Tra le Erbacce Perenni. Intervista alle Volpi Metropolitane

“La volpe è l’animale selvatico più domestico o l’animale domestico più selvatico?”. Questa è la prima di tante questioni – apparentemente giocose, ma non di semplice soluzione – che accompagnano il lavoro delle Volpi Metropolitane, collettivo artistico con base a Torino, pronto però a fare un agile balzo anche in altre città. “Erbacce Perenni” è il primo progetto multidisciplinare di arti visive e performative a cui stanno dando vita: attraverso l’intersezione tra teatro, danza e arti multimediali, si propongono di esplorare il “corpo come paesaggio in movimento”. È proprio nell’analogia e nella relazione tra corpo e paesaggio che intravedono una risorsa per riscoprire un movimento ludico e spontaneo, in grado di sottrarsi a quei gesti automatici e codificati che compiamo ogni giorno.

Al centro della loro ricerca troviamo concetti come il “Terzo Paesaggio” – con il quale Gilles Clément designa tutti i “luoghi abbandonati dall’uomo”–, e il recupero della  pratica della “deriva”, tecnica di esplorazione psicogeografica teorizzata e sperimentata dal gruppo d’avanguardia dei situazionisti.

Le Volpi Metropolitane intendono allora indagare la vita lungo i margini, tra i luoghi incolti e dimenticati – tanto dello spazio urbano, quanto dello stesso corpo –, per recuperarne l’immensa ricchezza.

Abbiamo seguito le impronte delle loro zampe fino alla loro tana, per farci raccontare quali riflessioni si nascondano dietro all’immaginario “tenero” e scherzoso – o almeno, così è stato percepito dai più – che avvolge le loro comunicazioni. Dietro ai baffi vibranti e lucenti, ecco quindi svelati i volti di Valentina Bosio – performer, coreografa e autrice – e di Nicolas Toselli – attore, autore, e videomaker del progetto.

Foto di Volpi Metropolitane

Per iniziare, vi va di raccontare come è nato il progetto di “Erbacce Perenni”?

Nicolas: Il confronto fra noi è nato successivamente al primo periodo di quarantena, che dal punto di vista corporeo, muscolare, a tratti pareva insostenibile. Valentina, infatti, mi raccontava che faticava ad addormentarsi perché, anche a letto, pensava assiduamente a danzare, a muoversi.  Quindi, un elemento di partenza è stato sicuramente la nuova condizione di staticità, che ci ha fatto rendere conto di quanto non possiamo fare a meno di muoverci. Anche se il non muoverti o il muoverti male finisce per essere qualcosa a cui ti abitui. Per quel che mi riguarda, poi, sono sempre stato molto affascinato dalla disciplina dell’attore. Per molti studiosi il processo di studio attoriale è un processo inverso: torni come eri bambino, impari a camminare come sapevi camminare prima, a stare dritto come sapevi stare dritto prima. In un certo senso, ancora prima di pensare a un prodotto artistico, avevamo l’esigenza di ripercorrere all’indietro abitudini che erano diventate o meccaniche – perché confinate a specifici momenti di ricreazione –, o inesistenti. E credo che la maggior parte delle persone che si occupano per lavoro del proprio corpo si siano poste domande simili nel corso dell’ultimo anno: nonostante la possibilità di scambio sia stata molto minore, credo si sia assistito a un processo di riflessione condiviso.

