Napoli a due tempi. Conversazione con Alessio Forgione

Poi vai a dirgli: Caro papà, voglio partire per Milano per andare incontro alla Storia. Che cosa mi trattiene? È così semplice!

Raffaele La Capria, Ferito a morte

A gennaio è uscito Giovanissimi, il secondo romanzo di Alessio Forgione, in dozzina al Premio Strega. Dopo Napoli mon amour, un secondo libro ambientato a Napoli, in un’“altra” Napoli: il quartiere di Soccavo. I libri di Forgione sembrano, infatti, mostrarci delle Napoli diverse, più città, o forse la stessa città a più ritmi. I due tempi di Napoli sono quelli del motore dello scooter sul quale Marocco corre velocissimo verso l’età adulta, sono i due tempi delle partite del Napoli (anche se, a volte, per vincere la Coppa Italia ci vuole anche il tempo di battere i rigori), sono le temporalità diverse, ma intrecciate, con cui Napoli ti getta nella vita adulta e lì ti impone di ristagnare. Sono i tempi di una città che, parafrasando La Capria, ha sempre vissuto il proprio ritmo, restando fuori dal ritmo della Storia.

Entrambi i tuoi libri, Napoli mon amour e Giovanissimi, sono ambientati a Soccavo, quartiere che hai più volte definito “periferia della periferia”. Cosa intendi con questa espressione?

In un certo senso Napoli è tutta una periferia: il centro storico è veramente un quartiere di proletari e sottoproletari, più delle periferie stesse. Secondigliano e Scampia “fanno notizia”, ma credo rappresentino anche la zona d’Europa con il più alto grado di associazionismo, e puoi trovarci bar e teatri; a Soccavo, invece, a parte un centro sociale e un paio di associazioni di volontari, non c’è nulla, nemmeno una piazza dove la gente possa riunirsi. Soccavo, dove sono nato, costituisce insieme a Traiano e Pianura una sorta di triangolo: non ci sono poi queste grandi differenze, vengono individuate più dalle persone che vogliono tracciare una linea tra “siamo poveri” o “siamo molto poveri”. Di questi posti senti parlare soltanto quando hanno sparato a qualcuno. Credo che Giovanissimi sia il primo romanzo che ha Soccavo come luogo. È un posto così anonimo che quando ti ritrovi a leggere il nome “Soccavo” in qualche libro dici “uà incredibile”. Penso mi sia capitato solo un paio di volte con Peppe Lanzetta e con Napùl, una raccolta di racconti molto bella di Marco Perillo. È strano che ora Giovanissimi sia arrivato in dozzina allo Strega, e Agostino Ferrente abbia vinto con Selfie un David di Donatello raccontando la stessa realtà di quartiere. Per anni non ci ha considerato nessuno e adesso forse stanno cominciando a farlo, spero.

Tra Giovanissimi e il film di Ferrente ci sono molte affinità. Nel tuo libro, Soccavo è raccontato in prima persona, in Selfie, il Rione Traiano da una sorta di “soggettiva capovolta”. Inoltre, in entrambi viene messa in evidenza la forte compresenza di violenza e tenerezza, tipica dell’adolescenza nelle periferie.

Con Agostino siamo amici, ci sentiamo, ma la nostra è più un’affinità elettiva. Quando ho visto Selfie, stavo già scrivendo Giovanissimi, e per me è stato cercare di dire quasi la stessa cosa: che le persone che vivono qui sono povere, ma non stupide, e come tutte le altre persone del mondo hanno una struttura psicologica e sentimentale. Invece, molto spesso gli abitanti delle periferie vengono rappresentati come pupazzi che non provano sentimenti, che non pensano. Nella narrativa, la Napoli delle periferie è stata raccontata e poi dimenticata. Anna Maria Ortese e Domenico Rea ne hanno parlato negli anni Cinquanta e Sessanta, poi questa narrazione si è spenta. È ripartita per esempio dal cinema, come nel caso di Pianese Nunzio di Antonio Capuano, film che piace moltissimo sia a me che ad Agostino, e che reputo un’influenza diretta. Anche da lettore, avverto l’esigenza che i personaggi vengano trattati da persone e non in modo monodimensionale. Purtroppo, sembra quasi che le periferie siano un problema e il resto della città stia bene. La città dovrebbe, invece, essere un corpo omogeneo, non frammentato. Giovanissimi è uno sguardo su Napoli dall’interno di una periferia: di fatto i ragazzi non escono mai dal quartiere, che si configura come un vero e proprio mondo; in Napoli mon amour il protagonista Amoresano, invece, se ne va girando per la città, pur partendo da Soccavo.

