«Esisteva effettivamente Napoli, nel marzo 1947?». Questa è la domanda che accompagna Giuseppe Marotta nel suo viaggio di ritorno nella città natale, dopo vent’anni di assenza. Vent’anni nel corso dei quali sono piovuti i bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale, che hanno cambiato per sempre il volto della Napoli conosciuta durante la giovinezza, lasciando al suolo una distesa di macerie e di miseria.
«Dissi di no – si risponde immediatamente l’autore –; dissi che Napoli è una città inventata». Agli occhi di Marotta, Napoli è infatti continuamente riplasmata dagli «innumerevoli Eduardi e Peppini e Titine De Filippo» che si muovono sullo sfondo di edifici distrutti, allo stesso modo in cui gli attori recitano davanti alle quinte teatrali: uno scenario che in questo caso è simile a un telone squarciato da qualcuno che non abbia apprezzato la rappresentazione.

San Gennaro non dice mai no, comparso per la prima volta nel ’48, e ripubblicato lo scorso 19 settembre (proprio in occasione del “miracolo” compiuto dal patrono) dalla piccola e coraggiosa Polidoro Editore, è allora il personale contributo di Marotta all’“invenzione” di Napoli: una «rozza cantilena» dedicata alla sua città – come scrive nella nota introduttiva – suonata con intenzioni «oneste e affettuose».
«Esistono tante diversissime gocce d’acqua quanti sono coloro che guardano una goccia d’acqua – continua lo scrittore –figuriamoci una città e un popolo come Napoli e i suoi abitanti». La città che emerge dalle pagine di San Gennaro non dice mai no è quindi un ulteriore tassello che va ad arricchire –insieme a La Capria, Rea e Ortese, tra gli altri – quel mosaico di letteratura che, cercando di dire Napoli, è consapevole di non poterla esaurire.
Marotta – firma del «Corriere della Sera», e già autore de L’oro di Napoli (1947), portato sul grande schermo da Vittorio De Sica – si aggira per i vicoli, tra le botteghe, arriva persino ad intrufolarsi negli appartamenti privati di Pallonetto, armato del piglio da giornalista d’inchiesta: quello che viene restituito, con lucidità e tenerezza, è un affresco corale, composto da innumerevoli storie e ritratti di mendicanti, delinquenti, pupari, mariuoli, vedove di poeti e musicisti. Con incredibile tocco impressionistico, lo scrittore racconta gli espedienti con i quali la gente del popolo prova ad arrangiarsi e a sopravvivere, a partire dai piccoli furti degli scugnizzi fino al mercato nero di Forcella, in cui si rivendono le merci acquistate dagli Alleati. Ma Napoli è anche la città di «una sfortunata, poco nota, lunga, mesta e rassegnata bravura», dove gli artigiani lavorano «col pollice e con l’anima», e i pescatori praticano la pesca con la dinamite, perché è una «pesca leale», che riduce ad un’unica battaglia l’eterna guerriglia tra uomini e pesci.

In ogni caso, se Napoli è inventata, «il dolore dei napoletani di tutti i ceti è purtroppo autentico». Come fosse per loro necessario mettersi a soffrire di fronte a uno specchio, i napoletani «si raccontano con qualche enfasi, con qualche compiacimento; ma trovano sollievo e consolazione in questo recitarsi». Ed è emblematico, in questo senso, il momento in cui sulle panche dell’“Opera dei pupi” vengono riconosciuti quegli stessi mendicanti che durante il giorno toccano il braccio dei passanti in cerca di un’offerta: in un gioco di rispecchiamenti, appunto, questi poveri cercano una liberazione e un riscatto dalle loro sofferenze nel lieto fine delle vicende messe in scena.
In questa grande “rappresentazione” napoletana, dove il termine conserva tutta la sua ambivalenza, un ruolo di primo piano viene giocato da alcuni «personaggi» illustri come il contraddittorio Giuseppe Navarra, «Re di Poggioreale» – benefattore malavitoso che nel ’61 ispira anche un film diretto da Duilio Coletti e sceneggiato da John Fante –, o Giuseppe Rossetti, narcisistico autore della fortunata canzonetta Catena.

Disseminata in tutti i “bozzetti” è poi la schiera di santi che abitano Napoli – dal «distratto» San Giuseppe a Sant’Antonio che protegge Posillipo, fino a San Pasquale che veglia su Chiaia –, di cui il «supremo e volubile» San Gennaro si fa capofila. Santi che non vengono lasciati tranquilli nelle loro edicole votive, o chiusi tra le quattro mura di una chiesa, ma che vengono interpellati anche solo per una raccomandazione o un consiglio, perché percepiti come consanguinei, come «autorevoli congiunti del popolo». Ma la verità – commenta Marotta – è che i napoletani svuoterebbero il portafoglio dei pochi soldi che ci sono dentro, e «si leverebbero il pane di bocca per accrescere il loro benessere». A partire dalla descrizione dei sontuosi festeggiamenti al rione Stella dedicati a San Vincenzo, fino alla divertita constatazione degli sguardi languidi scambiati tra i giovani durante le celebrazioni ecclesiastiche, lo scrittore delinea i tratti di questa fede e questo amore popolare. Un credo che antepone la stima per il Figlio a quella per il Padre e per lo Spirito Santo: «Napoli è devota a Gesù Bambino – spiega Marotta con grandissima ironia – non solo perché si tratta di Nostro Signore, ma perché Egli, venendo alla luce, fece fesso Erode».
Se un chirurgo intervistato afferma con sicurezza che «Dio è indiscutibilmente napoletano», Alessio Forgione, nella sua bellissima introduzione al volume, si spinge ancora oltre. «Napoli è Dio – scrive infatti –, e San Gennaro non dice mai no è la messa gospel, cantata in un italiano smangiucchiato e lirico che Giuseppe Marotta ha messo su per tutti quanti noi, con il suo gusto neo-classico».

C’è un’ulteriore, silenziosa presenza che agisce nella Napoli dipinta da Marotta: il mare, che viene definito come «il libro di tutte le favole». Il mare «esiguo e domestico di Santa Lucia, di Coroglio e di Posillipo», che consuma Castel dell’Ovo e il Palazzo Donn’Anna; quello che dalla gente di Capodimonte, dell’Arenella e della Sanità viene percepito soltanto per l’odore nel vento «che fa impennare la biancheria tesa ad asciugare fra muro e muro». Ma soprattutto il mare che non smette di tornare a interrompere i pensieri dello scrittore nei suoi anni milanesi, sotto forma di riflesso o di sensazione uditiva: in una parola, come nostalgia.
E proprio con l’immagine di una creatura marina si conclude il testo di Marotta. Se il suo viaggio ha inizio a marzo, «il mese che più fedelmente riproduce Napoli coi suoi guai e i suoi piaceri fulminei», l’ultimo “quadro” che l’autore ci offre è quello di una Napoli nella fervente attesa del Natale, dei suoi presepi, e del capitone che non può mancare in tavola la sera del 24 dicembre.
Il capitone, grossa anguilla che non si rassegna a morire, teatralmente brandito dai venditori tra i banchi in via Santa Brigida: è questa la metafora finale che Marotta utilizza per raccontare Napoli e i napoletani. Quella gente «non meno infelice e strenua di lui», che sbattuta e fatta a pezzi dalle disgrazie e dalla povertà, si dimena tuttavia in ogni suo pezzo, morendo «solo quanto basta per essere benedetta e seppellita, facendosi, così, meglio gustare nel ricordo».

La foto di copertina è di Elisa Chiari.