Dalla metà degli anni Trenta, altrimenti drammatici, Woody Allen ha attraversato indenne il Novecento chiosando il secolo col suo cinema e soprattutto con il suo sentimento dell’Ovest, dell’Occidente progredito tutto riassunto nella figura della città, una civiltà talmente avanti o decadente che ha sostituito la realtà col commento alla realtà, col verbo, la parola umana. E chi più di Woody Allen incarna proprio questo? Chi più di lui fa un cinema di parola? LUI! La parola è la dimensione pervasiva che coniuga nei suoi film (speculazioni più che storie) le quinte, il fondale delle città, col setting posto nello spazio contemporaneo e senza tempo.
Dicono che Woody Allen sia il più europeo dei cineasti americani: è un manhattaniano doc!
La verità è che gli europei lo apprezzano più degli americani per almeno un paio di ragioni: la prima è che nessuno è profeta in patria (Woody Allen è piuttosto franco nell’analisi della realtà americana: inutile dire che questo irrita i suoi connazionali, che forse mancano degli strumenti raffinati utili a riconoscersi nelle macchiette che Woody Allen cuce loro addosso); la seconda, originaria in realtà, è che il connaturale witz ebraico impedisce a Woody Allen di ridurre i suoi film a intrecci solo riconducibili ai famosi tre atti cui obbedisce ogni buona sceneggiatura: il surplus di pensiero, che si traduce in dialoghi arguti, indiavolati, spiazzanti, esilaranti, smagati, sopravanza ogni buona intenzione di scrivere semplici storie da manuale.
Partiamo dalla fine: da Rifkin’s Festival, film girato e postprodotto tra il 2019 e il 2020, uscito solo il 6 maggio 2021, in America e in Europa: l’ho visto quel giorno. In versione originale: la ragione è che, trattandosi di cinema di parola, i dialoghi sono fondamentali, e il sonoro autentico è irrinunciabile. La mia non è una crociata contro il doppiaggio: tutto il contrario! Il doppiaggio non poche volte ha sollevato le sorti di film mediocri. Poi finché c’è stato l’irripetibile Oreste Lionello, fedele nel rifare Woody Allen fin nei minimi motteggi, fin nelle minime interiezioni ed esitazioni, nel riprodurre lo spaesamento del visitatore del labirinto-città (plastico/specchio del labirinto-vita, e del labirinto–intelligenza/sentimento), Woody Allen doppiato era Woody Allen. A Lionello è subentrato Leo Gullotta, altrettanto efficace. Certo con Oreste Lionello ci avevano viziati.

Rifkin’s Festival è ambientato a San Sebastian, Golfo di Biscaglia, Paesi Baschi. Una cittadina legata a un festival del cinema famoso nel mondo: la coppia protagonista è formata appunto da un cronista di cinema, uomo non bello, simpatico, un po’ cadente, arguto e sensibile, e sua moglie, agente di un giovane regista in ascesa (belloccio e tronfio), con cui lei ha un fugace flirt che inguaia l’ennesima esperienza dell’ennesimo festival. È chiaro che qui Woody Allen ripete un suo schema: una trama quasi pretestuosa ma anche tipica nei suoi motivi ricorrenti (la crisi di coppia, la mortificazione dei sentimenti autentici, la stupefatta e costante analisi del disastro di una vita e dell’agente esterno del disastro) offre l’occasione di un devoto omaggio al grande cinema e a una città europea fotografata col ben noto smalto da Vittorio Storaro.
Woody Allen, che da sempre si muove cinematograficamente in quel dedalo ordinato e stringente che è New York, specchio delle sue cerebrali trame, da anni si è spostato in alcune città europee, a cominciare dalla Londra di Scoop e ancor prima di MatchPoint (per ragioni economiche, pare, però il film è un’opera hitchcockiana: come non pensare al meccanismo di Nodo alla gola, con Farley Granger, tipico film di Hitch del 1948?, uno dei tanti intrecci costruiti dal Maestro attorno al dispositivo del delitto perfetto, un mito irriso da Woody Allen nel suo molto manhattaniano Crimini e misfatti). Un paio di eccezioni a questa migrazione sono stati Wonder Wheel (2017) ambientato a Coney Island negli anni Cinquanta, e A Rainy Day In New York (2019) film illustrato da Timothée Chalamet e Jude Law ma oscurato e rallentato da grane giudiziarie che qui non stiamo a tirar fuori: basti deprecare la fretta con cui alcuni (dal protagonista agli Amazon Studios) si sono affannati a dissociarsi dall’opera e dall’autore, a non voler figurare mescolati col nome, bollente a un certo punto, del regista. Lasciamo stare.

