più pratici e così incontrano gli altri ragazzi, che magari frequentano il corso di tromba o il corso di teatro e quindi poi si creano delle intersezioni tra estrazioni sociali e culturali completamente diverse. Ad esempio, ci sono ragazzi e ragazze della Saint Louis e del conservatorio che vengono a MaTeMù perché c’è quell’insegnante di pianoforte o di tromba e allo stesso tempo c’è il ragazzo o la ragazza della casa-famiglia o del centro di accoglienza che frequenta la stessa lezione.
Una bella sinergia…
Sì, infatti si creano dei circuiti di aiuto e di supporto tra le famiglie dei ragazzi benestanti e quelli che sono più in difficoltà. In questo modo si creano degli stimoli reciproci che poi riassumono l’intento di MaTeMù: rendere la cultura accessibile a tutti e a tutte.
E perché questo nome, MaTeMù? Cosa significa?
Una delle fondatrici del Cies, Maria Teresa Mungo, aveva il sogno di creare una scuola popolare nel quartiere Magliana qui a Roma, che fosse inclusiva per tutti i ragazzi e le ragazze. Ci provò per molto tempo e purtroppo morì senza poter vedere il progetto realizzato. Dopo qualche tempo il CIES, avendo creato questo spazio, decise di dedicarlo a lei: il nome non è composto altro che dalle sillabe iniziali del suo nome e del suo cognome. La cosa incredibile è stata scoprire, grazie ai primi ragazzi con origini africane che sono arrivati qui, che Matemu è anche il nome di una maschera africana che simboleggia la prosperità.
Beh, una bellissima coincidenza! Dopo questo bell’aneddoto quasi mi dispiace tornare ad aspetti un po’ più burocratici benché interessanti. Come viene scelto il personale di MaTeMù?
Lo staff è interprofessionale: c’è uno staff artistico composto dagli insegnanti delle varie discipline e uno staff socioeducativo formato da educatori, psicologi e operatori sociali. Queste due anime diverse lavorano sempre insieme: partecipano insieme alle riunioni e alle supervisioni. Tutto questo perché, come già ho accennato prima, sui ragazzi si lavora sotto due punti di vista differenti. Li arruoliamo semplicemente tramite il curriculum che deve avere due caratteristiche principali: da una parte la persona che si propone deve essere un artista professionista nella sua disciplina che si esibisce, dall’altra è utile che il suo percorso intersechi il sociale o il lavoro con i ragazzi.
E come vi finanziate?
Tramite il CIES che partecipa a bandi di gara impartiti dalla Comunità Europea, da fondazioni o da altri enti come la Regione Lazio. Ultimamente anche grazie a donazioni private.

C’è un tipo di pedagogia particolare su cui si fonda la metodologia di MaTeMù?
Sì, la pedagogia del desiderio. L’abbiamo imparata in Brasile durante un periodo di formazione promosso da una fondazione che ci finanziava. Questa stessa fondazione finanziava anche un progetto, il Projeto Axé, dedicato ai meninos de rua a Salvador de Bahía, che lavora con questo metodo molto particolare. Hanno una scuola d’arte con diverse unità artistiche, dalla capoeira alle percussioni passando per danza oppure moda, in cui permettono a ragazzi e ragazze con cui vengono in contatto per la strada ‒ i meninos de rua appunto ‒ di compiere un percorso di tipo professionale, tant’è che questi ragazzi e queste ragazze hanno partecipato a performance di artisti del calibro dei Pink Floyd, o di artiste come Fiorella Mannoia. La frequenza ai corsi d’arte è prevista in orari compatibili con la scuola dell’obbligo vera e propria. L’approccio del Projeto Axé è proprio quello della pedagogia del desiderio, pensata dal fondatore Cesare de Florio La Rocca, che si propone di riattivare il desiderio nei ragazzi di strada, che nascono e crescono senza alcun tipo di prospettiva lavorativa o artistica. Il principio è che l’educatore desidera il desiderio del ragazzo, che deve prima di tutto riuscire ad immaginare che sia possibile raggiungere una situazione migliore rispetto a quella di disagio che sta vivendo. Secondo questo progetto non c’è mezzo più potente di riaccensione del desiderio dell’arte, che diventa essa stessa educazione, o meglio, arteducazione. Noi di MaTeMù ci siamo subito resi conto che era la metodologia perfetta per quello che stavamo creando: de Florio La Rocca aveva dato una definizione ed un linguaggio a quello che volevamo realizzare!