I tuoi libri sembrano il risultato di due tipi di urgenza diversa. Cos’è cambiato nella tua relazione con la città, nel periodo in cui li hai scritti, e in che modo questo mutamento ha influito sulla scrittura?

Prima di cominciare a scrivere, ho lavorato come marinaio: per alcuni mesi stavo in giro e altri me ne stavo a Napoli. Lo stare a Napoli era la molla per andarmene, e la lontananza era la molla per tornare. Di fatto, con Napoli avevo questo rapporto qui: la tenevo sotto controllo, facevo una specie di overdose e poi mi disintossicavo. Poi ho smesso con quel lavoro, e sono stato per circa due anni e mezzo ininterrottamente a Napoli: non ne potevo proprio più, dello stile di vita, delle persone, di questo loro accettare passivamente le proprie vite. Perché, in fondo, Napoli è un po’ così. Quindi, nel momento in cui ho iniziato Napoli mon amour, non avevo alternative, potevo scrivere solo quella storia, che poi era ciò che mi stava accadendo in quel preciso momento.

Giovanissimi, invece, è stato scritto interamente a Londra, e forse lo stare lontani da un posto ti rende più acuto, pungente, attento, perché lo devi creare. Ho passato moltissime serate su Google Maps, andando a rivedere le strade in cui sono nato e cresciuto e anche i palazzi che conoscevo già, perché volevo che tutto fosse assolutamente perfetto. Prima che uscisse Selfie, pensavo spesso al fatto che nessuno avesse ancora mai raccontato Soccavo e che magari non lo avrei fatto più nemmeno io. Per questo, mi sono convinto che nel farlo, lo si sarebbe dovuto fare in maniera, se non scientifica, almeno molto attenta. Perché poi è questo il punto: che quando qualcuno racconta la periferia dall’esterno, la racconta con faciloneria, quasi con paternalismo. Invece, io volevo confezionare qualcosa che fosse assolutamente curato, perfetto nei particolari, per un posto che non ha nulla di curato e perfetto nei particolari. Quindi sì, certamente il rapporto con Napoli cambia. In Napoli mon amour c’è quasi un bisticcio con la città. È uno dei topos dello scrivere su Napoli, come per la Ortese di cui parlavamo prima, La Capria, Ermanno Rea: è proprio un modo di fare degli scrittori napoletani (ride). In Giovanissimi, invece, non c’è un reale litigio, il protagonista Marocco accetta la sua realtà per quello che è, non c’è alternativa, “qua sto e qua devo rimanere”.

Quindi Marocco in qualche modo sa di dover restare a Napoli, di dover crescere lì. Amoresano, invece, in Napoli mon amour, vorrebbe andare via, ma è costretto a rimanere. Questa differenza fa riflettere sulla diversa ritmica dei due libri: ecco, questo cambio di temporalità è molto interessante. C’è qualcosa che ricorda Ferito a morte di La Capria, quella parte bellissima su Storia e Natura. A partire dalla divisione in capitoli, la scansione geografica per quartieri in Napoli mon amour richiama ad una specie di staticità, una Napoli che trattiene in un eterno presente, in cui l’unica scansione temporale sono i soldi che diminuiscono; in Giovanissimi è proprio Napoli che invece spinge Marocco nella vita, tramite il ritmo progressivo della rielaborazione del lutto. Quasi una Napoli che aiuta ad entrare nella vita adulta e poi impone di ristagnare. 

Sì, è proprio un tema della napoletanità. Diventi adulto molto velocemente, i bambini sono dei giovani adulti. Fin da molto piccolo sai cosa sono la morte, il sesso, la droga, e quando arrivi a trent’anni la tua forma mentis non è cambiata poi molto rispetto a quando ne avevi dodici. Un altro dei temi della Napoli contemporanea: quasi tutti i miei coetanei vivono a casa con i genitori. Questo perché Napoli non ti offre nessuna possibilità di partecipare alla Storia. Ti dà la possibilità di prendere un biglietto del treno per Sorrento appena c’è bel tempo, per farti un bellissimo bagno. Ma appena arrivi là, sai che dovrai comprarti la birra al bar invece che al lido, dove è più economica, e portarti il panino da casa, perché i soldi sono davvero limitatissimi.

