Libri, cicatrici, strade: Veronica Galletta racconta “Le isole di Norman”

Veronica Galletta, siracusana trapiantata a Livorno, ha vinto il Campiello Opera prima con un romanzo ambientato a Ortigia, Le isole di Norman, pubblicato da Italo Svevo edizioni.

La protagonista è Elena, giovane donna in procinto di iscriversi all’università, ma schiacciata dalla paura di perdere sua madre Clara, afflitta da una forte depressione. Nel tentativo di salvarla da sé stessa, Elena cerca di leggere come una mappa la disposizione dei libri di cui sua madre si circonda: un titolo spostato, una pila più o meno alta potrebbero significare ogni volta uno stato emotivo diverso. Quando Clara scompare, Elena prova a cercarla, senza badare al padre che la crede morta suicida e ormai perduta. Il percorso per ritrovarla diventa un viaggio nella memoria, il tentativo di svelare i segreti e i non detti della famiglia, soprattutto quelli che riguardano un incidente che ha coinvolto Elena da bambina, lasciandola per sempre ferita.

Al centro del romanzo si coglie un forte senso dello spazio. La protagonista ne vive due, uno spirituale e uno temporale, senza mai separarli del tutto. Anche il lettore è trasportato in questo luogo misto. «Galletta elegge lo spazio marino di Ortigia a santuario della memoria e declina in modo limpido e convincente il tema dell’archivio e della mappatura» recita la motivazione del premio. Ortigia è una città nella città, i luoghi e le persone che la abitano diventano mappe, percorsi segreti da esplorare, in cui la dimensione interiore prende corpo: libri, cicatrici, strade.

Foto di Carolina Germini

Ortigia non è solo scenario narrativo, ma rappresentazione fisica della dimensione emotiva di Elena; dipinta tutt’altro che come un luogo da cartolina, la sua bellezza è velata di malinconia e le sue brutture non sono nascoste. Il mare è una presenza costante. In che modo le due città marine della tua vita, Siracusa e Livorno, hanno influito sui temi e le atmosfere del romanzo? 

Sono arrivata a Livorno dopo aver fatto un lungo giro per l’Italia. A oggi è la città in cui ho passato più tempo nella mia vita, seppur io ci abiti da soli dodici anni, e per ora non penso di andar via. Livorno ha diverse caratteristiche che la rendono simile a Siracusa, nel bene e nel male, e per questo in certi giorni mi sento vittima di nemesi, anche se per la maggior parte del tempo considero questo travaso, per il mio immaginario, molto fertile. Le isole di Norman l’ho scritto a Livorno, e quindi inevitabilmente dentro la città marina che ricostruisco, la mia personale Ortigia, c’è non solo l’isola che conosco e ripasso con il ricordo, ma anche la Livorno che frequento, che osservo mi verrebbe da dire. Questo vale per alcuni colori dei paesaggi marini, alcuni azzurri che sfumano nel grigio che ho imparato in questa città, e anche una certa commistione fra bellezza e brutture, per riallacciarmi alla domanda, che in entrambe le città è molto forte. Desideravo molto un effetto tridimensionale, fuori dall’effetto cartolina (che è appunto un oggetto bidimensionale), ed è un effetto che si ottiene decidendo di raccontare le sfaccettature, le stratificazioni, la complessità. Ti ringrazio per quello che mi dici, allora, perché forse questa cosa sono riuscita a renderla.

Elena è una ragazza solitaria, ma la sua tendenza a isolarsi viene continuamente messa alla prova dall’affetto quasi insistente di alcuni personaggi, come se gli abitanti dell’isola non volessero lasciarla andare. È un carattere realistico dell’isola di Ortigia? È qualcosa che hai sperimentato?