Woody Allen ha incominciato a rendere omaggio all’Europa come un expatriate, emigrante che torna sui suoi passi. Bè, su questo qualcosa da dire c’è. Prima di farlo scorriamo qualche film degli ultimi anni in cui il regista brooklyniano di cultura ebraica cala storie di americani in città come Parigi Barcellona Roma.
In una lunga video-intervista concessa a Enzo Biagi nel 1995, ben prima che la fase europea del suo cinema si concretizzasse, Woody Allen, con argomenti in verità quasi solo turistici, si era lanciato in una serie di dichiarazioni sulle città che ogni americano vorrebbe visitare in Europa. Bè impossibile non considerare un po’ da cartolina eppure calzante il ritratto della Spagna che il regista realizza in Vicky Cristina Barcelona, che sancì l’unione tra Penelope Cruz e Javier Bardem, focosi amanti nel film, e girato in parte a Oviedo nelle Asturie dove campeggia una statua in bronzo a grandezza naturale di Woody Allen con tanto di tipici occhiali da intellettuale (pare che qualcuno si sia ingegnato a oltraggiare la statua tirando via gli occhiali, come avrà fatto?).

Così vagamente da luogo comune appare Roma in To Rome with love, uno dei film più affettuosi e spassosi che Woody Allen potesse concepire in omaggio ai grandi registi italiani che lo hanno ispirato: oltre a De Sica, Rossellini, Antonioni, Fellini, persino Pietro Germi nominava, Woody Allen, a Enzo Biagi nell’intervista del ’95. Due cose, diceva, avrebbe cambiato: il nostro modo di guidare, e il clima, “troppo caldo, … per tutto il resto (l’Italia, ndr) è magica, ne ho una visione romantica” – per un americano, diceva, l’Italia è davvero un paese straniero: “i colori sono diversi, l’architettura è così radicalmente diversa per un nuiorchese: noi tutti abbiamo una visione romantica dell’Italia, come di Parigi…”.
La Parigi di Midnight in Paris è davvero un crogiuolo di talento e arte: Gil Pender, giovane sceneggiatore americano, sul punto di sposarsi con una coetanea capitalista fino alla punta di capelli, per puro caso si connette alla Parigi degli anni d’oro, e si imbatte in Hemingway, Fitzgerald, Picasso, Gertrude Stein, Dalì, Buñuel: da questa sponda sul primo Novecento, grazie all’incontro con Adriana, leggiadra modella per Picasso, rimbalza anche indietro alla Belle Èpoque e incrocia Toulouse-Lautrec. A mezzanotte, la prima volta per caso e poi puntualmente ogni notte, in una certa stradella Gil incrocia una tipica voiture da cui lo invitano a salire per il suo quotidiano salto nel tempo compagni di viaggio del calibro di James Joyce e T. S. Eliot: “Venga, salga pure!” – “Cioè lei è TSEliot? Thomas Stearns Eliot? Ma… ma io ho letto tutto…”.

Lo sceneggiatore ha in mente un romanzo, vuole riprovarci a diventare scrittore, progetto accantonato per guadagnare con la scrittura dei film, e questo inatteso incontro con i suoi Maestri in un curioso formato carn’e-ossa sembra riavvicinarlo al suo sogno, renderlo possibile finalmente. È chiaro che, come sempre accade con Parigi, se Gil accetterà tutte le condizioni poste dalle circostanze, allora dovrà cambiare radicalmente la propria vita, sarà una letterale rivoluzione, un capovolgimento della solita sopravvivenza tutta giocata sul compromesso, su un atteggiamento conciliante e rinunciatario.
