«El Paradis… Ragassi, che pastüra!»: è questo il primo verso del romanzo in poesia L’angel che mi è venuto in mente quando, poco più di un mese fa, è mancato Franco Loi. «Il Paradiso… Ragazzi, che pastura!».
Loi pubblicò quarantacinquenne la sua prima raccolta poetica, Stròlegh (Einaudi, 1975), dopo aver frequentato la letteratura per oltre un quarto di secolo. Già intorno ai vent’anni aveva iniziato a interessarsi alla poesia, grazie anche all’incontro con Giulio Trasanna. Si era dedicato alla politica, sia teorica che militante, aveva lavorato come disegnatore di ceramica, come operaio per le Ferrovie, al Porto di Genova, all’Ufficio pubblicità della Rinascente. Poi era stato assunto all’Ufficio stampa della Mondadori, dove con Vittorio Sereni stabilì un’amicizia fraterna, di quelle che si nutrono di affinità artistiche e di rivalità sportive – interista Sereni, milanista Loi.

«Sardo di nome, genovese di nascita, milanese di adozione, plurimo di origine e di vita» così lo presentava Giovanni Tesio nell’articolo di copertina del numero di “Poesia” di gennaio 2010, festeggiando con l’occasione gli ottant’anni che Loi avrebbe compiuto il ventuno dello stesso mese. Nel suo pezzo Tesio notava che i versi di Loi mescolano il milanese con il dialetto colornese, lingua materna per l’autore di Stròlegh, e con il genovese, dando forma espressiva a un mondo visibile e inconoscibile. «Il mio atteggiamento verso i dialetti è di semplice rispetto di quel che accade quando vengo travolto dalle immagini» scriveva Loi negli autocommenti pubblicati a margine de L’angel. «La mia attenzione consiste nell’appropriatezza della forma alla materia incandescente e incatenatrice dell’inconscio».
Quando alle superiori lessi per la prima volta alcune poesie di Loi, mi trovai da subito di fronte a un modo di cantare e immaginare, a una teatralità discorsiva – ora dialogica, ora affidata all’io, sempre ritmicamente incantatoria – che mi rimandava alla parlata dei miei nonni e dei loro coetanei più di quanto fossero capaci di fare i testi dei grandi autori canonici della poesia milanese, come il Porta e il Tessa. Non saprei dire perché. Oltretutto, il milanese di Loi accoglie arcaismi e termini dotti che poco hanno a che fare con il dialetto popolaresco usato dalle generazioni precedenti alla mia. Certo è che quell’impasto tra nomi propri e concetti metafisici, tra toni sarcastici e dubitativi, quelle parole storpiate, quelle voci bloccate a metà o dilatate, le contaminazioni gergali, l’immediatezza del pensiero, lo stupore per la vita nei suoi aspetti più spassosi o strazianti, il rapporto con il sacro declinato in timore e simpatia verso un Dio che «l’è schersus» («è scherzoso»): tutto questo, mitigato da un elegante equilibrio compositivo, mi restituisce uno spaccato ancora molto presente nella realtà della mia città e del mio tempo.
La Milano di Loi esiste: è fatta di racconti orali e di gente che «la rid, la piang, al scür la scappa» («ride, piange, nel buio scappa»), si sprovincializza prendendo a prestito i modi e le incongruenze della provincia, stipula patti con la morte, la vita, la fantasia. È una città più controversa e, forse, irrisolta della Milano che ho apprezzato in un poeta come Luciano Erba, altrettanto devoto al dettato della memoria. È corale e concitata, illusoria e goduriosa; assomiglia, insomma, a quella paradisiaca pastüra che viene cantata nel verso de L’angel, dove il sostantivo impreziosito dall’umlaut alla meneghina può significare almeno tre cose: il pascere degli animali, il mangime a loro riservato, la prateria dove il gregge si muove.

