Addio a Burt Bacharach. This is house is empty now

Burt Bacharach a maggio avrebbe compiuto i suoi primi 95 anni. Ci ha lasciati pochi giorni fa tagliandoci il fiato, lui che era di Kansas City (diversamente dal trasteverino Nando Meniconi, l’Americano a Roma di Alberto Sordi che era solito nuotare na’a marana) ed era nato da genitori ebrei tedeschi, Irma e Bert Bacharach. Ha avuto quattro mogli e quattro figli. Dunque i 4/4 della scansione pop li ha rispettati anche nella vita personale. O meglio li ha tenuti in conto molto più nella sua avventura coniugale che nella composizione dei suoi pezzi immortali dove in realtà ha sfidato il tempo cioè la scansione ritmica della canzonetta pop con timida spavalderia. Tutta la sua musica, fin dal primo successo, Magic Moments (parole di Hal David con cui ha collaborato a lungo) cantata da Perry Como negli anni Cinquanta, ha sfidato gli equilibri pacificatori della canzone fatta per siglare le nostre vite comuni senza rinunciare a cullarci: un acrobata della musica, un funambolo che ha sempre professato la variatio come innovazione nella tradizione. Burt Bacharach è morto a Los Angeles, tempio dello show-biz con la sua famosa collina immortalata nella caption Hollywood.

Ormai 13 anni fa, in un romanzo fratturato, per sviscerato amore, gli ho dedicato due note narrative, in cui l’idea era proprio di celebrare la capacità di Burt Bacharach di costruire una musica articolata, variata, strutturata e apparentemente loose (secondo una moda del momento, si potrebbe tagliare corto definendola complessa, poi analizzare come resterebbe affar vostro, cari voi che leggete) in un album, Painted from Memory (1998), che è la consacrazione di una collaborazione: con Elvis Costello, ex pub rocker nella sua Londra degli anni Settanta, poi punk rocker e artefice della musica new wave coi sodali The Attractions per tutti gli anni Ottanta – apparentemente l’artista più lontano che si potesse immaginare dalla presunta colonna sonora borghese orchestrata da Bacharach.

Naturalmente tutto accade all’interno di una narrazione, cioè una realtà inventata che accade in una dimensione parallela e intrecciata alla realtà reale (paradossi letterari), in cui la musica di Bacharach, amata dai genitori del protagonista Mauro, nell’album in questione incontra i rush sincopati del pop oltranzista di Costello: qui si tocca un punto altissimo di incrocio tra generazioni musicali distanti anni luce eppure pronte ad abbracciarsi, a cantare e suonare all’unisono, ad occhi chiusi, con aria estatica, e reciproco affidamento. 

(9) …tutto le ricorda una canzone – All’inizio dell’avventura i due non si sono mai incontrati fisicamente. Ciascuno è rimasto a casa propria: l’uno a Dublino, l’altro in California. Ciascuno nel proprio studio a lottare con musica e testi, a superarsi nella propria metà di contributo alla composizione. Si scambiarono lettere, fax, si spedirono materiali via corriere ma restarono ciascuno al proprio posto. Era il ’95, e sopra le loro teste Alison Anders, regista di Grace of My Heart, rielaborazione per il cinema della biografia di Carole King (l’autrice di tante ballate tra cui You’ve Got a Friend), e Larry Klein direttore della colonna sonora del film, avevano manovrato per unirli in una coppia inedita e quasi paradossale, contraddittoria che più non si sarebbe potuto: da una parte l’ex giovanotto Elvis Costello, dall’altra Burt Bacharach, storico compositore di canzoni immortali. 

L’uno emblema della scena punk rock degli anni Ottanta, demolitore sistematico della canzone tenera, l’altro portabandiera, quasi inventore, proprio di quella canzone, di quello stile, ma certo a suo modo avvezzo a posizionare al cuore delle sue piccole meraviglie delle bombe ritmiche che, tanto per dire, consistevano in iperbolici cambi di marcia sfiancanti per qualunque interprete. 

Anche per questo l’impassibilità sorridente dell’interprete di Bacharach per antonomasia, Dionne Warwick, è sempre risultata tanto perfetta quanto impassibile, tanto più che i testi si spalancavano su spaccati personali drammatici, a volte tragici altre smagati o disincantati, persino ironici, e tutto era reso dalla bravissima Warwick sempre col solito garbo, senza scomporsi, alla faccia delle piccole devastazioni in atto – era l’aplomb di superficie tipico degli anni Cinquanta/Sessanta, epoca d’oro di Bacharach, un’epoca in cui una perfetta levigatezza apparente serviva a coprire vortici di frittura interiore (come svela David Lynch in Blue Velvet). 

La ragione per cui i due furono assortiti in questo duo giustamente (cioè justement: nel senso, per l’appunto) impensabile era semplice: nel film sulla King si rievocava anche il Brill Building, palazzo nuiorchese che fu sede di case discografiche negli anni Cinquanta e Sessanta, quando Carole King, agl’inizi della sua carriera di cantautrice, e Bacharach, in piena affermazione artistica, ruotarono su quel mitico crocevia di artisti disparati. 