Gli abitanti dell’isola, che poi è la gente che Elena incontra nel suo viaggio, sono personaggi, credo, in qualche modo rispettosi. Elena li incontra, ci parla, si confronta solo perché è veramente pronta a incontrarli, a farsi rivelare delle cose da loro, e a rivelarne a sua volta a loro e quindi anche a sé stessa. Anche nella realtà credo sia così. Negli anni in cui ho ambientato il romanzo c’era un forte senso identitario, questo sì, che divideva gli abitanti fra quelli dello Scoglio (come viene chiamata in siciliano l’isola) e quelli di fuori. Una volta riconosciuto come uno dello Scoglio allora interveniva un rapporto diverso, una sorta di dialogo a distanza, un manifestarsi nella necessità.

Foto di Carolina Germini

L’esigenza di mappare, un’esigenza che Elena esprime in molti sensi – osservando la disposizione dei libri in camera di sua madre, concependo le cicatrici sul proprio corpo come cartine, decidendo di esplorare Ortigia come fosse un’isola del tesoro – sembra però alla fine non portare a nulla. È la dimostrazione che è impossibile dare forma all’informe?

È impossibile credere che ci sia un’unica forma possibile per l’informe, che, per definizione, porta dentro di sé molteplici possibilità. Elena ne sceglie una, quella che le è più congeniale, quella che le è forse più utile o dentro la quale si sente più comoda o riesce ad affrontare meglio le cose che le accadono, e che la spaventano molto. Ed è forse vero che sembrano non portare a nulla, nulla di definito, certo, niente che sia cristallizzabile come una verità, ma allo stesso tempo le mappe, la classificazione dei libri, il suo rapporto con i segni che ha sul corpo, la sua ricerca attraverso l’isola, tutto la porta ad arrivare un po’ più in là nella sua comprensione di sé e del mondo. In questo senso io credo che davvero nessun viaggio sia inutile, neanche quello che si fa in tondo a volte, attorno a sé.

Anche la memoria sfugge al controllo di chi cerca di ingabbiarla in un ricordo definito?

La memoria sfugge a tutti, a chi cerca di ingabbiarla in un ricordo definito e anche a chi non lo fa. Noi viviamo in un mondo che è una funzione continua, nella quale ci viviamo guardandoci attorno e immagazzinandola attraverso degli scatti, come scatti di una macchina fotografica, che sono per definizione discreti, finiti. Quando poi ripeschiamo dalla memoria ripeschiamo fotogrammi, con i quali con il racconto riorganizziamo una narrazione di nuovo continua, che è per forza di cose deformata. Se poi aggiungiamo i falsi ricordi, le cose che crediamo di ricordare ma abbiamo ricostruito su racconto di altri, quelle che dimentichiamo per un dolore o che riaffiorano in seguito a un altro dolore, ecco: la memoria sfugge, sì, a tutti. Basta saperlo. Mi viene in mente un bellissimo documentario che ho visto, di Alina Marrazzi, Un’ora sola ti vorrei, in cui ricostruisce (forse non a caso, mi vien da dire) la vera storia di sua madre. Se mi chiedessero cosa è per te la memoria, la risposta ecco sarebbe: Un’ora sola ti vorrei. 

Oltre alla dimensione interiore e a quella geografica, che rimangono sempre in primo piano, Le isole di Norman non trascura quella storica e politica (Michele era un militante del Partito comunista, sullo sfondo si scorgono alcune importanti vicende della storia italiana dell’inizio degli anni Novanta); viene anche raccontata con sensibilità la storia di una famiglia problematica. Si può dire che il romanzo aspiri, come Elena, a mappare la realtà nel modo più completo possibile?

Sì è vero, mi rendo conto che difficilmente scrivo senza parlare anche della storia, quella definita con la esse maiuscola, mescolandola con la quotidianità che vivono i protagonisti delle mie storie. Più che un desiderio di mappare la realtà credo sia un bisogno di agganciarsi alla realtà, anche una realtà completamente immaginata, con eventi quindi che parlano di una storia mai esistita ma comunque collettiva. A volte ci gioco anche, creando rimandi fra dentro e fuori, o cercando di amplificarne i simboli. Mi vien da pensare, pensando a Le isole di Norman, al parallelismo fra la notizia della tempesta perfetta (l’uragano Grace che nel 1991 affondò il peschereccio Andrea Gail in Massachussetts) e lo straniamento di Ortigia deserta nel giorno dei morti, e di Elena che proprio quel giorno si sente dentro a un suo personale occhio del ciclone.

