Ho conosciuto Lina Wertmüller nel 2015 alla Mostra del cinema di Venezia. Ricordo con esattezza la sera del mio arrivo all’Hotel Excelsior: i tavolini con vista spiaggia e il vento. Era un luogo che mi aveva fatto subito pensare al Grand Hotel dei Vitelloni, dominato da camerieri che si muovono svelti tra tovaglie bianche e personaggi felliniani. C’era, fra questi, una giovane attrice in compagnia di alcuni accademici, impegnati a pavoneggiarsi in un lungo mansplaining, che al tempo doveva sembrarmi più noioso che inopportuno. Decisi di intervenire, ironizzando sulle loro teorie estetiche con una citazione di Walter Benjamin, e loro se ne andarono. La ragazza era entusiasta, e qualcuno alle mie spalle disse: «Hai messo in fuga i filosofi». Era Lina Wertmüller.
Sono certa di non aver detto niente, probabilmente ho solo sorriso. Sono assolutamente certa di non aver mai proferito parola di fronte a Lina. Mi intimidiva la sua filmografia, e anche un suo eventuale giudizio. Le storie che avevo sentito raccontare sulla sua schiettezza precedevano quelle sul talento. E comunque non avrei tardato ad accorgermene da sola. Durante uno degli eventi organizzati attorno alla sua figura, una giornalista chiese: «Come si diventa Lina Wertmüller?». Con un sorriso amaro, lei rispose: «Rubando negli armadietti!». «Ma che risposta è?». Aveva continuato la giornalista. Lina disse: «Una risposta cretina a una domanda cretina». Così tutti la seguivano intimoriti, e prima di accompagnarla in una qualunque delle sue attività, si guardavano preoccupati, sussurrando: «Ma che dirà Lina?».
Ho trascorso molte giornate in sua compagnia quella settimana. Anna Ferraioli Ravel, che ha prodotto il mio documentario, Avanti, era stata una sua allieva al Centro Sperimentale, e poi avevano continuato a frequentarsi, in un rapporto quasi filiale. Lina non parlava mai di cinema in quei giorni. Era sempre felice, a parte quando qualcuno voleva intervistarla. Allora assumeva un’aria rassegnata e si preparava ad ascoltare domande che non le sarebbero piaciute, armandosi di una pazienza che a lei doveva sembrare infinita. Come un adulto di fronte a bambini sprovvisti degli strumenti necessari a comprendere la conversazione, lei si rifugiava nel suo sarcasmo. D’altra parte, se hai passato la vita a discutere con Federico Fellini, Giuseppe Rotunno, Piero Tosi o Mariangela Melato, poi ti è difficile abituarti a chiunque altro. Lina faceva parte di un cinema che, era sicura, noi non potevamo capire.
Una volta, mentre facevamo colazione in terrazza, Anna le raccontò di Avanti, definendolo con ironia “un estivo documentario sulla sinistra europea”. Ma Lina cambiò prontamente argomento e disse qualcosa sul ruolo delle galline nell’apocalisse. Il nostro documentario doveva sembrarle una cosa molto seria, e dunque frivola.
Ho sempre amato i film di Lina. Nel 2019 Film International mi ha chiesto di scrivere l’articolo di apertura del loro numero primaverile. Il titolo del mio pezzo, Travolti dall’ineguaglianza sociale, era un tributo al suo Oscar alla carriera. Questa primavera sono stata invitata a partecipare alla 52esima edizione della Northeastern Modern Language Association (NeMLA) Convention. Ho scritto un saggio sul valore politico del cinema di Pasolini, Bertolucci e Wertmüller.

Ho parlato di come Lina mostrasse in modo radicale non solo la lotta fra i sessi, ma anche il ruolo della donna all’interno della società patriarcale. Nelle sue storie, le donne esercitano sempre un determinato tipo di potere. Sono avide, narcise, grottesche. Non sono vittime di nessuno, se non di una società che le obbliga ad essere indecenti per sopravvivere o per difendere la propria posizione sociale. Per citare Adorno: «Non c’è una vita giusta nella vita sbagliata». Il suo interesse per il grottesco, aveva detto lei, più che un’estetica, era una vera e propria definizione della sua personalità.
I film di Lina si basano sul conflitto, e lo celebrano. Non solo il conflitto sociale, ma anche quello che si trova dentro di noi, il conflitto fra i nostri desideri e le nostre azioni, e naturalmente quello fra le nostre pulsioni sessuali e la nostra reputazione. Sono film in cui non esistono buoni e cattivi ma semplicemente personaggi che si muovono e parlano in accordo alla loro educazione o ai loro capricci, e che diventano vittime e carnefici in base alla situazione che devono fronteggiare. Così non ci sono eroi o eroine, né tantomeno lieti fine, e la povertà, come la ricchezza, è solo qualcosa di contingente che non viene romanticizzato mai. Tutti i suoi personaggi sono disperati o, per dirla come Gennarino, sempre incazzati, e la polemica sociale è sulle labbra dei privilegiati per essere respinta ed etichettata come noiosa e retrograda. Ma su tutto c’è uno sguardo divertito e canzonatorio, come a suggerire che la vita è un viaggio incidentale, dove politica, affetti e desideri non valgono più di tutto il resto, e quindi non possono essere presi troppo sul serio.
L’ultima volta che ho visto Lina era a Los Angeles, nell’ottobre del 2019. L’American Cinematheque aveva organizzato una retrospettiva in suo onore, ed eravamo alla proiezione di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. Fuori dal cinema, quasi due ore prima dell’inizio del film, ho incontrato una coppia di americani che ha voluto mostrarmi un articolo del 1976 sui suoi film. L’avevano portato per lei, con una nota su un post-it a forma di cuore: “Cara Lina, siamo tuoi grandi ammiratori da tanto tempo, e guarda cosa abbiamo conservato per tutti questi anni! Linda e Bob”.

Durante la proiezione del film, nella lunga sequenza in cui Gennarino (Giancarlo Giannini) insiste a gridare a Raffaella (Mariangela Melato) «Meretrice, sgualdrina, prostituta e socialdemocratica!», alcune signore ingioiellate si sono scambiate sguardi interrogativi. Un paio di loro ha lasciato la sala, nel momento in cui Gennarino prende Raffella per i capelli e le strappa la biancheria intima.
Ma Lina era felicissima per questi suoi tanto diversi spettatori, per gli ammiratori che conservavano l’articolo intatto per più di quarant’anni, e per le signore che lasciavano la sala indignate.
Era anche la prima volta che l’ho vista entusiasta per qualcosa: un Oscar. Una cosa molto frivola, e dunque importante.
Probabilmente ti è più famigliare uno dei miei soliti pseudonimi (Theo qualcosa). Comunque, immagino che Tizia abbia già archiviato da tempo il tuo saggio sulla violenza in PPP, BB e LW. Anche a me farebbe piacere leggerlo in qualche modo. Come lo rintraccio ?
"Mi piace""Mi piace"