Come sempre, emerge il vero carattere della città: di Parigi come di Roma o Barcellona o Oviedo o Londra o San Sebastian. L’apparente ambientazione d’occasione, l’apparente quinta ininfluente, da cartolina, per l’impressione che se ne ha all’inizio, dopo, a film concluso, e ancor più a sala abbandonata, casa riguadagnata, esperienza vicaria in fondo liquidata, comincia a prendere corpo, a farsi personaggio consistente. Come è della New York che da sempre Woody Allen racconta, in un elogio della città, di Manhattan soprattutto, instancabile, per il solo luogo sulla Terra che gli si confaccia, e in cui (come in una sorta di esistenziale seduta psicanalitica a sfondo topografico) il regista sa imbattersi nelle sue paure, angosce, fisime, ipossie, ansie.
Su questo fronte consiglio caldamente di leggere A proposito di niente – Autobiografia, libro mirabolante che ha dovuto, lui pure, fendere le forche caudine per poter essere pubblicato: da noi, Elisabetta Sgarbi (La nave di Teseo) si è subito dichiarata pronta a mandarlo in libreria, a costo di farne un’anteprima italiana, come era accaduto in passato solo con Il Dottor Živago di Boris Pasternak (edito in anteprima mondiale nel 1957 da Giangiacomo Feltrinelli).
Da dove parte Woody Allen? Da Flatbush, area di Brooklyn che dal 1651, anno della fondazione olandese, è stata per lungo tempo una cittadina a sé stante, e poi è stata ingoiata dal borough, e col borough è rientrata nella metropoli a cinque distretti che tutti noi chiamiamo New York, avendo in realtà in mente solo Manhattan, isola agganciata dai numerosi ponti ai suoi quattro satelliti. A Flatbush, in una famiglia di emigrati (eccoci) ebrei orientali, forse di origine ungherese, Woody Allen è cresciuto. Lì è nato come Allan Stewart Königsberg, portando nel cognome la città di Immanuel Kant: i concittadini vi rimettevano l’orologio ogni giorno in concomitanza con le pensose passeggiate del puntuale filosofo. Un racconto biografico, ilare e arguto, che ci conforta con alcune notizie in apparenza marginali sulla figura del singolare regista: vi riceviamo conferma di un fatto, come sentiamo da lui stesso alla fine dell’intervista con Biagi: “Ambizione segreta?” – “Ah vorrei tanto essere un musicista jazz”. Scopriamo che da bambino il suo quoziente intellettivo era talmente alto che fu mandato avanti a scuola e tutto andò bene finché si trattò delle elementari, dopo il piccolo Allan maturò un odio per la scuola, a suo giudizio buona per “insegnanti disagiati”: eppure fin da bambino cominciò a selezionare le sue passioni, e scoprì di essere un’ottima base per cui si specializzò oltre che nella pratica anche nella teoria del baseball, e così fece anche per i giochi di prestigio per i quali mise su spettacolini oltre a studiare a fondo i sacri testi, stessa storia col gioco d’azzardo (che riaffiora ancora nel protagonista di A Rainy Day in New York), e soprattutto col culto, alla lettera, dello studio del clarinetto.
Questo ragazzo è sempre stato uno studioso, un tipico americano, anzi nuiorchese, dedito ai manuali da cui imparare how to (vale a dire come) coltivare determinate passioni istruendosi. Eppure per tutta l’autobiografia, mentre ci dà queste notizie, non fa, il buon Woody, che schermirsi, e negare d’essere l’intellettuale per cui, causa gli occhiali e la forte miopia, viene scambiato. E non fa che disseminare il testo, tipicamente, di battute irresistibili (si ride un sacco) e di notazioni, specie legate al periodo dell’infanzia e della tribolata adolescenza, decisamente salingeriane. E così comincia a venir fuori l’autore di sketch, il cabarettista, lo sceneggiatore, l’attore. E il giovane facile a innamorarsi e incapace di amare: insomma, il Woody Allen che da tempo vediamo nei film, everyman di chiara formazione ebraica: “Ho la tendenza a essere ateo”, dichiarava Woody Allen nel ’95 a 60 anni, a Enzo Biagi, “per essere onesto, dovrei dirmi agnostico, però la mia tendenza più profonda è all’ateismo”: city dweller, è pensatore e cittadino, legato per formazione alla New York degli anni Trenta/Quaranta, città sfolgorante coi suoi locali e teatri e ristoranti, con la lirica e il jazz, e ora completamente degenerata, del tutto cambiata, ma radicata con la sua architettura insolente nel suo immaginario, affiorante sempre, di prepotenza, nello spirito graffiante e nelle osservazioni caustiche dei suoi testi.
