Dopo quasi due anni di pandemia e di isolamento forzato, oggi più che mai, ci rendiamo conto di quanto sia necessario condividere un’esperienza insieme agli altri. Insieme ad altri esseri umani come noi.
Per questo motivo, visitando la mostra “Amazônia” di Sebastião Salgado, ho constatato con gioia quanto il pubblico fosse eterogeneo. È stato entusiasmante vedere una collettività così ampia attratta da una forma d’arte come la fotografia. E poi la fotografia di Salgado è “spettacolare”, dunque, tende a suscitare nel visitatore una meraviglia, secondo la definizione che ne ha dato Aristotele: lo stupore che prova un essere umano di fronte al mondo.

La mostra, allestita in anteprima in Italia, è curata da Lélia Wanick Salgado, compagna di vita del fotografo. È visitabile al museo MAXXI – Museo Nazionale delle arti del XXI secolo dal 1 Ottobre 2021 al 13 Febbraio 2022.
L’aspetto che colpisce immediatamente è la musica immersiva, diffusa in tutto l’ambiente. Si tratta dei suoni della foresta amazzonica registrati e messi insieme da Jean-Michel Jarre, musicista e compositore francese. Dal rumore delle cascate, ai versi degli animali, dai suoni delle piogge battenti, agli strumenti tribali delle comunità indios. Questa colonna sonora composta ad hoc, permette allo spettatore di immergersi completamente nella foresta. È come se, varcando la soglia della mostra, si entrasse realmente in Amazzonia. A rendere il tutto ancora più suggestivo sono le luci soffuse ed i colori rosso acceso delle pareti, che sono in completo contrasto rispetto al bianco e nero delle fotografie di Salgado e al nero asettico ed elegante delle cornici.

La mostra è divisa in sei diverse sezioni, composte nell’insieme da ben 200 fotografie che l’autore ha scattato nel corso di sei anni di viaggi all’interno della foresta amazzonica, dove ha immortalato, con rispetto e ammirazione, non soltanto i letti dei fiumi, le nubi, gli alberi e le distese di acqua, ma anche diverse tribù indigene. È questa la parte più interessante della mostra, perché ha in sé un’attenta analisi antropologica delle popolazioni definite “intatte” del nostro pianeta. Quelle, cioè, che non hanno permesso alla cultura occidentale di sporcare la propria incolumità e integrità. I volti fotografati da Salgado mostrano una fierezza che non ha eguali. Oltre a raccontare alcune scene di vita quotidiana, il fotografo era solito portare con sé un grande telo che srotolava all’occasione per creare dei veri e propri posati su sfondo neutro. Probabilmente il suo intento era quello di studiare fino in fondo e cogliere l’essenza di questi esseri umani che sono come noi, ma che sembrano tanto differenti.
Molto scenografici gli studi e lo sguardo sulla natura della zona amazzonica, come se l’obiettivo fotografico dell’artista si posasse sull’universale (l’area geografica) per poi scendere nel particolare (l’essere umano che abita quei luoghi).

Nella prima sezione della mostra, L’Amazzonia vista dall’alto, ho avvertito nella tecnica utilizzata dal fotografo la capacità di cogliere una materialità tangibile. Il bianco e nero esalta, infatti, la materialità delle rocce riprese da Salgado. Sembra che queste vogliano uscire dalla foto per essere toccate. Attraverso l’obiettivo se ne vedono le impurità e tutte le lesioni del tempo, del vento, dell’acqua. L’acqua è un elemento che ritorna e nella sezione dedicata ai “fiumi volanti”, aiutati dalla musica, ci si sente immersi in queste grandi, grandissime nubi di vapore acqueo.

La mostra è molto ben organizzata e all’ingresso si è dotati di un opuscolo che spiega tutte le foto delle diverse sezioni. Da grande appassionata di fotografia, però, avrei desiderato ricevere maggiori informazioni circa la tecnica fotografica utilizzata, la tecnica di stampa e la disposizione delle luci nei posati.
Credo che, però, la scelta della curatrice della mostra e dell’artista stesso sia quella di far luce sull’aspetto importante e urgente dei cambiamenti climatici che stanno avvenendo in diverse zone del nostro pianeta. I disboscamenti, le deforestazioni, l’inquinamento. Tematiche affrontate, proprio in queste ultime settimane, dal G20 tenutosi a Roma e dalla conferenza sul clima COP26 di Glasgow.
La reazione che le fotografie hanno suscitato in me è stata una specie d’invidia nei confronti degli indigeni rappresentati nelle foto e del loro rapporto con la natura, della loro forza e fierezza, del loro senso di comunità e di rispetto verso il pianeta.
Rispetto che hanno nei confronti del loro ecosistema, che preservano e che proteggono con tutte le loro forze, come un figlio con un genitore o come un genitore con un figlio. Un legame, questo con il nostro pianeta, che chi come molti di noi è cresciuto in città, non riesce a sentire come così fondamentale. Perché per noi il verde è quello che ritroviamo al parco la domenica o al mare nel mese di agosto. La natura è qualcosa di lontano e per questo ci permettiamo di non pensare a quanto essa soffra a causa nostra. Basti pensare a quanto l’inquinamento si sia ridotto nel periodo del primo lock-down e a quanti animali fossero tornati a popolare zone che invece di solito sono invase dall’uomo e dai suoi traffici mercantili.

La visita di Amazônia ha la capacità di risvegliare un certo senso civico nei confronti del pianeta terra e della natura in sé, della quale fa parte anche l’uomo come specie. L’immersione totale nelle immagini e nei suoni della foresta ci restituisce la sensazione che “tutte le cose sono in ogni cosa” e che tutto è collegato, che “tutto è in tutto” e che noi facciamo parte di quel tutto.