Quando nel gennaio 2018 la Bangkok University inaugurò all’interno del proprio City Campus una biblioteca di soli testi italiani, intitolandola a Tiziano Terzani, Angela Staude commentò così la notizia: «È sorprendente vedere come un filo leghi Firenze a Bangkok». Penso al filo di cui parla la vedova Terzani, provo a disegnarlo sull’Atlante. Ho visitato Bangkok tre anni fa. Da allora continuo a incontrare europei innamorati, come me, di questa megalopoli asiatica. Perché ci piace Bangkok?
Perché è assurda, ma non come lo sono certe città occidentali, che piano piano impari a conoscere. Bangkok sembra collocarsi in un centro del mondo posto fuori dal mondo. Non riuscirai a capirla davvero. Mai. Dentro ci trovi tutto ciò che avevi immaginato più quello che non avresti potuto indovinare. Nuvole di grasso che frigge e acqua color zuppa di piselli. Scoiattoli corvini con la coda per metà giallo canarino. Serpenti nelle aiuole, varani ai bordi delle strade, gatti nei templi. Le stesse voci si prestano a canti silenziosi e a grida intimidatorie. Come nel caso dei monaci, che si trasformano sotto ai tuoi occhi: prima sono asceti lillipuziani con il loro ombrellino, un istante dopo diventano replicanti che corrono per strade strappate alla Los Angeles ibridata con Tokyo nel primo Blade Runner.

Bangkok parte dal cielo e si abbassa più che può, dà l’impressione che i suoi palazzi siano stati costruiti cominciando dall’ultimo piano. Ma se provi a scalarli con lo sguardo, le tettoie t’impediscono di capire quanta città c’è sopra la visiera del tuo cappellino. Non esiste scorcio che possa essere imprigionato in una fotografia: quando scatti, sai già che stai tagliando fuori qualcosa. Il turista-geografo – quello che ama cartografare arcipelaghi, savane, canyon e metropoli – potrebbe decidere di smettere per sempre di viaggiare, una volta giunto a Bangkok. Per la disperazione, oppure perché ha trovato un da fare che durerà più della sua vita.
È tutto così simile e così diverso. Ogni architettura, negozio, tuk-tuk. I taxi: verde bottiglia e giallo, verde avocado e fucsia, alcuni con strisce bianche sulla carrozzeria, altri con strisce verde menta; quasi tutti Toyota. Ma più che i colori, a Bangkok sono importanti le sfumature: quelle grigio-rosate dei marciapiedi, i bagliori trasparenti delle insegne a luce elettrica, l’ombra dei grattacieli sul Chao Phraya o su piccoli canali che sembrano fatti di carta velina.

Film come Bangkok dangerous e Una notte da leoni 2 hanno creato attorno a questa megalopoli un immaginario hollywoodiano, che funziona in quanto bugia rivelatrice. Perché il tratto essenziale di Bangkok è dar spettacolo senza raccontartela tutta. Come ogni seduttrice, dopo averti infatuato mantiene un riserbo che sa di bluff. È attrice e mistificatrice, ama fare mostra di sé (la città più visitata al mondo) e al tempo stesso è gelosa dei propri segreti. Non si lascia definire, la capitale thailandese. Nel vano tentativo di chiamarla, i popoli asiatici inventano da secoli nomi nuovi e diversissimi. Uno di questi è entrato nel Guinness dei primati per la sua lunghezza: 168 lettere (che in base alle traslitterazioni possono diventare 175) e 21 parole.
Questa spinta a rinominare e rinumerare agisce anche sulla toponomastica della città e, soprattutto, sul modo di interpretarla dei suoi abitanti. Se chiedete informazioni per muovervi dentro a Bangkok – e se avete l’abilità o la fortuna di riuscire a spiegarvi in quella mescolanza di lingue che produce una sorta di slang anglo-qualcosa con fonetica zen: da succhiare tipo caramella balsamica più che da parlare – difficilmente riceverete le stesse indicazioni da persone differenti. Nomi, numeri e indirizzi cambiano di voce in voce; poi ti rendi conto che ogni abitante del posto ha una sua strada, e un suo modo di raccontartela, per farti arrivare nel medesimo punto. Puoi girarla guida alla mano una città così? No: la cosa migliore da fare a Bangkok è perdersi. Anche per questo ci piace.

