Cosa resta di un luogo quando non c’è più? È a questa domanda e a molte altre che il documentario opera prima di Alessandro Preziosi sui terremoti d’Italia tenta di dare risposta. La legge del terremoto, scritto dal regista insieme a Carmelo Pinnisi e a Tommaso Mattei, che ne è anche produttore, è stato finalmente presentato dagli autori lo scorso martedì al Farnese, storico cinema romano che lo proporrà in programmazione dal 22 al 24 novembre.
Edifici che si sbriciolano come castelli di sabbia, campanili che sprofondano impotenti, scuole che diventano cimiteri, luoghi amati che si trasformano in assassini impietosi, enormi distese di “nidi di vespe sfondati”, per dirlo con Alberto Moravia. Sono queste le immagini che invadono lo schermo per ottanta minuti e che, crollo dopo crollo, dilatano il tempo fino a renderlo eterno. Sono immagini che ogni italiano conosce a memoria eppure continua a fissare con occhi increduli e disarmati perché il terremoto porta con sé la contraddizione intrinseca di essere sempre in fondo atteso, in agguato, e allo stesso tempo completamente inaspettato, pensato ma non detto, forse così, illusoriamente, esorcizzato.
Sappiamo bene che esiste e che si manifesta a intervalli di tempo incredibilmente ravvicinati: Belice 1968, Friuli 1976, Irpinia 1980, Assisi 1997, Aquila 2009, Emilia 2012, Amatrice 2016. Un italiano di appena cinquant’anni potrebbe averli vissuti tutti. Altri invece sono rimasti bambini per sempre, vittime di quelle scosse divoratrici e ora radici sprofondate nella terra che ogni giorno continuiamo a calpestare, con passo spesso troppo leggero. Attraverso una narrazione profondamente intima e allo stesso tempo incredibilmente universale, Preziosi ci restituisce la memoria collettiva di mezzo secolo con la spontaneità del bambino di sette anni che era quando il terremoto dell’Irpinia ha sconvolto la sua infanzia.

Era una domenica come tutte le altre, fatta di infinite pallonate contro i muri nell’attesa del cosiddetto “Derby d’Italia” tra Juventus e Inter, purtroppo destinato a lasciare il posto a un altro, drammatico, evento collettivo: dalle 19.34 di quella domenica 23 novembre 1980 in quei luoghi niente è più stato lo stesso. Quasi tremila morti, quasi diecimila feriti, quasi trecentomila sfollati. Il terremoto distrugge una comunità una prima volta perché la priva dei luoghi nei quali si è sempre identificata e che da secoli scandiscono le sue abitudini, impedendole di abitarli ancora e quindi di essere. E la sgretola poi una seconda volta perché spesso la obbliga ad andarsene, ad emigrare, a soffrire il doppio nel lasciare una terra, la propria, devastata.
Quella di Preziosi non è un’inchiesta né un’indagine ma piuttosto l’attraversamento in punta di piedi, commosso, di uno spazio-tempo perduto alla ricerca di un significato che a un primo sguardo sembra inevitabilmente sfuggire, perché nel cuore di chi sopravvive la domanda “per cosa” può diventare assordante.
È solo attraverso la lenta ricerca, la visita ai luoghi distrutti (toccante quella al cretto di Gibellina, di Alberto Burri), le domande poste a testimoni d’eccezione (da Erri De Luca a Francesco Merlo, da Giulio Sapelli a Vittorio Sgarbi, da Angelo Borrelli a Grazia Francescato) e soprattutto attraverso l’incontro con una compagna di viaggio che lo condurrà per mano verso la ricostruzione e la rinascita, che l’autore scoprirà la luce oscura della terra che trema. Perché un cambiamento è pur sempre un’opportunità: quella dell’aiuto e della solidarietà, che in fondo è tutto ciò che più di ogni altra cosa ci rende una comunità di esseri umani. Con l’autore giapponese Haruki Murakami, figlio di un altro luogo dove la terra spesso trema, non possiamo che sostenere che il cuore è l’unica cosa che non può andare in frantumi e che questa cosa informe che ci portiamo dentro e che ci rende umani possiamo trasmetterla gli uni agli altri, senza limiti, ancora e ancora.