Tessuto Urbano: il desiderio di intrecciare legami

Per raccontare la storia del collettivo Tessuto Urbano, bisogna partire da Macomer, paese nell’entroterra della Sardegna, in provincia di Nuoro. È qui che l’APS ProPositivo porta avanti dal 2015 il Festival della Resilienza, principale incubatore del progetto “Trasformare la crisi in opportunità”, con l’obiettivo di creare un modello replicabile di sviluppo resiliente per le comunità locali, visibilmente colpite dal fenomeno dello spopolamento. Fondamentale, in questa ricerca, è il progetto “Esperienza di Resilienza artistica” (E.R.A): forma sperimentale di residenza, che ha come scopo principale quello di produrre delle iniziative sociali e culturali per il territorio ospitante. L’idea è creare un laboratorio partecipativo, che coinvolga appassionati di ogni disciplina artistica, che vogliono indagare il ruolo sociale dell’arte, intesa come processo sociale, educativo. In questi cinque anni sono state sperimentate residenze legate al campo scientifico, teatrale, cinematografico, fotografico, musicale, al mondo delle arti visiv e e della street art. 

La parola Resilienza si è intrecciata, nell’ultimo anno, ad un’altra: Resistenza. Il Festival infatti non ha rinunciato alla sua sesta edizione, proponendo forme nuove e innovative durante l’agosto del 2020. È proprio in questa cornice che le attrici e perfomer Azzurra Lochi, originaria di Macomer, e Gabriella Indolfi – già specializzate nella creazione di drammaturgie site-specific, immersive e multisensoriali – e la fotografa Ilaria Giorgi, anche fotografa ufficiale del Festival, si sono ritrovate dopo il lungo lockdown e hanno deciso di unire il proprio lavoro artistico dando vita al collettivo Tessuto Urbano, un progetto under 35 tutto al femminile, che si occupa di curare la relazione tra luoghi, parole e comunità, attraverso interventi artistici performativi e creazioni multidisciplinari sul campo.  

La loro residenza si è concentrata sul tema dello spopolamento, attraverso l’esplorazione del territorio ospitante e del suo patrimonio storico e tradizionale e l’interazione con la sua comunità. L’obiettivo del collettivo Tessuto Urbano era provare a raccontare il fenomeno dalla parte di chi resta, di chi vede allontanarsi i suoi concittadini, parenti, amici, con la speranza che facciano prima o poi ritorno. Qual è il filo rosso che tiene insieme le persone di questa comunità? E così, a partire da queste suggestioni, Azzurra, Gabriella e Ilaria hanno cominciato la loro avventura.

Prima tappa: esplorazione di Bosa, in provincia di Oristano, borgo sul mare  diviso in due dal fiume Temo, all’interno della regione storica della Planargia. Il viaggio è cominciato lì e in particolare a Sa Costa, uno dei quartieri storici, che si affaccia sul Temo. Qui hanno scoperto e approfondito la lunga tradizione che le donne del posto continuano pazientemente a tramandare: il filet. L’origine di questo ricamo è profondamente intrecciata al mondo maschile della pesca. È proprio dalle reti dei pescatori infatti che le donne hanno appreso quest’arte. Passeggiando per le stradine di Bosa, è ancora possibile trovare le signore fuori dalle porte di casa a ricamare. Ed è proprio con loro che Azzurra, Ilaria e Gabriella si sono fermate a parlare, scoprendo la tecnica del filet: un vero e proprio ricamo a rete.

Per realizzarlo infatti è necessario creare con i fili una rete, utilizzando un tipo di telaio rettangolare, che può avere varie dimensioni, con tre lati fissi e uno mobile. 

Solo a quel punto si può cominciare a fare il ricamo. Accanto alla tradizione del filet, prettamente femminile, vi è quella maschile della lavorazione delle nasse: reti simili a un cesto, intrecciate dai pescatori con l’utilizzo di un filo rosso. Uno di loro le ha accolte nel suo laboratorio proprio nel momento in cui stava insegnando la tecnica ad una ragazza. È affascinante vedere come ci sia ancora un interesse nell’apprendere una tecnica così antica e altrimenti destinata a scomparire. 

Ed è proprio da qui, dall’osservazione di ricami, intrecci e nasse che la metafora ha preso vita: rinforzare reti, costruire nuovi legami con il territorio.

Dopo questa prima esplorazione di Bosa, l’itinerario è proseguito verso l’entroterra, fino a raggiungere Macomer, nella regione storica del Marghine, in provicina di Nuoro. Qui la ricerca è proseguita in modo diverso, a partire dai luoghi abbandonati, vere e proprie tracce della storia del territorio. Macomer, anche grazie alla sua posizione strategica – trovandosi al centro della Sardegna – è stata per decenni cuore industriale dell’isola, tanto da essere definita “la piccola Milano”. Verso la fine degli gli anni ’80 una forte crisi ha colpito queste attività, costringendo molti caseifici e industrie tessili a chiudere. Tra queste vi era anche il Gruppo Lanario Sardo Alas.