Come vi siete organizzati durante la pandemia?
Durante le zone arancioni e gialle siamo stati aperti seguendo tutte le misure igieniche e di sicurezza necessarie, con ingressi contingentati e lezioni più che altro individuali o con gruppi molto ristretti. Per quanto riguarda le zone rosse, durante il primo lockdown abbiamo svolto tutte le attività in modalità telematica via Zoom mentre gli insegnanti caricavano anche dei contenuti online sui social: ricordo in particolare l’insegnante di sax che caricò una serie di video sulla storia del jazz o l’insegnante di canto che si concentrò sulle cantanti donne nel corso della storia. Ovviamente abbiamo continuato a seguire i ragazzi con più difficoltà tramite telefono, portando loro a casa gli strumenti musicali necessari per seguire i corsi, comprando tablet, assicurandoci che potessero connettersi ad internet e sostenendoli anche con la spesa. Nel secondo lockdown invece abbiamo svolto la DAD assistita in presenza: abbiamo realizzato che molti dei nostri ragazzi con la DAD avrebbero smesso di frequentare la scuola perché non possedevano gli strumenti né si trovavano nelle condizioni adatte a svolgerla, per questo abbiamo scelto di creare qui a MaTeMù delle postazioni di DAD distribuendo i ragazzi che ne avevano più bisogno uno per stanza su turnazione, con computer e cuffie, alla presenza di due operatori per qualsiasi esigenza.

Certo che qui a MaTeMù chiunque può fare tante cose sentendosi molto supportato! Da quello che mi racconti non ci sono molti posti come questo nei dintorni. Come vi ha recepito la città di Roma? La vostra attività è abbastanza conosciuta?
Secondo me siamo conosciuti ma non quanto dovremmo, nel senso che siamo molto conosciuti nell’ambiente del sociale e nell’ambiente del teatro ‒ ad esempio teatro India, teatro Argentina, Carrozzerie n.o.t.‒ ma abbiamo una visibilità limitata per la gente comune o le grandi fondazioni che potrebbero finanziarci. Me ne rendo conto perché spesso passano per MaTeMù personalità famose che rimangono stupefatte dal nostro lavoro. Una volta Alessandro Baricco, che ha tenuto delle lezioni qui, ha detto: «Questa è l’unica scuola d’arte gratuita in Italia. Com’è possibile che non sia conosciuta in tutt’Italia?». Per cui credo che continuare a lavorare sulla comunicazione sia necessario.
Cosa significa gestire ragazzi e ragazze di origine e culture molto diverse tra loro?
Io faccio questo lavoro di educatrice e counselor da oltre vent’anni e ho cominciato occupandomi di ragazzi e ragazze delle periferie romane quindi, quando nel 2010 ho iniziato a lavorare qui non sapevo davvero cosa aspettarmi. All’inizio ho lavorato molto con ragazzi e ragazze migranti che oltre ad avere problemi di altro tipo erano molto miti rispetto ai ribelli a cui ero abituata (ride n.d.r.)! La cosa difficile per me, che lavoro con le parole, era che con loro non potevo utilizzarle perché non parlavo la loro stessa lingua. Perciò ho pensato di concentrarmi solo sui ragazzi italiani lasciando ragazzi e ragazze migranti o che semplicemente parlavano un’altra lingua agli altri collaboratori e alle collaboratrici. Ma poi ho imparato che non è possibile allontanarsi dai ragazzi qui a MaTeMù: sono loro stessi ad entrarti dentro.

C’è qualche episodio particolare che vuoi raccontare?