Valentina: Una delle prime questioni da noi affrontate riguarda la percezione. Spesso avevo la sensazione che le persone non possedessero una reale percezione del loro essere in uno spazio e del loro essere in mezzo ad altri corpi, e durante la pandemia l’esigenza di soffermarsi su ciò che viviamo in prima persona tutti i giorni si è fatta ancora più urgente. In queste “derive”, in queste esplorazioni che abbiamo fatto per la città, abbiamo iniziato a porci domande inusuali: sul come siamo, in un certo senso, obbligati a vivere e a muoverci. Perché ci sono strade con carreggiate enormi per le macchine e un marciapiede minuscolo per le persone? O perché ci sono delle linee dritte e non si può tagliare la strada in diagonale? Questo ripensamento ha investito tanto il luogo fisico in cui siamo immersi, quanto il nostro stesso corpo: perché dobbiamo compiere movimenti sempre identici? Certo, esistono degli scopi, delle utilità, ma riflettere su questi aspetti può portare a conoscersi, e a indagare se, al di là delle funzioni a cui “dobbiamo” assolvere, esistano movimenti liberi e inaspettati, dei quali stupirsi. Relativamente all’idea dell’attore bambino, ci siamo confrontati su alcuni giochi che facevamo da piccoli, e abbiamo scoperto, per esempio, che entrambi ci mettevamo sdraiati sul divano a gambe all’aria, immaginando di camminare sul soffitto. In un momento come questo, in cui siamo costretti a stare in chiusi in un determinato spazio e a rispettare norme ancora più rigide del solito, abbiamo trovato una spinta ancora maggiore nel ricercare il gioco e il divertimento in quello che viviamo. Perché c’è un mondo dietro e dentro tutto, in una stanza o anche soltanto dentro di noi. Allo stesso modo in cui esiste un angolo della tua città e del tuo paese che non hai mai esplorato o non hai mai guardato con certi occhi, sicuramente esiste una parte del tuo corpo che magari non ricordi o non sai come funziona. Per questo abbiamo intrapreso una ricerca sull’analogia tra paesaggio e corpo: un corpo che di fatto è un paesaggio immenso.

Foto di Volpi Metropolitane

Nei contenuti che finora avete pubblicato avete disseminato citazioni di autori legati a contesti molto differenti, ma che in qualche modo sembrano rimbalzarsi le questioni. Da quale riferimento siete partiti, e come si sono dischiusi tutti gli altri?

Valentina: Nell’estate del 2018 avevo iniziato alcune sperimentazioni di danza e pittura con un’amica, ed è lì che ho incontrato i primi testi di Gilles Clément –l’architetto, paesaggista, urbanista francese –, e quindi mi si era già aperto questo mondo legato al discorso sul “Terzo Paesaggio” e sul “Giardino in movimento”. Il riferimento chiave per l’ideazione del primo frammento del progetto è stato, però, In territorio selvaggio di Laura Pugno, anche se più a livello suggestivo, per poi scoprire che lei stessa interpellava Clément. È stato molto curioso e stimolante notare come le stesse questioni tornassero in tantissimi autori in cui ci siamo imbattuti: è stata in qualche modo una conferma della direzione che stavamo tracciando. Tra i riferimenti centrali, c’è stato per esempio il lavoro di Anna e Lawrence Halprin, le loro ricerche tra architettura e danza, per esplorare la relazione che c’è tra lo spazio collettivo e il movimento collettivo e individuale. E in generale, fondamentali sono stati i concetti di “residuo”, di “territorio incolto”: un territorio abbandonato che però al suo interno contiene una ricchezza immensa.

Nicolas: L’incolto, in un certo senso, sono tante zone del tuo corpo. Noi stessi, a livello performativo, ci ritroviamo ad avere una certa abilità o scioltezza in alcune parti del corpo, a scapito di moltissime altre. Laura Pugno si chiedeva: “La poesia può essere il Terzo Paesaggio della letteratura?”. Come appunto ciò che cuce tutto quello che è già determinato, canonizzato della letteratura. E così ci siamo detti: “Possiamo trovare un Terzo Paesaggio in alcune zone del corpo, che non sono rifunzionalizzate dal punto di vista performativo?”. In quanto attore, spesso ti viene chiesto di scavare nella tua “animalità” per produrre una verità teatrale. Ma anche in questo caso si tratta di formule già canonizzate, per le quali sei costretto ad appoggiarti all’erotismo che confluisce in zone determinate del corpo. Dunque, volevamo anche scardinare questa abitudine artistica e cercare di fare lavorare delle zone in modo diverso. A partire da queste domande si sono dischiusi i riferimenti: la psicogeografia teorizzata dai situazionisti per me è definitiva (ride). Debord diventa utile dal punto di vista sociologico: il discorso sulle geometrie delle strade a cui accennavamo, se lo metti in una prospettiva più scientifica diventa un problema oggettivo, che si connette, per esempio, alla storia dell’automobile. L’impresa automobilistica ha trasformato il tessuto urbano: comprando e vendendo appalti ha davvero cambiato l’urbanistica delle città. Il primo libro che però abbiamo condiviso insieme è stato Le visionarie, un’antologia di racconti di fantascienza femminista pubblicata da Nero Edizioni: anche lì torna il tema del selvaggio, l’alterità della donna in conflitto con la società.

