È difficile definire il confine che separa il teatro dal cinema di Mario Martone. Nella sua opera infatti i due linguaggi convivono da sempre in un’infinita e continua contaminazione reciproca. Questo è evidente già ai tempi di «Falso movimento», gruppo teatrale che il regista fonda insieme ad altri, tra cui Andrea Renzi, a Napoli nel 1977. Negli spettacoli vengono inserite sequenze filmiche ed effetti sonori, seguendo un movimento più vicino a quello del cinema che del teatro. Lo stesso Martone, ricordando quel periodo, scrive: «Non volevamo avere niente a che fare né con il teatro di tradizione, né con quello d’avanguardia; volevamo costruire uno spettacolo secondo sequenze e controtempi, cioé con cose che al cinema e in un concerto sono impalpabili, e calarle nelle tre dimensioni dello spettacolo teatrale».
Espressione massima di questa volontà è lo spettacolo Tango glaciale (1982), la cui meccanica visiva è composta da un sistema di architetture di luce, realizzato attraverso il montaggio di filmati e diapositive.
Durante questa esperienza l’incontro con gli attori Antonio Neiwiller e Toni Servillo si rivela decisivo. Dopo aver lavorato con Neiwiller nello spettacolo Il desiderio preso per la coda (1985) e con Servillo in Ritorno ad Alphaville (1986), Martone infatti propone ai membri del gruppo «Falso Movimento» di unirsi ai due attori, dando così vita a una realtà più ampia, che prenderà poi nel 1987 il nome di «Teatri Uniti» e che trova il suo punto di forza nella scrittura di Enzo Moscato.

Questa rottura con la tradizione, nata da un forte bisogno di sperimentazione, è ancora viva nell’ultimo film del regista: Qui rido io, presentato quest’anno alla Mostra del cinema di Venezia. La pellicola infatti non sfugge a quella ricerca che da sempre lega l’esperienza teatrale a quella cinematografica fino a creare una zona indiscernibile, che lo spettatore è chiamato ad abitare.
Protagonista assoluto è Eduardo Scarpetta, attore e commediografo napoletano, creatore del teatro dialettale e padre dei fratelli De Filippo, interpretato magistralmente da Toni Servillo. Nel film emerge con forza il modo in cui Scarpetta inventò un teatro nuovo, volendo fortemente rompere con la tradizione della commedia dell’arte.
Nella definizione del carattere e della personalità di questa figura risalta un elemento in particolare: l’eccesso. Scarpetta sembra mosso da un solo desiderio: superare ogni limite. Ed è soprattutto nelle scene di vita famigliare e in particolare a tavola che questa sua natura viene fuori, come quando lo vediamo mangiare pane e pasta insieme. Un’immagine che ci restituisce tutta la sua insaziabilità di vita e che ritroviamo in un’altra scena, quella in cui interpreta don Felice Sciosciamocca, personaggio di Miseria e Nobiltà, commedia che lo ha reso celebre al grande pubblico. Sciosciamocca sale in piedi sul tavolo, divorando un piatto di spaghetti con le mani, come Totò nel film di Mario Mattoli, trasposizione cinematografica della commedia di Scarpetta.

Questa sua dismisura si riflette in ogni cosa e soprattutto nei rapporti con le donne. Pur essendo sposato con Rosa De Filippo, da cui ebbe due figli, Vincenzo e Domenico (probabilmente Domenico però era figlio di Vittorio Emanuele II), Scarpetta intrattenne diverse relazioni extraconiuguali: anche con Luisa De Filippo, nipote della moglie. Da questa unione nacquero i Fratelli De Filippo: Titina, Eduardo e Peppino, mai riconosciuti dal padre.
La famiglia allargata di Scarpetta, rumorosa e caotica e per questo apparentemente felice, finisce per isolare chi ne fa parte, come il povero Peppino, cresciuto in campagna lontano da tutti, che quando viene fatto rientrare a Napoli, si sente estraneo a quell’ambiente e vuole tornarsene a casa.
Ennio Flaiano scrisse: «Vado via dalla famiglia per sentirmi meno solo». Sembra questo anche il destino dei figli di Scarpetta, che il padre non sembra saper distinguere dai personaggi dei suoi spettacoli.
Non è la prima volta che la famiglia De Filippo entra nel cinema di Martone. Il suo film precedente, Il sindaco del rione Sanità, è infatti la trasposizione cinematografica dell’omonima commedia di Eduardo De Filippo, in cui la figura del padre e in particolare il tema del padre che rifiuta il figlio è centrale.
Il teatro è senza dubbio il centro di Qui rido io. Lo spazio scenico si dilata, fino ad avvolgere tutti gli altri ambienti. L’abbraccio di Scarpetta al suo pubblico riempie anche il dietro le quinte e la casa della sua famiglia, che appare come un’estensione di questo universo, tanto che non distinguiamo più quando siamo a teatro e quando ne siamo fuori.

Attorno alla figura carismatica di Scarpetta si muovono come orbite diversi personaggi, tra cui anche Gabriele D’Annunzio che trascinò Scarpetta in tribunale a causa della parodia che egli fece del testo La figlia di Iorio. Questo episodio decretò la fine della carriera del commediografo napoletano che, deluso, decise di abbandonare definitivamente le scene.
È la Napoli della Belle Époque quella che la regia di Martone e la fotografia di Renato Berta ci restituiscono: la Napoli ritratta dai fratelli Lumière nel 1895, dei luminosi Café Chantant, dei salotti e dei teatri, una Napoli che ha tutte le caratteristiche della metropoli moderna. La Napoli di fine Ottocento in cui risuonano le parole di Era de maggio di Salvatore Di Giacomo e la musica di Roberto Murolo che insieme osteggiarono Scarpetta nella disputa con D’Annunzio. La Napoli di Benedetto Croce che invece lo difese, sostenendo che bisogna saper distinguere tra parodia e contraffazione.
Una Napoli di cui subiamo il fascino attraverso lo sguardo di un uomo, che è riuscito a trasformare questa città nel suo teatro.