Mi ricordo di questo ragazzo curdo, A., che entra in ufficio e mi inizia a raccontare la sua storia. Non c’erano altre operatrici o altri operatori in quel momento, perciò ho dovuto tenerlo con me. Nel raccontarmi le motivazioni della sua migrazione verso l’Italia mi dice di questi militari turchi che erano andati a casa sua e di fronte alla sua famiglia avevano esclamato: «Si sente che anche il cane in questa stanza è curdo!» per poi sparare al cane. Per questo i genitori avevano deciso la mattina dopo di farlo partire. Io lì per lì rimango senza parole e non so che fare. Lui si accorge della situazione e mi dice: «Però ci sono anche cose belle a casa mia!» come se in quel momento fosse lui a consolare me. Allora io rispondo: «Per esempio?». E lui: «La primavera». Mi è rimasto molto impresso perché c’è un film del 2006 che si chiama Primavera in Kurdistan e rivedendolo ho constatato che la primavera in Kurdistan è pazzesca! Quindi non mi aveva detto una cosa a caso ma mi ha parlato di una cosa veramente bella della sua terra d’origine. Così ho ragionato sul fatto che tutte queste differenze hanno dei punti in comune, come la primavera.
Che fine ha fatto A.?
Adesso sta lavorando, sta a Milano. Abbiamo provato a farlo studiare per diventare mediatore culturale però era troppo difficile per lui da un punto di vista emotivo. Era il nostro desiderio non il suo. Ha fatto svariati lavori e adesso sta benissimo anche perché ha imparato molto bene l’italiano.
Ho letto che il CIES gestisce anche un ristorante dove fa lavorare i ragazzi e le ragazze, vero?
Sì, si chiama Altrove, promuove l’utilizzo di alimenti provenienti da una filiera etica e dà lavoro principalmente a ragazzi rifugiati e a ragazze rifugiate. C’è sia cucina italiana che di altre parti del mondo e si trova a Roma nel quartiere Ostiense.
Progetti per il futuro di MaTeMù?
Prima del Covid avevamo in mente di creare più MaTeMù in giro per la città o per l’Italia, di trasformarlo in uno spazio aperto dalla mattina alla sera per tutte le fasce d’età, ecc. Con il Covid purtroppo si è creato un grande momento di crisi, perciò adesso siamo in difficoltà, anche economicamente. Speriamo che presto la situazione migliori. Nel frattempo è positivo che il centro abbia riaperto e che ci siano tutte le attività.

Adesso passiamo a Gabriele: come nasce la tua collaborazione con MaTeMù?
In realtà è nata un po’ per caso: loro cercavano un regista per portare avanti degli spettacoli teatrali. All’epoca non c’era un vero e proprio laboratorio teatrale, precedentemente avevano collaborato con una regista esterna per costruire uno spettacolo in cui avevano rappresentato le eccellenze dei ragazzi e delle ragazze o dei e delle peer educator con esperienze teatrali. Da quel momento però, i collaboratori e le collaboratrici del centro hanno avuto l’idea di consolidare la questione teatrale, che doveva produrre uno spettacolo estivo di fine anno nato proprio all’interno di MaTeMù da portare all’esterno, su un palco anche prestigioso, che comprendesse tutte le discipline arteducative del centro: musica, danza, arte, recitazione. E così è stato: Altrove, il primo vero e proprio spettacolo di MaTeMù scritto in parte da me e in parte dai ragazzi e dalle ragazze del laboratorio, andò in scena nel giugno del 2012. Mentre nel 2017 è nata la Compagnia Teatrale MaTeMù.
Con cui immagino avete cominciato ad occuparvi più esclusivamente di recitazione…
Esattamente, perché fino al 2016 io mi occupavo della parte teatrale della rappresentazione di fine anno ma coordinavo anche la regia della parte musicale o di danza. Quindi dovevo gestire questi Kolossal per intero, diciamo (ridiamo n.d.r.)! La Compagnia MaTeMù è formata da chi ha già qualche esperienza teatrale ed è aperta anche a chi è esterno al centro, per esempio ci sono ragazzi del Liceo Aristofane di Roma in cui organizzo laboratori da anni. Generalmente la fascia media d’età dei ragazzi e delle ragazze con cui lavoro va dai 14 ai 25 anni. Ultimamente però Il Cies ha vinto un bando del progetto DOORS per fare arteducazione con bambini e bambine dai 10 ai 14 anni, per cui adesso gestisco anche il laboratorio teatrale 10-14.
