“Sento fisicamente che la poesia è sistemata qua, tra lo stomaco e il cuore, che sale, qua, dietro tra la bocca e il naso, e poi fa tutto un giro, e fa così”: si passa la mano da dietro il capo verso avanti, davanti al viso, col capo tenuto obliquo, poi davanti al naso fa come un’onda. È così che in un filmato di repertorio a colori, dunque recente, forse del 2014 o 2015, descrive o cerca di rappresentare come sorga la poesia, “perché la poesia sorge”, dice in un altro frammento a colori, “la parola ha un potere che non si può spiegare, come si fa a spiegarlo? La parola istituisce il reale”, cioè, riprendo a memoria, le parole fanno esistere le cose, che esistono solo quando acquistano una loro esistenza linguistica: “Cosa c’è di più bello quando sai che una cosa è e non la fai avvenire?”– le cose non contano, non ci sono, anche se sono accadute accadono davvero solo se acquisiscono esistenza linguistica.
Dare forma al mondo reale con la parola era effettivamente il mestiere poetico di Patrizia Cavalli.
Farlo esistere, col suo fondo ambiguo e tutto sommato comico, col suo registro di gioco e avventura.
Ed è proprio ciò che emerge, bene, dal docufilm targato Fandango, approdato a Venezia alla recente Mostra del Cinema (quest’anno 80esima edizione tra una cosa e un’altra, tra sospensioni, interruzioni, pause di guerra, e ritorni) e ora uscito in sala, confezionato in 77 minuti dai neoregisti Francesco Piccolo e Annalena Benini: titolo, Le mie poesie non cambieranno il mondo, come recita una nota raccolta della grande poeta laureata nientemeno che da Elsa Morante. Un tributo d’affetto, oltre che un doveroso documento filmato, per una versificatrice che non ha mai disdegnato il palcoscenico, anzi amava spesso dire i propri versi a memoria: versi resi impervi dalla volontà, ostinata e amorevole, di inanellare frasi poetiche ritmate e in contrappunto con un orecchio musicale che l’ha persino portata a cantare, però lasciando intatta l’ironia tagliente di certa prosa, tra acume e umorismo.
Ad esempio, nel biopic in questione (molto nella vita di Patrizia Cavalli, fin da quando ventenne da Todi venne a Roma per studiare filosofia, hanno contato gli americani, e americana è stata la compagna di una vita, Diane Kelder – professoressa emerita in atenei americani –, e americani sono stati i primi amici romani di Patrizia Cavalli, per cui fu grazie a uno di loro che incontrò Elsa Morante) passa almeno due volte uno stralcio di una lettura tenuta all’Auditorium gremita da almeno duemila ascoltatori: “un pezzo di teatro di successo”, riprendendo una sua proverbiale espressione, in cui Patrizia Cavalli ride di sé e di certe tasche grandi, lunghe, basse per rincorrere le quali con le braccia corte che non arrivano in fondo è costretta a piegarsi profondamente e a guardare al selciato da vicino, il selciato romano, altrettanto proverbialmente sporco, pieno di buche, con i sanpietrini spesso mal posizionati, vere trappole in cui il rischio meno grave è inciampare e sfracellarsi, se non imbrattarsi della sporcizia centenaria che è il tratto più becero della città.
Ridere di sé: un gesto di grandezza magistrale.
Che fa il paio con certe rabbie, con certe aspre maternali a chi tradisce senza nemmeno farsi sfiorare dalla gelosia cieca che per tutta la vita ha amareggiato e dopotutto tenuto desta la stessa Patrizia Cavalli, che ne era viceversa preda facile, e con certe sfrenate passioni, come per il gioco, per esempio. Il gioco che era a un certo punto un vizio, il vizio delle carte: mai giocare per niente, scommettere almeno un centesimo per dare gusto al gioco. Infatti (magistrale quel passaggio) come ci si divezza dal gioco?, chiedono da dietro la macchina da presa i due registi alla poeta, ormai con una rada peluria in testa al posto della ondosa capigliatura anche solo di qualche anno prima: col disgusto, solo col disgusto: “non posso smettere per buona volontà o per ragionamento, d’altronde il disgusto è un sentimento fondamentale per la sopravvivenza, anche per la vita”.
“Io non mi fido di chi non ha l’olfatto”, leggeva Patrizia Cavalli, anzi recitava, in un incontro del 2014, BEVO VIVERE, in cui, circondata da degustatori di vino, molti dei e delle quali erano forse sommelier, aggiungeva (sempre leggendo, anzi, recitando):
“Che meraviglia essere in vita, / ci si può persino lamentare”, o anche:
“Salivo così bene le scale, / possibile che io debba morire?”, e ancora:
“Che cazzo vuole adesso da me questo dolore al petto? / Che faccio: muoio, o resto, e mi lamento?”.
E poi:
“Dura molto la salita da ubriachi / dura molto perché gira su sé stessa. // È una salita ferma che s’inerpica / e poi ricade / perché è questa la salita da ubriachi. // Dove comunque si dovrebbe andare? / A casa, sì, a casa, ma la casa è una faccenda certa, / perché mai si dovrebbe andare in fretta, / esitando sulle scale, fatte apposta / fatte apposta / perché si possa sempre esitare. // Voi lo capite, la salita / è roba tosta, meglio / invece è circumnavigare: / i primi tre gradini, qui c’è l’anima, il resto sono scale”.