In fondo Bacharach rappresentava il main stream nella musica d’intrattenimento, mentre la King era la voce dissonante ma non poi così marginale della canzone d’autore, legata al pacifismo alle lotte di liberazione e per i diritti umani delle minoranze, era la figlia dei fiori che della canzone faceva un’arma, un vessillo, l’espressione poetica vicina per commitment, cioè per impegno civile, a una qualche dignità letteraria. 

Il primo risultato dell’inedita collaborazione fu God Give Me Strength – pezzo piuttosto caldo, struggente. A quel punto, i due artisti partirono letteralmente per un’avventura comune molto fruttuosa. 

Il punto è che la voce di Elvis Costello ha una qualità così graffiante e grassa, ha un tale spessore, maschio, che per Burt Bacharach risultò subito essere la sintesi perfetta della sua idea di pop sentimentale ma non scontato che aveva sempre pensato di comunicare e che dopotutto, prima dell’avvento di Costello, era stato ben rappresentato, oltre che da Dionne Warwick, da qualche sparuto interprete maschile: certe volte le canzoni di Bacharach sono diecimila volte meglio nella versione strumentale, che esalta la robustezza melodica e della orchestrazione, oppure nell’esecuzione dello stesso autore che, senza essere un cantante perfetto, svela la ruvidezza di fondo di quei pezzi, azzerata dai grandi interpreti tecnicamente ineccepibili, potentissimi nell’arco vocale ma freddi come iceberg. 

Così è nato un intero album (registrato stavolta insieme in studio) dal duo inimmaginabile Costello/ Bacharach: Painted From Memory, 1998 – Mercury Records, e tra i pezzi, alcuni bellissimi (tipo: Toledo), spicca per accoramento di invocazione This House Is Empty Now, tutta raccolta attorno a un privatissimo dramma coniugale poggiato su una musica sontuosa dalla tessitura impervia che dà al pezzo un colore acceso di dolore, oltre a scaldare, per così dire, la canzone. 

This House Is Empty Now decolla esattamente nel punto in cui la voce di Costello s’impenna, anzi deflagra in un grido: Do you recognize the face / Fixed in that fine silver frame? / Were you really so unhappy then? / You never said / So this house is empty now / There’s nothing I can do / To make you want to stay / So tell me how / Am I supposed to live without you?

E proprio quella casa che è vuota, ora, ha subito riacceso nella memoria il ricordo di un particolarissimo film visto in TV, The Swimmer / Un uomo a nudo (di Frank Perry, con rimaneggiamenti alla regia di Sidney Pollack, USA 1968), e l’immagine di un tale col sorriso un po’ ebete stampato in faccia, una faccia con i tratti del grande Burt Lancaster (secondo me reso immortale da uno dei suoi ultimi ruoli, il borghese maturo stanco disarmato, gattopardo attuale, in Gruppo di Famiglia in un Interno, di Luchino Visconti – film elegante, lussureggiante, sontuoso, eppure con un colore così scuro da risultare caravaggesco, tono plumbeo delle tragedie nere che non riescono a esplodere, che finiscono per ripiegarsi su sé stesse, come certi ceri che giusto in fondo si accartocciano svelando un nucleo nero di male). 

Lancaster, svestito da Ned Merrill, in mutande da bagno, ogni tanto col conforto di un asciugamano, salta da un giardino all’altro, di piscina in piscina, e quando verso sera, dopo vari incontri insulsi in cui ha pure fatto il galante, incontri senza frutto, distrazioni, avendo fatto il giro dell’intera contea torna verso casa, scopre con stupefazione che tutto è in stato di abbandono, che non c’è più traccia alcuna della sua gente, della sua famiglia, scopre che mentre perdeva il suo tempo il suo mondo spariva, la sua vita finiva, tutto era finito, sfumato – senza appello. 

Com’è noto il film è la trasposizione di un racconto lungo o romanzo breve di John Cheever dalle linee pulite, tutto intento a delineare il suo archetipo senza sbavature – un capolavoro perfetto, asciutto (!), elegante, come un pezzo di Burt Bacharach: il capolavoro di un maestro, anzi appunto due. 

(10) Burt Bacharach – Di questo lavoro con Burt Bacharach (l’album Painted from Memory, ndr), Elvis Costello, capace come tutti i grandi veri di riconoscere i maestri o fratelli maggiori, e di rimettersi al loro magistero, ha dichiarato: – Ho contribuito anch’io alla scrittura della musica, ma quando il pezzo decolla veramente, soprattutto nel motivo principale, lui ingrana una marcia che non conosco; il risultato è quel senso di oscurità che è nella sua musica e che io riconosco nelle mie corde: c’è quel senso di dubbio anche nelle sue canzoni più solari, che rende la sua musica senza tempo. In effetti quel che sorprende nel pop alto di Bacharach è l’intreccio sapiente tra un’esecuzione sinfonica, che impegna, per una canzonetta dopotutto, anche quando di alto profilo, certe volte fino a 70 musicisti, e una varietà di tempi che vanno oltre i comuni 4/4 del pop (Bacharach con disinvoltura si avventura nei 12/8, i 6/8, e impone dei cambi di tempo a intervalli veramente risicati, anche ogni due battute: accade per esempio in un suo vecchio classico, il tema Promises Promises). 