Come si sposa la disciplina del teatro con la realtà multiculturale di MaTeMù?
Io dico sempre che quello dell’attore è un mestiere prima di tutto pratico. E nell’esercizio della pratica siamo tutti e tutte fatalmente uguali: abbiamo un determinato obiettivo e lo dobbiamo ottenere. Quindi l’importante è raggiungerlo a prescindere dalle modalità e dai tempi propri di ogni persona, che allo stesso tempo si trova all’interno di un gruppo. Qui a MaTeMù ho visto crearsi molti gruppi di teatro multiculturali, dove varie culture migranti si sono alternate, in base ai vari flussi migratori nel tempo, e si sono incrociate con ragazzi italiani con altri tipi di storie. Per esempio, nell’ultimo spettacolo che abbiamo messo in scena con la Compagnia nel 2019, Marzapane, abbiamo raccontato esperienze differenti: da ragazzi e ragazze di Corviale, quartiere periferico di Roma, a ragazzi e ragazze dell’Aristofane con famiglie anche facoltose alle spalle. C’era anche un ragazzo pakistano pieno di voglia di fare e di scrivere, che sogna di fare l’attore, che si è integrato alla perfezione. Perché la questione non è più l’integrazione, ma l’interazione, che è la cosa più importante. Il contributo di diverse culture ha sempre arricchito l’esperienza del laboratorio con tutte le difficoltà, linguistiche e culturali, che questo può comportare.
Per esempio?
Beh, ci è capitato di interrogarci anche su questioni molto semplici come per esempio il senso dell’umorismo. Una volta eravamo con degli attori e abbiamo detto ad un ragazzo curdo: «Sei proprio un cane!», intendendo scherzosamente che non fosse portato per la recitazione. Lui si è arrabbiato moltissimo perché nella sua cultura essere chiamato cane è l’offesa peggiore! E poi sono successe altre cose straordinarie: un tempo organizzavamo dei campus di due/tre giorni per preparare gli spettacoli. Una volta lo abbiamo fatto all’inizio di gennaio; i ragazzi hanno partecipato ad una riffa e hanno vinto un prosciutto. In quell’occasione abbiamo capito di aver raggiunto il livello massimo di integrazione quando Mohammed, un ragazzo musulmano, per la gioia si è fatto le foto con il prosciutto in mano!
Incredibile! Come sono andate avanti le attività teatrali durante il lockdown?
Nel primo lockdown abbiamo condiviso dei podcast: uno sul racconto di Kafka, La Tana, e altri che si intitolavano di_stanze, presenti anche su Spotify, in cui abbiamo raccontato a modo nostro quel periodo di chiusura. Ad esempio facevamo parlare le stanze. Ne sono nati una serie di monologhi con cui abbiamo creato dei cortometraggi, anche se ci piacerebbe farne uno spettacolo teatrale vero e proprio. Tutto ciò risponde anche alla mia idea di affrontare con questi ragazzi temi che non siano per forza la rappresentazione didascalica della migrazione o del loro vissuto tragico. Hanno il diritto, il bisogno e il dovere di andare oltre. In questo senso il titolo del primo spettacolo, Altrove, è emblematico e comunque rappresentava il tema del viaggio. Poi siamo passati a La Tempesta di Shakespeare e a Furore di Steinbeck e piano piano ci siamo diretti verso altri argomenti. Il primo spettacolo in assoluto della Compagnia MaTeMù è stato #loro, incentrato sull’ hate-speech ed ha avuto un grande successo soprattutto nelle scuole. L’idea dello spettacolo mi è stata suggerita da Elisabetta Bianca Melandri, presidentessa del CIES, durante la riunione organizzativa di inizio anno. Visto il successo ottenuto, aveva ragione!
Foto di Carolina Germini e Compagnia MaTeMù