Foto di Volpi Metropolitane

Il nome del collettivo, Volpi Metropolitane, sembra ridefinire confini e mettere a contatto immaginari diversi, accostando la dimensione urbana a quella del selvaggio. Nella sua semplicità sembra conservare una forte stratificazione, in cui l’elemento giocoso si mescola a richiami politici.

Nicolas: È proprio così. Nella stratificazione rientra il discorso sugli autori di prima: bisogna porre l’attenzione sul fatto che tutte le cose siano in relazione. Che gli autori si rimbalzino le questioni, che le parole si rimbalzino gli immaginari è fisiologico. Diciamo però che, cronologicamente, la consapevolezza di questa stratificazione è stata assunta nel tempo, non è stata studiata, nonostante metta bene insieme i nostri immaginari. E, come si è creata da sé, noi l’abbiamo spontaneamente accolta; giocavamo a chiamarci fra di noi volpi, quasi per scherzo, poi a ritrovare questo rimando animale sempre più spesso, un po’ ovunque, ma mai casualmente. Il riferimento agli “indiani metropolitani” è quella parte della stratificazione che ha a che fare con la presa d’atto di una condizione storica, politica. E rappresenta il fatto che ci piacerebbe essere l’ala creativa del movimento (ride).

Valentina: In qualche modo, oltre ad una stratificazione, è anche una contraddizione. Che però fa parte della realtà che viviamo. Riprendendo lo stimolo di Laura Pugno, il selvaggio inizia ad esistere una volta che sei tu a chiudere la porta e a creare un “dentro” e un “fuori”. Il “dentro” diventa quindi la “tana sicura”, e il “fuori” diventa il “selvaggio”. Allora ci siamo chiesti, “e se invece questa porta la si apre”? Oppure: “se il dentro e il fuori fossero in realtà l’opposto di quello che pensiamo”? Nel nome è quindi racchiusa la riflessione sulla coesistenza e sulla contraddizione – che poi, appunto, contraddizione non è –, tra questi luoghi: sul fatto che questi confini netti non esistano più. Da qui la domanda un po’ provocatoria sulla volpe, “l’animale domestico più selvatico, o l’animale selvatico più domestico”. La volpe che è un animale astuto, furbo …ma anche molto carino (ride).

Foto di Volpi Metropolitane

La ricerca di un movimento ludico, sottratto agli scopi e all’utilità, sembra anche voler scardinare la retorica della produttività. Se il livello politico è evidente, quanto è presente, invece, la tematica ecologica?

Nicolas: In un certo senso è inevitabile che il discorso abbia a che fare con l’ecologia, perché è una problematica molto presente nella nostra vita quotidiana. Facendo riferimento a Clément, però, il paradosso è che le zone più ricche dal punto di vista della biodiversità non sono le riserve naturali, ma proprio quegli spazi ai quali non è destinata una cura, ovvero il Terzo Paesaggio. Il rapporto con l’ecologia è in questa domanda, più che nelle risposte. La soluzione è il non prendersi cura delle cose, piuttosto che curarle. Secondo me, quindi, l’ecologia rimane in questo lavoro come paradosso. A livello politico, il discorso egemone è anche un discorso di facciata ecologista: di fatto ci si preoccupa di mantenere inalterata la temperatura terrestre per poter continuare a produrre. È chiaro che questo non è il discorso dei veri militanti ecologisti, ma credo che questa tematica oggi rischi di avere un portato di restaurazione spaventoso.

Valentina: Riprendendo il discorso de Il giardiniere planetario di Clément, noi stessi siamo paradossali nella misura in cui non vogliamo essere ecologici. Decidere consciamente di occuparsi di qualcosa con uno sguardo ecologico, in realtà, è al tempo stesso una costrizione, una schematizzazione, che porta a sviluppare delle differenze che non sono spontanee. Nel progetto parliamo delle erbacce perenni che crescono casualmente, sui muri o nelle zone abbandonate: sono brutte, nessuno ci fa caso, nessuno se ne preoccupa. Non c’è un’intenzionalità nel loro sorgere se non la sopravvivenza, un vivere a modo loro. Ed è un po’ quello che cerchiamo di fare sia esplorando la città, attraverso la deriva psicogeografica – vagando senza un percorso prestabilito, lasciandoci guidare dai dettagli più inaspettati –, sia esplorando il corpo.  Perché in effetti, l’improduttività sta anche qui: nel trovare un movimento che non abbia scopo, utilità, magari anche esteticamente non interessante. È semplicemente un lasciar germogliare qualcosa e vedere cosa accade.