Napoli ti porta a diventare adulto molto giovane e a bloccarti lì. Per quanto riguarda la temporalità, secondo me esiste un solo tema, che è il tempo. I romanzi contemporanei, quelli che stanno uscendo e sono destinati a rimanere, si interrogano esclusivamente sul tempo, perché di fatto non è rimasto altro da fare che guardare lo stesso oggetto con prospettive diverse. E la prospettiva diversa per me può essere data soltanto dal tempo. Il cambio di narrazione attraverso il personaggio, all’interno della stessa storia, è roba vecchia di secoli, e dopo Mentre morivo di Faulkner non credo abbia più nemmeno senso. L’unica cosa che è rimasta è quella di osservare una stessa azione da un punto di vista temporale diverso, capire quanto il personaggio sia cambiato e quanto quell’azione si sia modificata nel tempo.

A proposito dell’immobilità della “Natura”, colpisce molto l’“indifferenza” del Vesuvio in Napoli mon amour, nelle cui pagine è particolarmente rilevante la presenza del paesaggio. Quale significato ha il mare nei tuoi romanzi?

Non vi so rispondere davvero, per me è un paesaggio di default. Fino ai dodici anni sono cresciuto a Bagnoli, un quartiere che dà proprio sul mare, dove da bambino andavo a fare il bagno. Di prima mattina aprivi il balcone e vedevi il mare lontano chilometri tra i tetti dei palazzi, era proprio uno spicchio. Sei cosciente che i ricchi abbiano su di esso un affaccio di 360 gradi, ma anche se è un pezzettino minuscolo, ce l’hai pure tu. Poi, quando ho lavorato come marinaio, ho vissuto proprio sul mare: per me ha significato fatica, qualcosa di brutale, l’avere a che fare con persone piuttosto volgari. Quando abitavo a Londra, non essendoci il mare, andavo a passeggiare lungo il canale, per vedere un po’ di acqua che scorre. Certamente Napoli mon amour è un libro geograficamente molto più aperto, come fosse una sorta di visione panoramica da una collina della città, mentre in Giovanissimi si è circondati dai palazzoni che fanno da confine al quartiere. Per me, anche se il mare non c’è, è come se ci fosse: è proprio una sorta di metafora della scalinata sociale. Se il borghese pensa al mare come ad una giornata in spiaggia con un mojito in mano, io penso alle diciotto ore di lavoro ogni giorno. Per quanto mi piaccia andare a mare, per me non è una cosa totalmente felice. Anzi, è proprio quell’elemento che, nella felicità, ti fa avvertire quante cose ancora non vadano.

Leggendo i tuoi libri, si ha la sensazione che il calcio sia sempre presente, non in modo banale, ma come una linea temporale alternativa al ritmo della vita, che accompagna e si scontra con il resto delle altre azioni che si compiono quotidianamente. Qual è il legame tra la temporalità del calcio (vissuto da tifoso o da giocatore) e la vita dei tuoi personaggi?

Per come ho strutturato Napoli mon amour, il romanzo è scandito dalle partite del Napoli. Era la prima cosa lunga che scrivevo, non sapevo bene come scandire il tempo, e l’unica cosa che sono riuscito a trovare per dirmi “è passata una settimana” erano le partite del Napoli (ride). Il calcio fa sicuramente parte della mia quotidianità e sicuramente la influenza. Il calcio è aggregazione, ed è un modo per stabilire la propria individualità nell’aggregazione. Per esempio, Marocco compare in Napoli mon amour e dice una cosa su Insigne, e Amoresano lo guarda e dice “chist è scemo”, nient’altro, oppure Amoresano che parla con il padre sempre e solo di calcio, lo fa perché è un modo per creare un legame. Però sicuramente una cosa che non farò più è nominare la parola “calcio” o mettere un pallone nei miei libri, perché ne viene sempre preso l’aspetto più facile, più superficiale. È un argomento molto difficile da far capire. Marocco non gioca a calcio perché vuole diventare un calciatore. Per me è chiaro che Marocco non lo diventerà davvero, gioca a calcio perché è un adolescente, e fa parte di una tribù e se non fa parte di una tribù vuole farne parte, perché l’adolescenza è fatta così: stai cercando di scoprire la persona che diventerai, o che sei già, e tutto ti destabilizza quando sei alla ricerca della tua identità. Quindi per me il calcio ha questo scopo: creare un’identità.

