Dal 4 al 9 dicembre presso lo spazio SCENA a Trastevere si è tenuta la quinta edizione del festival – simposio, organizzato dall’Associazione Culturale Fuorinorma. A dirigerla è il critico cinematografico Adriano Aprà.
Cominciamo a parlare sulla soglia. La nostra conversazione dura il tempo di una sigaretta, quella che sta fumando mentre risponde alla mia domanda: «Cosa rappresenta ora questo spazio in cui ci troviamo e cos’era prima?».
«Oggi Scena è una boutique del cinema – mi spiega – . Negli anni Settanta a Roma la cultura si faceva nelle cantine; questo valeva per la musica, per il cinema e anche per il teatro. È stato un periodo di straordinaria creatività. Ed è proprio in quel periodo che nacque qui a Trastevere, nel 1967, il Filmstudio, fondato da Annabbella Miscuglio e Americo Sbardella.

Prima era un garage. Loro pagavano una mensilità al proprietario delle mura. Poi dopo tanti anni hanno chiamato me ed Enzo Ungari a dirigerlo. Non c’erano finanziamenti pubblici né li avremmo accettati, qualora ci fossero stati, per motivi politici. L’ho diretto dal ’71 al ’78. Enzo invece è andato via prima. Credo che in quegli anni abbiamo sprovincializzato la cultura cinematografica a Roma. In Italia c’erano già delle iniziative analoghe però penso sia stato il modello con cui si è passati dal Cineclub tradizionale, che proiettava un film alla settimana a una realtà che proiettava più di un film tutti i giorni. Abbiamo spaziato su tutta la storia del cinema, dalla più antica a quella recentissina.
Dicevo che dovevamo proiettare solo buoni film per non sporcare lo schermo».

Ed è sempre seguendo questa filosofia del non sporcare lo schermo che nasce l’esperienza di Fuorinorma e l’idea del Festival, giunto alla sua V edizione. Il desiderio è quello di dare visibilità al cinema indipendente e allo stesso tempo creare un’occasione viva di confronto tra autori, critici e spettatori sullo stato attuale del cinema italiano. Secondo Aprà, «Il festival è soltanto un punto di partenza, lo scopo vero è quello di trasformare una tendenza in movimento». Fuorinorma nasce infatti dalla consapevolezza che negli ultimi anni si è manifestata in Italia una tendenza che Aprà definisce «neosperimentale» e che si esprime sia nel cinema di finzione sia in quello documentario, sperimentale e di animazione: «La tendenza verso un rinnovamento delle forme espressive che finalmente allinea il cinema italiano con le ricerche più avanzate in campo mondiale. Nello stesso tempo sono nate a Roma e in tutta Italia sale alternative interessate a proiettare opere molto spesso emarginate dal sistema industriale». Tra i registi che hanno partecipato all’edizione di quest’anno: Francesca Fini, Mario Brenta e Karine de Villers, Tommao Cotronei, Isabella Sandri e molti altri.
Il racconto di Adriano Aprà sull’esperienza del Filmstudio mi rimanda ad un’altra esperienza, di cui mi ha parlato mio padre. A due passi da qui, nello stesso periodo, lui frequentava un’altra cantina: il FolkStudio. Da Via degli Orti d’Alibert 1 ci spostiamo a Via Garibaldi 58. Qui, sempre nel 1967, lo stesso anno in cui fu fondato il Filmstudio, il pittore e musicista afroamericano Harold Bradley, passò la direzione del suo locale di musica a Giancarlo Cesaroni. Passaggio testimoniato dal simbolo del locale: una mano bianco che stringe una nera.

Il Folkstudio aveva un’impronta prevalentemente jazz ma ospitava anche musica d’autore. Qui si esibirono artisti ai loro esordi come Antonello Venditti, Francesco De Gregori, la cui collaborazione iniziò proprio in questo locale. Tra le varie voci del Folkstudio c’era anche quella di Rino Gaetano. Nacquero proprio così e in questo spazio i cantautori.

Tra i vari film e documentari proiettati durante il festival di Fuorinorma ve ne è uno in particolare che rimanda ancora una volta a questo periodo: Per Lucio di Pietro Marcello, omaggio del regista a Lucio Dalla, la cui esperienza iniziale però non è legata alle cantine romane ma a quelle bolognesi. Ed è proprio la città di Bologna con i suoi portici la protagonista indiscussa di questo docu-film.
Per Lucio si apre con Tobia Righi, amico da sempre di Dalla e per un lungo periodo suo impresario, che lo va a trovare al cimitero portandogli dei fiori. Tobia è la voce principale di questo racconto: «Io lo vedevo già un mito quando non era nessuno».
Il docu-film racconta un Lucio Dalla inedito, scegliendo di soffermarsi soprattutto sul periodo della sua collaborazione con il poeta bolognese Roberto Roversi, con cui realizzò dal 1973 al 1976 ben tre album che però non vendettero quasi nulla, anche se ebbero grande riconoscimento dalla critica.
Il giorno aveva cinque teste (1973)

Anidride solforosa (1975)

Automobili (1976)

In questi dischi c’è un Lucio diverso da quello che tutti conoscono, un Lucio che ancora non aveva esordito come cantautore. Contrariamente ai due album precedenti, in quest’ultimo, Automboli, è già contenuta una delle canzoni più amate di Dalla: Nuvolari.
Fu solo attraverso la spinta di Ennio Melis, direttore generale della sua casa discografica RCA, che Dalla iniziò a scrivere anche i testi delle sue canzoni, esordendo con il suo primo album da cantautore intitolato Com’è profondo il mare (1977). Ma anche questo faticò ad arrivare al grande pubblico fino a quando le radio autonomamente iniziarono a trasmettere il brano Disperato erotico stomp.
Uno dei grandi assenti di questo docu-film è certamente Michele Mondella, anche lui scomparso recentemente. Figura che ha condiviso tutte le attività artistiche di Lucio e che aveva con lui una frequentazione che andava al di là del lavoro.
La parte in assoluto più bella e più interessante del documentario è quella in cui Tobia è a pranzo con il filosofo Stefano Bonaga in una storica trattoria bolognese: Da Vito, dove Lucio andava sempre a mangiare. Bonaga e Lucio erano amici fin da bambini.
I due conversano, confrontandosi sull’immensa fortuna che è stata avere accanto, nel tempo, una figura ormai mitica come quella di Dalla.

«Sempre sorprendente. Deludeva sempre le tue aspettative. Tu ti aspettavi qualcosa e lui ne faceva un’altra. Un movimento continuo». È così che Bonaga ricorda la natura di Dalla, sempre bizzarra, eccentrica, che mi riporta ad un altro racconto di mio padre. Uno dei posti più sicuri per trovare Lucio Dalla in RCA era l’ascensore degli studi di registrazione, che lui usava per dormire. E non si scomponeva minimamente quando qualcuno entrava per salire o scendere. Ecco, questo era Lucio.