“Bardo” di Iñárritu e quella sfida allo spettatore

Sul treno di ritorno da Venezia incontro il relatore della mia tesi. Non lo vedevo dal giorno della mia laurea. Anzi, in effetti ricordo di averlo visto un’altra volta a una presentazione, ma quell’episodio all’improvviso mi pare insignificante. Forse, perché mi piace di più pensare che quello che ci precede sia stato a tutti gli effetti un evento e non un giorno qualsiasi. Provo a raccontargli i film che ho visto a Venezia. E allora, ancora prima che abbia il tempo di capirlo, mi ritrovo già a fare una vera e propria cronaca della Mostra del Cinema. Le parole però arrivano tardi rispetto ai pensieri che vorrei esprimere. Dopo cinque giorni di quella che è stata letteralmente una grande abbuffata, le immagini e le trame si confondono, si aggrovigliano e torno a casa con l’impressione di aver visto un solo grande film. 

Non riesco a prendere sonno. Dopo l’intensità dell’esperienza della Mostra, dormire non è facile. Mi torna in mente l’incontro avvenuto in treno, le parole che si oppongono al mio tentativo di afferrarle. E penso che quella che ho vissuto sul treno sia a tutti gli effetti una scena alla Bardo, il film in concorso quest’anno del regista messicano Iñárritu. Come Silverio, il protagonista, non sono più tanto sicura che l’esperienza vissuta sia reale così come non sono più così certa di aver visto il film in questione. L’impressione adesso è più quella di averlo immaginato. E poi, così come Silverio viene letteralmente strozzato mentre tenta di parlare, anch’io non trovo le parole per esprimere ciò che ho visto.

Tra i vari modi con cui Iñárritu sceglie di rappresentare l’incubo di una comunicazione impossibile, ve ne è uno che risulta particolarmente angosciante. Più volte sentiamo la voce di Silverio ma non ne vediamo il labiale, come se potessimo ascoltare solo il suo pensiero. Lo spettatore non è il solo ad accorgersene. Anche le persone con cui Silverio comunica lo notano, tanto che ne sono irritate e lo rimproverano spesso, pregandolo di smettere. Ma il suo non è un dispetto. Non è un’azione volontaria. Quante volte è capitato di sognare proprio questo? Desiderare esprimersi ed essere improvvisamente colti da una violenta afasia.

Il sogno trasforma la realtà, la deforma, restituendoci immagini mostruose. Bardo ci mette di fronte a scene terrificanti, giocando sulle nostre paure più nascoste, tra tutte – la più grande – quella della morte. Se di giorno abbiamo inventato delle strategie per aggirarla, di notte non possiamo più sfuggirle. È quello che Iñárritu sembra volerci comunicare. Il cinema poi, tra tutte le strategie, è in assoluto la più sofisticata, in quanto ci illude che la morte possa essere ingannata attraverso un susseguirsi di scene che potremmo continuare a rivedere all’infinito.

L’immagine del sogno e dell’incubo torna ogni volta che provo a ricostruire questo film, come fosse l’unica chiave di interpretazione possibile. Bisogna abbandonare il piano della realtà, o meglio andare oltre, e servirsi di altri strumenti – esattamente come facciamo al risveglio –  quando tentiamo di ricostruire, a partire da immagini frammentate, il senso di ciò che abbiamo sognato. Si tratta a tutti gli effetti di una perfetta rappresentazione cinematografica del lavoro onirico descritto da Freud. Il contenuto manifesto ovvero l’immagine che ricordiamo al risveglio, nasconde un contenuto latente ovvero il significato del sogno stesso. L’interpretazione comincia nel momento in cui proviamo a decodificare quell’immagine, la stessa operazione a cui è chiamato lo spettatore di Bardo, cronaca di una falsa verità. Il titolo stesso, in fondo, non smaschera proprio questa intenzione?

Nulla ci è risparmiato in questo film. È per questo che quando si esce dalla sala si vive un senso di spaesamento, soprattutto se fuori è pieno giorno e siamo stati immersi nell’oscurità per tre ore. 

Iñárritu costruisce un mondo in cui ognuno può ritrovare il suo. A me è parso di trovarci dentro i racconti di Cortàzar, il teatro di Papaioannou, Blow up di Antonioni.

È come entrare in un vortice, come sfogliare Il libro dei sogni di Fellini.

E quando crediamo di avere finamente tutti gli strumenti per comprendere il film, quando Iñárritu sembra offrirci la chiave che aprirà tutte le porte successive e siamo convinti che quello a cui stiamo assistendo è in realtà un sogno, lui cambia le regole del gioco.

Pubblicato da Carolina Germini

Nata Roma il 24/09/1993. Si laurea in Filosofia alla Sapienza con una tesi su Gilles Deleuze lettore di Proust. Durante l'Università fa due esperienze Erasmus presso École normale supérieure di Parigi, dove si trasferisce dopo la laurea e dove insegna Filosofia ai bambini. Collabora e scrive regolarmente per diverse testate e riviste e ha da poco fondato Tre Sequenze.

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