I molti libri che citi nel romanzo – L’isola del tesoro, La montagna incantata, Dottor Zivago, Don Chisciotte e altri – hanno un significato simbolico oltre che affettivo?

Sui simboli che possono avere i libri all’interno di Le isole di Norman non so se ho una risposta che riesca a essere veramente coerente. Per me solo L’isola del Tesoro di Stevenson e Il mio letto è una nave (da cui è tratta la poesia che Elena recita quando è in difficoltà), entrambi di Stevenson, hanno un riferimento chiaro e anche simbolico nella storia. L’isola del Tesoro ha per protagonista Jim, un bambino che affronta una storia di avventura e tradimento con grande coraggio, nella poesia Il compagno invisibile c’è la traccia di Stevenson bambino, e della bambina che Elena insegue nei suoi ricordi. Per il resto, i libri compaiono così come compaiono nella mia vita, forse, e quindi permeano quello che scrivo anche senza che io me ne accorga. Provo a spiegarmi con un esempio. Nel capitolo L’isola dei Cani, Elena lascia un libro di poesie (il preferito dalla madre, dice). È un componimento di Eliot, Il canto dell’amore di J. Alfred Prufrock. Allora se lo prendo, e comincio a leggerne una parte:

Andiamo, per certe strade semideserte,

Mormoranti ricoveri

Di notti senza riposo in alberghi di passo a poco prezzo

E ristoranti pieni di segatura e gusci d’ostriche;

Strade che si succedono come un tedioso argomento

Con l’insidioso proposito

Di condurti a domande che opprimono…

Oh, non chiedere «Cosa?»

Andiamo a fare la nostra visita

Leggo, e mi dico che ecco. Forse in questo c’entra Il canto dell’amore con quello che accade nel capitolo: di condurti a domande che opprimono. 

Ci sono autori e autrici che senti vicini quando scrivi? Quali sono le affinità letterarie volute o scoperte di Le isole di Norman?

Ne sento vicini tantissimi, in maniera sconclusionata e confusa come spesso sono le mie letture, e non è una domanda alla quale so rispondere con esattezza. Non capisco fino in fondo quali siano o quali possano essere autori a me affini. Spesso mi accorgo che mi interessano o piacciono autori davvero lontani a me per stile, per visione, ai quali mi accosto magari perché mi interessano le tematiche: il paesaggio, i bambini, i fantasmi, per dirne alcuni. Per Le isole di Norman ho pensato molto ad alcuni libri, questo sì. L’isola del Tesoro di R.L. Stevenson, che è evidente, ma anche La trilogia della città di K di Ágota Kristóf. E Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, naturalmente, da cui ho anche tratto l’esergo.

Tornerai a scrivere di Ortigia?

Fino a ora tutte le cose che ho scritto hanno sempre riguardato luoghi diversi, magari anche con personaggi che si rincorrono o ritornano, ma i luoghi no. I luoghi cambiano. Forse per il modo che ho di scrivere dei luoghi è come se me ne appropriassi dentro al testo che sto elaborando, fino a consumarli, a esaurirne la capacità narrativa, almeno per me. Quindi per ora no, non credo che tornerò a scrivere di Ortigia. Però chissà, tutto può essere. Ortigia poi è un’isola da non sottovalutare. Può darti idee anche senza che tu te ne accorga, te le passa mentre ci cammini dentro, mentre osservi il mare in movimento da uno dei suoi affacci, o stai seduto su dei gradini della piazza a osservare come ruotano le ombre, via via che il giorno scorre.

Foto di Carolina Germini

Pubblicato da Silvia Valli

Nata a Milano nel 1993, si laurea in Filosofia alla Sapienza Università di Roma; prosegue gli studi specializzandosi in Editoria con una tesi sulle collane filosofiche curate da Croce e Gentile per la casa editrice Laterza. Ama leggere e fare gite in montagna; il suo luogo dell'anima è un paesino sperduto in Valle d'Aosta.

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