«I tre piani dell’anima non esistono dentro di noi» ma soltanto «nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia». Così afferma Dovra, giudice in pensione che abita all’ultimo dei Tre piani immaginati da Eshkol Nevo, nel libro (Neri Pozza) che ha ispirato l’attesissimo film di Nanni Moretti, presentato quest’anno in concorso al Festival di Cannes e uscito nelle sale il 23 settembre.
È questa frase – che in maniera meravigliosamente metatestuale sembra mettere in discussione l’intera struttura a capitoli del romanzo – a illuminare l’interpretazione morettiana della vicenda: nella sceneggiatura, scritta con Valia Santella e Federica Pontremoli, le vite dei personaggi che abitano nello stesso condominio si intrecciano infatti in misura molto maggiore.
Se in Caro diario (1993), a bordo della sua vespa, Moretti vagheggiava «un film fatto solo di case», Tre piani è in qualche modo la concretizzazione di questo progetto, ma in una direzione totalmente nuova e inaspettata: a distanza di quasi trent’anni, il regista torna nel quartiere romano di Prati, per aprire uno squarcio (non soltanto metaforico) nelle mura di un’elegante palazzina, e svelare i turbamenti che affliggono ogni famiglia.

A ogni piano corrisponde una delle istanze in cui la personalità psichica freudiana si scompone – Es, Io e Super-Io –, e, da questo punto di vista, Nanni Moretti non poteva scegliere interpreti migliori per incarnarle. Se Riccardo Scamarcio veste perfettamente i panni di un padre guidato da pulsioni irruente, ossessionato com’è dall’idea che la figlia abbia subito violenza da parte dell’anziano vicino di casa, i lineamenti particolarissimi di Alba Rohrwacher sono forse i più adatti per impersonare un Io tutt’altro che granitico, assillato dallo spettro della solitudine e dalla follia. Non sorprende, infine, che il ruolo di giudice dalla morale inflessibile – tanto nella professione, quanto negli affetti – Moretti l’abbia scelto per se stesso, affiancato da una più morbida Margherita Buy, incapace però di mediare tra la rigidità del marito e la totale irresponsabilità del figlio.
Le riprese sono rigorosissime nel portare al centro quel soggetto che, in qualunque luogo – dell’“anima” e della palazzina – si trovi, risulta costitutivamente incrinato. È lo sgomento che sconvolge e deforma i volti in primissimo piano – come già in Mia madre (2015) – a rompere la simmetria delle inquadrature, così come l’apparente solidità che una vita agiata in una residenza borghese sembrerebbe garantire. Per questo le brevi scene in cui Moretti fa la sua comparsa sono quelle che risultano più dirompenti a livello simbolico ed emotivo: l’intransigenza della Legge che il suo personaggio rappresenta, anche psicanaliticamente, viene letteralmente presa a calci dal figlio, e pare persino avere un cedimento, quando un messaggio della segreteria telefonica registrato anni prima rievoca un momento di tenerezza familiare.

Facendo riferimento a una splendida e dolorosissima scena de La stanza del figlio (2001), si potrebbe dire che “è tutto rotto, è tutto sbeccato in quelle case”. Su quelle fratture, che nelle pagine di Nevo rimangono irrisolte – e forse irrisolvibili –, il film decide però di non insistere fino in fondo, cercando invece la ricomposizione dei conflitti. La scelta di dilatare la narrazione nell’arco di quindici anni permette infatti al tempo di suturare – o quantomeno di rendere più sopportabile – ogni ferita. «È un film che insegna a perdonare le persone che ci stanno accanto», ha commentato lo scrittore israeliano, commosso dall’adattamento cinematografico di Tre piani.
Ma per chi ama l’opera di Eshkol Nevo e da sempre è affezionato al cinema di Nanni Moretti, la fortissima aspettativa era quella che l’ “apertura all’altro” – e la possibilità di una conciliazione, se così si può dire – venisse tradotta anche nei termini di una partecipazione sociale e politica.
Se rimane una traccia di questa intenzione nell’incontro di Margherita Buy con alcuni ragazzi immigrati, il “tango clandestino” che accoglie i protagonisti alla loro uscita dal condominio – per quanto sia il momento più “morettiano” del film – depotenzia la deflagrante immagine della manifestazione che invade le strade di Tel Aviv e che chiude il romanzo. È infatti indimenticabile la metaforica discesa che, dall’ultimo piano della palazzina, conduce l’ex giudice Dovra a raggiungere la piazza per unirsi alla cosiddetta «protesta delle tende», quasi a significare la possibilità della Legge di avvicinarsi a una concezione più ampia e pulsante del diritto e della giustizia.
Rinunciando a radicare il film nel contesto attuale, Nanni Moretti manca forse un’occasione. Eppure, nonostante tutto, quel che sorprende – almeno dai tempi di Sogni d’oro (1981), e poi con Il caimano (2006) e Habemus Papam (2011) – è la sua capacità di intercettare e anticipare umori e tendenze sotterranee del nostro tempo. Rimasto congelato per quasi due anni a causa della pandemia, Tre piani è un invito a varcare la soglia delle nostre case – che più di ogni altro luogo ci hanno messo in contatto con le nostre fragilità –, per riconoscere senza timore il bisogno e il desiderio che ci lega agli altri.