Un incontro che non è incluso nella documentazione raccolta dai due registi, che invece hanno incluso dei materiali di repertorio in bianco e nero, in cui Patrizia Cavalli, giovanissima, appena scoperta dalla Morante, col suo piglio, più che modesto, irriverente, quasi iconoclasta, se non guastatorio, dichiara: “Non so se voglio veramente comunicare delle cose (con la mia poesia, ndr). Sono gli altri che decidono se le cose che io scrivo interessano o no, ma non posso deciderlo io, cioè non è nelle mie intenzioni – il comunicare, è lo scrivere nelle mie intenzioni, ma non il comunicare”.
Un filmato, quest’intervista impertinente, girata negli anni Settanta, dopo che, nel 1974, per Einaudi, era uscito proprio Le mie poesie non cambieranno il mondo, ed uscì anche la prima famosa edizione col bimbo morto in copertina di La Storia di Elsa Morante – che, accogliendola quasi con sdegno in casa, le aveva detto, “Fammele leggere (le tue poesie, ndr), non perché mi interessino come cosa letteraria ma perché voglio vedere come sei fatta”, e così, confessa nel docufilm Patrizia Cavalli, si mise a lavorare a un gruppo di poesie, brevi – per contenere gli errori, che riluttava però a sottoporre, visto che, da lettrice vorace dei romanzi di Morante, “volevo che il suo sguardo si posasse su di me con lo stesso amore con cui si posava sui suoi personaggi”. Dopo sei mesi, gliele sottopose, e Elsa Morante le telefonò: “Sono felice, Patrizia, sei una poeta”: la giovane Cavalli ricorda nell’intervista di essersi sentita “bene al sicuro dentro quel grembo”.
Il ritratto che i due neoregisti ci consegnano, e in cui appaiono solo per alcune veloci sequenze, specie nell’intimità della casa di Patrizia Cavalli nel centro storico, nella sua cucina, nei corridoi e nelle stanze foderate di scaffali pieni di libri (“Ci ho degli amici che mi fregano i libri. Adesso questo che non trovo se lo sarà preso qualcuno. Sempre così”), è tenero e intenso, anche se, come tutti i cineracconti biografici mi pare sviluppi sempre la stessa linea di evoluzione: insistere sulla fase finale (“Voi lo volete fare perché sto morendo”), e orientare tutta la prospettiva, l’angolo visuale, rispetto alla parabola personale, letteraria e intellettuale, tirando soprattutto il filo della malattia e della lenta scomparsa, insomma spingendo sulla pena, su un involontario patetico.
Come i due hanno dichiarato, in realtà lo scopo era anche assicurare un documento che altrimenti sarebbe mancato, DOPO, e ancora di più offrire al pubblico lo spettacolo incomparabile del gusto e dell’abilità di Patrizia Cavalli di “incantare quando parla: è una persona che parla in modo totalmente libero”.
Devo però anche ammettere che (pensando alla sceneggiatura del docufilm, o forse al filo che può averli guidati nel montaggio) i due neoregisti hanno saputo dare un andamento circolare al tutto puntando su due elementi corrispondenti: l’onda della parola che sorge misteriosamente come poesia, cui si accennava all’inizio, e l’andamento ondeggiante, incespicante, malfermo, con cui ormai, specie nell’ultimo periodo, Patrizia Cavalli non poteva che muoversi in modo incerto, instabile, con la paura di cadere, anche quando si faceva i suoi brevi giretti intorno a casa, calcandosi il proverbiale cappello, scelto tra le decine che ne teneva sparsi su un tavolo in una stanza, sulla testa oramai decorata non più dalla fastosa capigliatura ma da una peluria incolta sempre più rada, sempre più stenta.
La scena finale è un tocco magico. Infatti mi ha toccata, personalmente.
Patrizia Cavalli attraversa il passetto (un vero passage ante litteram rispetto ai passages parigini, molto antico e carico di storia ma anche di rifiuti odoracci e residui del passaggio umano) che dalla sua strada porta verso Campo de Fiori: si lascia alle spalle (tuffo al cuore) un portoncino che io molti anni fa ho varcato molte volte per salire al secondo piano ed entrare nella tana in centro storico di Pietro, amico fraterno da tempo scomparso, lì per poco con la sposa americana (tout se tient!, griderebbe qualcuno). Ma il bello viene ora: l’occhio della cinepresa dalla posizione frontale passa dietro il soggetto seguito da vicino, Patrizia Cavalli appunto, che attraversa il passetto ed esce all’aria, salutata dalla luce abbagliante del giorno, che la avvolge scintillante, e la rende malferma, tanto che deve tenersi al muro per non perdere l’equilibrio.
Poco più avanti, dritto poi sinistra, certo c’è Campo de’ Fiori col cinema Farnese, ma veramente a due passi, dritto per poco poi destra, c’è il Paradiso.