In un bel ricordo pubblicato su “Città Futura” il cinque gennaio scorso, la poetessa milanese Patrizia Gioia ha raccontato che durante un pomeriggio trascorso nella casa di Loi («a parlare di cose invisibili eppure così toccabili, tanto vere che il gatto stava lì con noi ad ascoltare») l’autore di Stròlegh le aveva confessato di aver amato Lo spirito della parola di Raimon Panikkar. In effetti, i versi di Loi sono spesso sfrenatamente e felicemente spirituali: «De Diu sun matt, se streppa la cunsciensa.» («Di Dio sono pazzo, si strappa la coscienza.»). A volte le sue poesie sembrano comporre un album di figurine teologiche, altre mimano un coro gospel cantato in osteria. Raccontando la compenetrazione tra terra e cielo, Loi sapeva inventare neologismi formidabili. Come la parola “slünada”, con cui in Memoria (Boetti & C., 1991) viene rappresentato quel gioco di trasparenza, movimento e spleen che compie la luna al buio. Per la traduzione in italiano è stato usato il verbo sostantivato “luneggiare”: «Amur che vègn in mí da la slünada, / oh gioia d’acqua che la va tra i vív!» («Amore che viene in me dal luneggiare / oh gioia d’acqua che passa tra i vivi!»).
Loi è un poeta di punti esclamativi, penso ora, rileggendo i suoi versi per preparare questo articolo. Ancora da Memoria: «Che frecc che fa Milan nel carneval!» («Che freddo che fa Milano nel carnevale!»). Da Ümber (Manni, 1992): «Oh tì memoria, e mia gran miseria!» («Oh tu memoria e mia gran miseria!»); «E cume tütt l’è nient! cume respira / la preja due i corp stan sbandunâ!» («E come tutto è niente! come respira / la pietra a cui i corpi stanno abbandonati!»); «Sent cume curr el trenu in mezz i câ!» («Senti come corre il treno in mezzo alle case!»), verso che precede una finezza astronomica con cui il poeta rappresenta il sentimento della malinconia attraverso l’immagine della luce al crepuscolo, detta in milanese “sutürna” perché viene da Saturno. A questo proposito, slünada e sutürna potrebbero essere individuati come i due poli tra cui prendono corpo le atmosfere di parecchi dei più celebri notturni di Loi.
Nell’articolo uscito sul Corriere della Sera in seguito alla notizia della morte del poeta, Paolo Di Stefano ha ricordato che Franco Fortini legava il «tornare indietro» di Loi nel dialetto all’utopia dell’infanzia e dell’adolescenza. Scrittore che amava farsi «trascinare» da una lingua demodé e da reinventare – proprio come le età prime e più remote della nostra vita –, Loi aveva intitolato la sua autobiografia: Da bambino il cielo (Garzanti, 2010). Il cielo… «Ragassi, che pastüra!»: già, il verso che mi è venuto in mente quando ho saputo che l’autore di Stròlegh non c’era più.
Subito dopo ho pensato di consegnare a Facebook un mio omaggio al poeta; ma, come quasi sempre mi succede in casi simili, ho lasciato perdere. A differenza di altre volte, però, a farmi desistere non è stata quella forma gretta di moderatezza che nasconde il timore del giudizio – del commento – altrui. No, a trattenermi dal diffondere via social il mio tributo di stima a Loi è stato un gioco di parole, che si è prolungato fino a quando era ormai troppo tardi per pubblicare il post commemorativo. Il divertimento partiva dall’acronimo RIP, con cui avrei voluto concludere, ma forse anche iniziare, il mio sobrio requiem. RIP, riposa in pace: l’augurio funebre più banale, e dunque sincero, che ci sia. Tuttavia, essendo in questo caso niente meno che Franco Loi a trovarsi nei panni di chi è esortato a riposare, la finale lettera “P” avrebbe potuto dare principio a parecchie parole diverse da pace. Poesia, innanzitutto, e pure prosa. Preghiera. Parola, o parole. Polvere (perché “quia pulvis es et in pulverem revertis” è forse l’unico pensiero sulla morte che mette d’accordo tra di loro atei e credenti; e poi «questa cumparsita de pulverina che la fa insugnà» è un verso meraviglioso e inedito, che Loi regalò a Patrizia Gioia per contribuire a un progetto di letture terapeutiche presso l’ospedale Policlinico). Soprattutto, RIP può voler dire: riposa in Paradiso. Dunque, in quella pastüra che il poeta Franco Loi, con L’angel, aveva visto molto prima di raggiungerla.
La fotografia di Franco Loi in copertina è di Dino Ignani