Per Mauro, iniziato, classicamente, alla musica, da bambino, su un pianoforte, e poi liberatosi imbracciando una chitarra (negli stessi anni in cui molti imbracciarono armi da fuoco di vario calibro o siringhe ipodermiche con aghi di vario gauge o lume), al grido di battaglia (o slogan, in anglosassone – pronunciato certe volte tutto solo, come un pazzo, verso la valle cui guardava il terrazzo del salone di casa sua in parte adibito, per tre lunghe e alte pareti, a biblioteca), La chitarra la nostra unica arma!, per lui Bacharach costituì a suo modo una sorta di faro. A Mauro piacevano il rock e il pop alto, ovviamente i Pink Floyd o Carlos Santana, i Deep Purple, Neil Young (It’s Gonna Take a Lotta Love…, Laura preferiva di gran lunga la versione di Nicolette Larson), Cat Stevens (rifaceva uguale la mirabile Father And Son, ma gli piaceva molto Banapple Gas), Bob Dylan (che già era tutta un’altra storia), eccetera. Però mentre tutti i suoi coetanei andavano in visibilio per gli Chicago e KC&TheSunshine Band e lui nelle feste riusciva a far impazzire diversamente ragazze amici rivali e dj con i fantasmagorici attacchi degli Chic che rifaceva tali e quali alla chitarra acustica appena amplificata (a quel punto irresistibilmente tutti cominciavano a battere il tempo con mani e piedi, ad ancheggiare e a lui veniva da ridere sgangheratamente ma poi, oltre tutti i suoi schermi, passava solo un lieve soavissimo sorriso), e mentre assisteva impassibile al previsto e inarrestabile processo di sprocedamento (come tecnicamente lo definiva lui, sarcastico) di una qualunque idea di musica cui il pop pervenne negli sprocedati (appunto) anni Ottanta, Mauro in cuor suo serbava un posto d’onore ai classici di Burt Bacharach: all’origine Mauro gli riconosceva un valore affettivo, una specie di parentela di ritorno. Come Bacharach fosse, lui pure, uno zio lontano. Bacharach piaceva a Ilaria, sua madre, e anche a Gianni, suo padre, il quale, senza partire in quarta come faceva con le sue passioni confessabili, sotto sotto lo amava e gli annetteva, lui pure, una funzione collante, un valore di passione comune tra sé e sua moglie. Però, ascoltandolo, cominciò subito, Mauro, a notare una incresciosa stretta al cuore pronta a farsi strada altrettanto inarrestabilmente nella formidabile corazza da lui approntata con cura contro il mondo. Orecchiando le parole e facendo la solita operazione di tirarle giù scrivendosele in un proprio canzoniere manufatto in casa, si accorse del piccolo mistero di quelle canzoni. Si accorse che la musica cercava di far prevalere una specie di sontuosa normalità e le parole cercavano con la loro naturalezza dolente di scardinarla a dispetto di tutto. Cioè là dentro c’era già, prodigiosamente, tutto e il suo contrario, anche il sentimento che di quel tutto e di quel suo contrario è legittimo avere e curare. Mauro pensò come pensa tuttora con un misto di familiarità e tenerezza a quella commistione ossimorica, a quella armonizzazione impossibile tra gagliardìa e sconfitta, tra grandiosità sentimentale e scoramento, tra amore sconfinato e solitudine. Il suo senso di desolazione per questo scontro silente, così drammatico e impercettibile – a meno di destinare a un simile congegno un’attenzione dedicata – comincia appena, solo ora, dopo più di trent’anni, ad attenuarsi, a finire confuso, quasi totalmente assorbito, tra le pretese pressanti della vita reale.

Quindi riascoltare le canzoni di Burt Bacharach, o meglio ascoltandole in loop, molte e più volte, forse ora riuscirà a lasciar emergere il fondo scuro e la capacità della sua musica di dispiegare ali amplissime e insospettate, nelle note nell’orchestrazione nelle parole. 

This house is empty now (Youtube Video)🡪 https://youtu.be/xID7AxShew0

Pubblicato da Daniela Matronola

Sono uno scrittore - a volte poeta, a volte romanziera o raccontatrice, a volte cronista di cronaca culturale o critica/recensora, raramente fotografa. Pubblico dal 1992 sotto varie forme ma sempre col mio nome e la mia faccia. Penso basti.

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