Ecco una differenza tra Bosa e Macomer. La prima è ancora fortemente legata alla sua tradizione artigianale, mentre a Macomer compaiono, come ombre, gli scheletri di vecchi edifici che ricordano il suo passato industriale. Ne è un esempio l’edificio abbandonato del Caseificio Dalmasso, in cui le ragazze si sono addentrate.

Macomer resta comunque ancora molto legata alla storia del tessuto, che rimane parte dell’identità del territorio. Qui però è più difficile trovare donne che ricamano. Ma le ragazze del collettivo non si sono arrese: hanno cercato, incontrato e coinvolto cittadini, ex lavoratori dello stabilimento, artigiani locali e operatori culturali alla ricerca di materiali storici e biografici. Sono state anche accolte nel laboratorio di una sarta, che ha donato loro alcuni tessuti, che sono serviti poi nella realizzazione di un progetto che ha coinvolto la comunità.

Sono inoltre entrate in contatto con un falegname di Macomer, un ragazzo che ha il suo laboratorio all’interno degli stabilimenti delle industrie abbandonate, poiché alcuni di questi edifici sono stati riutilizzati. Ed è stato sempre questo artigiano a realizzare per loro un pannello in legno, che è stato inserito all’interno di un’installazione, creata per coinvolgere gli abitanti di Macomer nel senso più profondo del loro viaggio.

Al termine della residenza infatti, il collettivo ha creato un’installazione partecipativa site-specific che aveva precisamente il fine di unire la storia del territorio a quella della comunità, a cui veniva rivolta una domanda precisa: «Perché vivi ancora qui?». Sul pannello erano posizionati dei pioli e ad ognuno di questi corrispondeva una possibile risposta alla domanda: famiglia, lavoro, terra ma anche paura o “perché non ho scelta”. A quel punto, una volta individuata le parole più adatte a sé, ognuno doveva legare con il filo il punto a cui corrispondevano. I diversi colori dei fili sono stati divisi in base alla fascia di età dei partecipanti. Il risultato è stato sorprendente: ha dato vita ad una vera e propria mappatura statistica artigianale, una trama, come quella delle nasse e del filet di Bosa. In questo intreccio di fili c’è la storia di una comunità.

Ilaria, la fotografa del gruppo, durante il viaggio nei luoghi abbandonati, ha fotografato diversi muri di Macomer. Di questi ne sono stati selezionati nove, di cui sono state stampate le fotografie. Agli abitanti è stato chiesto di scegliere un muro da “adottare”, sul quale è stata cucita la loro foto, rafforzando così ancora di più l’idea della loro appartenenza a quei luoghi.

L’esperienza itinerante si è dimostrata talmente positiva da spingere Azzurra, Gabriella e Ilaria a proseguirla. Fare rete, costruire legami, intrecciare luoghi e persone ed intessere nuove storie sono diventati gli obiettivi centrali del collettivo Tessuto Urbano, mosso dal desiderio di sostenere – attraverso interventi artistici sul campo – i comuni italiani più piccoli, meno turistici, a volte del tutto sconosciuti, per contribuire a contrastare il fenomeno dello spopolamento e dare vita a nuove possibilità di narrazione delle comunità locali.

Nei mesi successivi però, l’emergenza sanitaria è tornata a imporre nuove restrizioni e nuove chiusure dei luoghi della cultura e degli spazi di aggregazione sociale, rendendo sempre più difficile la possibilità di incontrarsi, progettare e costruire legami in presenza. Le ragazze, provenienti da tre regioni diverse (Sardegna, Puglia e Toscana) hanno continuato a lavorare a distanza, dando vita nel periodo natalizio al loro primo progetto online come collettivo: Ragioni di Necessità, una chiamata pubblica per uno scambio epistolare in tutta l’Italia, che ha avuto come destinazione la storica libreria Emmepi Ubik di Macomer, unica libreria della città.

Al termine dell’iniziativa sono arrivate – in forma digitale e cartacea – più di quaranta lettere, piene di speranza, ottimismo, nostalgia, ma anche paura, rabbia, solitudine; storie autentiche, bellissime e commoventi, scritte da partecipanti di età e provenienze molto diverse, che hanno permesso loro di intrecciare legami anche a distanza nel delicato passaggio da un 2020 impossibile da dimenticare ad un 2021 già sovraccarico di responsabilità. 

Le lettere raccolte, nel rispetto della privacy dei partecipanti, in questi mesi stanno diventando parte drammaturgica e scenografica della prossima produzione artistica e multidisciplinare del collettivo, che debutterà nei territori del Marghine, nell’estate 2021, proprio dove la storia di Tessuto Urbano ha avuto inizio.

Tutte le foto presenti nell’articolo sono di Ilaria Giorgi

Pubblicato da Carolina Germini

Nata Roma il 24/09/1993. Si laurea in Filosofia alla Sapienza con una tesi su Gilles Deleuze lettore di Proust. Durante l'Università fa due esperienze Erasmus presso École normale supérieure di Parigi, dove si trasferisce dopo la laurea e dove insegna Filosofia ai bambini. Collabora e scrive regolarmente per diverse testate e riviste e ha da poco fondato Tre Sequenze.

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