A proposito di questo argomento, in Giovanissimi il vuoto lasciato dalla madre è una ferita che contribuisce a creare l’identità di Marocco. In entrambi i tuoi romanzi, la figura del padre è inoltre una presenza costante, caratterizzata da una particolare discrezione nell’aiutare. Quale rilevanza hanno le figure genitoriali nella tua narrativa?

In Natale in casa Cupiello di De Filippo, a un certo punto viene detto “c’aunimm e magnamm”, e secondo me questa è la napoletanità. Davvero, a Napoli non si può mangiare da soli, ci si deve riunire. E questo tipo di socialità nei miei romanzi c’è sempre. In Napoli mon amour volevo che i lettori si domandassero quale fosse la vera relazione con i genitori, e che questo aspetto risultasse un po’ disturbante. Per ora il rapporto familiare è stato trattato da una prospettiva più distante, ma vorrei che il prossimo libro fosse una cosa à la Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Se penso ai romanzi dell’ultimo anno di autori campani, tra i trenta e trentacinque anni, che mi sono piaciuti, la famiglia è presente in tutti: in Svegliami a mezzanotte di Fuani Marino, così come nella raccolta di Perillo di cui parlavamo prima. A scuola si insiste molto su I promessi sposi, e non si pensa mai a I viceré di De Roberto scritto pochi decenni dopo, che è un libro enorme e una saga familiare. La letteratura meridionale è così, ed è molto ignorata, al punto da non trovare spazio nei libri di letteratura italiana. Mi sento sicuramente influenzato da De Filippo – che è il nostro Dostoevskij – dai due Rea, dall’Ortese, così come da molti siciliani che, con i loro milioni di personaggi, per me sono “i russi” della nostra letteratura. Quindi sento assolutamente di appartenere e partecipare ad una tradizione. Lo faccio a modo mio, ma lo avverto come un unico fluire. Il meridionale potrà anche a vivere a New York, ma come nel film di Mario Merola, alla fine la telefonata alla mamma la fa.

Le città, come fossero un corpo vivente, sembrano trasmettere qualcosa di profondo a chi le attraversa, e non solo quando ci si nasce o le si abita. Percepisci da Napoli una comunicazione del genere? Come la descriveresti?

Capisco perfettamente quello che dite. Uno degli aspetti di Napoli che mi affascinano, mi inquietano e non ho il coraggio di investigare è quello dell’esoterismo. Quando il centro storico è vuoto incute molta paura, sembra che possa apparire un fantasma da un momento all’altro, perché è vecchio di secoli e secoli. In realtà cerco di non chiarire a me stesso quale sia il mio rapporto con Napoli, se sia di amore o di odio: mi interessa semplicemente viverlo.

Non mi sono mai posto come obiettivo quello di illustrare la città, e non credo che i miei libri siano un buon modo per capirla. È semplicemente il posto al quale appartengo. E credo in quella cosa che diceva Tolstoj, ovvero che raccontando il proprio villaggio si racconta l’umanità. Questo per me significa che gli uomini – che vivano in Russia o a Napoli – spogliati delle loro sovrastrutture, sono pressoché uguali. Vorrei pensare che le città siano belle perché vengono rese belle dalle persone che le abitano, ma credo anche che siano realtà che hanno un’anima non scalfibile. Sicuramente Napoli ha un’anima, ma non sta a me dire quale sia. Credo che il tentativo di dire “Napoli è questo” sia presuntuoso e destinato per forza a fallire. Perché una città è la risultante di così tante forze e particolarità, che descriverla totalmente è davvero impossibile. Se mi chiedete se Nostalgia di Ermanno Rea sulla Sanità, o Ferito a morte di La Capria su Posillipo, parlino di Napoli, rispondo “sì” per entrambi, anche se si tratta di due Napoli diversissime. Per esempio, il centro storico è un posto che vivo da quando sono adolescente, ma non è la mia Napoli. La mia prospettiva forse, in fondo, è quella di Amoresano, che tutto quello che fa lo deve fare, ma partendo da qua: da Soccavo. Napoli sono tante città. Forse il mio intento è più quello di descrivere come credo sia fatto l’essere umano, partendo dal piccolissimo del mio quartiere.

L’intervista è stata realizzata da Chiara Molinari e Silvestre Gristina.

L’immagine di copertina è di Roberta Basile/Kontrolab

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