Foto di Volpi Metropolitane

Dopo una fase più teorica di studio e preparazione, intendete procedere con una pratica laboratoriale. A cosa mirate aprendo questo progetto a una dimensione collettiva? E soprattutto, come pensate di riuscire a “far passare” i concetti su cui avete lavorato?

Valentina: Nonostante il riferimento a numerosi autori e concetti, le domande che ci poniamo partono davvero da situazioni e dati molto reali, che qualunque essere umano vive. Per questo per noi è molto importante riuscire a rendere questa pratica laboratoriale accessibile a tutti. Infatti non è un corso, non c’è la volontà di insegnare una tecnica o qualcosa di specialistico, ma piuttosto il desiderio di riflettere insieme a persone di qualunque età e provenienza su quello che stiamo vivendo, in quanto esseri umani, in determinati spazi e determinati luoghi. La dimensione ludica –che stiamo cercando di mantenere anche nella comunicazione – è essenziale: ancora una volta il tornare bambini, il gioco, è una risorsa che può permettere anche agli adulti di staccarsi dagli schemi e dai ritmi quotidiani, per provare a stravolgere il punto di vista su se stessi e su ciò che li circonda. La relazione che si stabilisce tra il corpo e un determinato luogo può essere utilizzata nella pratica laboratoriale come uno strumento che permette di slegare le varie parti dall’automatismo, dalle funzioni prestabilite e dalla gerarchia a cui le associamo. Siamo abituati a pensare con la testa e camminare portati dal movimento delle gambe, ma non è detto che debba essere sempre così: potrebbe essere la tua pancia, per esempio, a volerti condurre. In questo senso, immaginare il corpo come un paesaggio, trovare analogie tra la forma della spalla e una collina, è un qualcosa che permette davvero a tutti di arrivare alla consapevolezza di essere composti da micromondi e micropaesaggi.

Nicolas: Vorremmo condividere le derive con i partecipanti al laboratorio, e contemporaneamente condurli in sala esplorando il movimento, aiutandoci anche con alcuni esercizi di training autogeno, mimetizzandoci con alcune immagini che ci siamo creati. Semplicemente, avendo a che fare con la forza del paesaggio e la forza del proprio movimento – quando è libero da obiettivi performativi –, quelle domande ce le si pone. La deriva psicogeografica, per i situazionisti, prevedeva di costruire delle unità di ambienti differenti tra loro. Un passaggio successivo all’esperienza diretta sarebbe quindi quello di ricostruire quelle unità percepite attraversando la città: ridisegnare la cartina secondo quello che si è vissuto e che si ricorda, e contemporaneamente disegnare il proprio corpo prima e dopo queste fasi di laboratorio. Questo consente di vedere su carta – nel caso del disegno – l’immagine della percezione mentale che si possiede di se stessi, in qualche modo sempre estremamente deformata dalla realtà. In questo modo si iniziano a integrare le due forme di esplorazione del corpo e del paesaggio. A questo discorso si lega anche il video, perché è la prima forma che abbiamo trovato per restituire una sovrapposizione di piani. Immaginiamo che nella fase laboratoriale ci sarà la nostra guida, ma sarebbe bello se gli smartphone degli utenti potessero creare queste mappature, costruendo una narrazione video dell’esperienza. Questi strumenti sono effettivamente quelli che oggi permettono di comunicare: sono ormai protuberanze del nostro corpo, ed elaborare una cartografia del proprio corpo e del paesaggio può essere un modo per ampliarne la funzione.

Foto di Volpi Metropolitane

A livello pratico, come avete sperimentato e come avete intenzione di sperimentare la “deriva”?

