«Il tempo, ne sono sempre più sicuro, sempre più certo, è una malattia che non farà altro che peggiorare e stancarci, in una battaglia che non possiamo vincere».
È ancora una volta un conto alla rovescia quello che scandisce le pagine de Il nostro meglio, terzo romanzo di Alessio Forgione pubblicato da La nave di Teseo, che con il suo esordio Napoli mon amour (NNE) condivide anche l’inquietudine dello stesso protagonista. Se l’Amoresano trentenne era alle prese con l’esaurirsi progressivo e irrimediabile delle proprie risorse economiche e affettive, quello diciannovenne – che impariamo a conoscere in questo libro – si trova piuttosto a fare i conti con una sorta di “lutto anticipato”, ovvero con il rapido deperimento che conduce alla perdita della nonna, la persona che più di altre gli ha forse “insegnato come stare in questo mondo”.
Non sono più, allora, le partite del Napoli a dare il ritmo alla narrazione, ma un altro gioco – tragico e necessario – che ci costringe «a fare sempre del nostro meglio, perché le carte che la vita ci ha concesso, da sole, non sono abbastanza». E, fin dal titolo meraviglioso, comprendiamo che ad essere coinvolta è una prima persona plurale: il romanzo di Forgione – sulle orme della tradizione letteraria napoletana e meridionale – si apre a una dimensione collettiva che è, innanzitutto, familiare. L’esperienza della cura e della morte è letteralmente corale, al punto che, agli occhi di Amoresano, il pianto scomposto dei parenti che inonda le ultime pagine non può che assomigliare a un canto. Così, quei familiari silenziosi e discreti, abbozzati nei libri precedenti attraverso gesti impercettibili, vengono finalmente raccontati a tutto tondo e con estremo tatto, mentre continuano a tenersi stretti, legati a una «normalità strana e nuova» imposta dalla malattia.
È un “gioco di incastri” – così come definito dall’autore – quello che nei romanzi di Forgione permette di ritrovare gli stessi personaggi, osservati ogni volta da una diversa angolatura e colti in un momento differente della loro crescita. In questo caso, una celebre frase di Paul Nizan può riassumere magistralmente l’irrequietezza che accompagna tutti i giovani protagonisti de Il nostro meglio, che si offrono ad Amoresano come uno specchio attraverso il quale comprendersi: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita».
Se con Maria Rosaria – tabaccaia dal passato lacerante già presente in Giovanissimi (NNE) – Amoresano sottolinea e condivide libri, in un dialogo sospeso tra paura e desiderio, con Anna – seducente studentessa che lavora in un locale – le conversazioni si svolgono in lunghe ed estenuanti passeggiate alla scoperta dei “luoghi più belli di Napoli”. Perché è soprattutto nei vicoli della propria città in cui sfreccia in motorino, quella Napoli che l’amico Angelo decide invece di abbandonare per Londra, che il giovane protagonista si riconosce: «stanca, che ancora si muove e procede, verso dove non si sa, ma procede».
Il malessere che sottilmente pervade la vita di Amoresano e dei suoi coetanei pare estendersi a un’intera generazione, fino a raggiungere tutti quegli studenti universitari che attraversano Mezzocannone con zaini in spalla alla stregua di «paracadute»: «esploratori» in una città che sembra «un’isola deserta, immensa, sulla quale arriviamo con poca roba e incerti del futuro. E la popoliamo e costruiamo (…), quasi non accorgendoci dei nostri sforzi, mentre cerchiamo di conoscerci meglio e di superare indenni la paura».
È soprattutto una geografia della memoria, quella de Il nostro meglio, in cui Napoli viene lentamente svelata attraverso ricordi dell’infanzia che – proprio come quella «corda del panaro» che un tempo legava il polso della nonna a quello del nipote, immersi nel mare di Bagnoli – fungono da ancora di salvezza e impediscono di annegare nel presente.
Ma la Napoli descritta da Forgione è anche una Napoli “letteraria”, che si districa tra i titoli di Elsa Morante e Anna Maria Ortese, e che non rinuncia ad omaggiare nuovamente l’opera dell’amatissimo Raffaele La Capria. È in una delle pagine più suggestive del libro, infatti, che Amoresano si avvicina a Palazzo Donn’Anna, il monumentale palazzo di Posillipo che in Ferito a morte veniva lentamente eroso dal mare, fino a diventare il simbolo più evidente del trionfo inevitabile della Natura sulla Storia. Non è un caso, forse, che proprio in questo luogo – quasi in una prefigurazione dello splendido finale di Napoli mon amour – il giovane Amoresano si trovi di fronte il «Vesuvio, che tutto e tutti osserva e giudica dall’alto e a nessuno risponde», mentre «tra tutte queste cose, in mezzo e dentro, c’è il suono del mare, che si muove e assale tutto».
Quando sul tavolo si è gettata l’ultima carta, l’ultima arma a disposizione nella partita giocata contro il tempo, è invece il dolore a sovrastare ogni cosa. Ed è qui che la prosa di Forgione – che, pur arricchendosi di metafore, non smette di essere lineare e diretta, ricalcando espressioni napoletane – si spegne e ha una battuta d’arresto di fronte a quel «niente» residuo dopo la morte della nonna: sono infatti le venti interminabili pagine bianche che chiudono Il nostro meglio a rendere tangibile, concretamente e paradossalmente, la materialità del vuoto e dell’assenza.
Fin quando, sorprendentemente – come a volte riescono a sorprendere le ghost track di alcuni album musicali –, compaiono ancora poche righe, che risuonano come una rielaborazione del lutto, una dichiarazione d’intenti, una dedica commovente. Alludendo e allineandosi a uno dei migliori finali della storia del cinema – quello di In the Mood for Love di Wong Kar-wai –, Alessio Forgione si riappropria del suo “tempo perduto”, custodendolo nella scrittura, che è forse quel che più si avvicina alla dimensione del «per sempre».