Nicolas: La fase della deriva che secondo Debord è necessaria –solo secondo lui tra i situazionisti –, ovvero quella di ricostruire una narrazione oggettiva dopo l’esperienza, è una fase di cui non ci occupiamo. Anche perché la stiamo facendo da “pirati” (ride), dal momento che secondo lui in due non si potrebbe fare. Se non ricerchiamo l’oggettività, però è vero che, concluso il percorso, cerchiamo di confrontarci sul nostro stato d’animo, sul modo in cui ci siamo sentiti. Poi prestiamo molta attenzione nel restituirci l’esperienza rispetto alla fluidità con cui la conduciamo. Il tentativo è sempre quello di restare a mezza via tra l’esperienza e la documentazione: se documenti troppo ovviamente esperisci poco, e viceversa. Quindi ci confrontiamo su impressioni psicologiche che i quartieri ci danno: se nel centro storico di Torino abbiamo avuto molta più ansia, l’esperienza in Barriera, nonostante il quartiere fosse meno addobbato, è stata molto più fluida, e sentivamo un’allegrezza maggiore. Finora, elaborando il pensiero a esplorazione conclusa, ci siamo sempre trovati concordi rispetto alle sensazioni provate, ma appunto non si tratta di una ricostruzione oggettiva dell’esperienza.

Valentina: È anche curioso riflettere su come ogni volta veniamo portati a documentare in un modo diverso le cose: se in Barriera abbiamo vissuto la deriva più a livello esperienziale, nel centro storico siamo stati portati ad impiegare molto tempo al telefono, probabilmente per l’eccessiva proliferazione di negozi, luci e oggetti colorati. Questo vagare senza meta, senza progettualità, attirati di volta in volta dai cornicioni o altri particolari, ci consente di darci delle regole che sono sempre diverse, scelte sul momento, in modo istintivo. Abbiamo deciso di condurre l’esperienza insieme, documentando entrambi, perché il percorso può essere identico e le sensazioni concordi, ma in realtà non puoi mai sapere qual è il dettaglio che l’altro sta cogliendo. Sarà interessante proporre di sperimentare la deriva a piccoli gruppi, perché la documentazione restituirà una geografia del luogo composta da diverse sfaccettature di quello stesso spazio, che in realtà lo fanno diventare un altro spazio rispetto a quello che è.

Foto di Volpi Metropolitane

Avete in progetto di portare la pratica laboratoriale anche fuori Torino, proponendola in altre città?

Nicolas: La deriva è un’esperienza che varia moltissimo, anche soltanto rispetto a come conosci la città, e che si presta a diversi linguaggi di restituzione. Valentina, per esempio, ormai conosce benissimo Torino, mentre io che sono arrivato da poco tendo a non orientarmi, e non riesco a provare quel piacere di perdermi in qualcosa di conosciuto. Abbiamo realizzato un crowdfunding proprio per poter portare questa pratica anche nelle altre città, ed evitare che qualcuno debba pagare per fare un’esperienza simile. L’intenzione è quella di comunicare con gli spazi artistici e sociali del paese, appoggiarsi a loro, e da lì proporre microlaboratori, itinerando in tutte le città.

Valentina: Vogliamo anche cercare di problematizzare un aspetto che la pandemia ha amplificato, per il quale si è legittimati ad uscire di casa solo se si va a consumare: chi vive in città, in un appartamento, si è trovato a vivere una situazione molto più difficile rispetto a chi, per esempio, ha la fortuna di avere una casa in campagna. Vorremmo rendere accessibile a tutti questa esperienza, per cercare di innescare in tutte le persone la consapevolezza che non c’è bisogno di nulla per farsi…“un gran viaggio” (ride). Portando il laboratorio nelle altre città, ci piacerebbe – anche se per ora è tutto a livello progettuale –, riuscire a costruire una mappa di un nuovo corpo, grandissimo, costituito da tutti questi corpi, esperienze, racconti, documentazioni fatte dai partecipanti, sotto forma di un sito internet interattivo, in costante espansione e cambiamento: insomma, far proliferare le erbacce, ovunque.

Foto di Volpi Metropolitane

L’immagine di copertina è di Volpi Metropolitane.

Pubblicato da Chiara Molinari

Nata a Brescia nel 1994. Dopo un periodo di studio a Monaco di Baviera, si laurea in Filosofia all'Università degli Studi di Padova con una tesi su Adorno. Attualmente frequenta il Master in Critica Giornalistica all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico di Roma. Si interessa principalmente di letteratura, cinema e teatro.

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