Dicevamo di Terzani, che abitò nella capitale thai dal 1990 al 1994, meritando di essere considerato un ambasciatore letterario del vecchio continente presso l’antico Siam. Lo scrittore europeo nel quale ho ritrovato la Bangkok che piace a me, però, è Lawrence Osborne. Flâneur britannico con il pallino dell’Asia, Osborne è un erede d’inchiostro del grandissimo William Somerset Maugham. Nel 2009 ha dato alle stampe un libro intitolato Bangkok, edito in Italia da Adelphi. Groviglio di divagazioni o somma di aneddoti, resoconto autobiografico o catalogo di bugie sfolgoranti, si tratta in ogni caso di un’opera difficilmente catalogabile. Non è un diario di viaggio, né uno studio sulla cultura thai. Più che a un Chatwin potrebbe assomigliare a Lo spleen di Parigi baudelairiano, ma vagamente e in veste romanzesca. Del tutto strambo poi è il narratore di Bangkok: una sorta di eremita laico immerso in una megalopoli politeista. Un camminatore notturno, non esente da spinte vitalistiche e solidali, ma comunque destinato a una solitudine che non ha niente di solenne o significante.
La sua è la condizione di chi “si è dato alla macchia”, espressione da gangster dei tempi andati sotto la cui aura noir comincia l’intreccio di avventure di questo libro. Togliersi di torno, sparire. È quello che fa il nostro eremita, confondendosi tra i milioni di sguardi che attraversano la città in cui si trova a latitare. Volete diventare dei fantasmi? Andate a Bangkok, sembra dirci. Poi cita Maugham, che della capitale thai scrisse: «Se qualcosa di così fantasmagorico esiste, dovremmo solo esserne grati». Di fantasmi ce ne sono tanti tra le pagine di Osborne. Scorrendole si finisce dentro a una galleria di personaggi spettrali. Tipi con i loro scheletri nell’armadio, buffi e pieni di asperità, sempre pronti a scomparire. Farang. Europei che amano Bangkok. Tutti che devono nascondere qualcosa: spesso se stessi.

Se da una parte Bangkok è un libro di esplorazioni e scoperte, dall’altra diventa presto una storia di sedentarietà e rifugi, di indolenza, di movimenti abbozzati e incompiuti, che girano pigramente su sé stessi tra drink, passeggiate nel buio, qualche concessione all’edonismo e alla voluttà. Non è però un omaggio al radicamento, Osborne parte infatti dalla disperanza di chi se ne va. Ecco l’incipit: «Qualche anno fa vivevo in un quartiere che si chiamava Wang Lang. Da dove siedo adesso, con davanti agli occhi i treni per Manhattan che sfrecciano sul ponte di Brooklyn, il mio terrazzo sul fiume a Bangkok sembra un paradiso perduto, per sempre».
L’escamotage di raccontare una città a partire da un’altra rispetta le regole del gioco di Bangkok, le sue fascinazioni metamorfiche, il suo rimandare, spesso in modo stregonesco, ad altro. Il riferimento alla Grande Mela, poi, mi riguarda: ho visitato la capitale thailandese nel 2017, nello stesso anno ho fatto il primo viaggio negli Stati Uniti, proprio a New York, e da allora la mia personale classifica delle città più belle del mondo – sin lì spudoratamente eurocentrica, dato che vedeva sul podio Roma, Parigi e Edimburgo – è cambiata.
Wang Lang è dunque perduta, come un paradiso, e ora, davanti ai treni per Manhattan, al nostro eremita è consentito soltanto vagheggiare quel pigro rifugio. Osborne non poteva scegliere attacco migliore per introdurci a Bangkok: una città che ami, ma che non sarà tua. Forse non è nemmeno di chi ci è nato dentro. Forse appartiene a chi non si vede: ai fantasmi – quelli veri, come lo spirito di Si Ouey, infanticida giustiziato con uno sparo al cuore, che vaga per il Siriaj Hospital di Thonburi – o ad altri esseri ancora (Krung Themp, il più celebre antico nome della capitale thai, significa “città degli angeli”). Puoi maledirla o farne il tuo Eden, perderla e ritrovarla, averne nostalgia, abitarla o non tornarci più. Lei comunque non si lascerà prendere. Mai.
Cosa c’è di più bello di una storia d’amore e inseguimenti? Nothing – anzi, alla thailandese: no tin. Ecco perché ci piace Bangkok.

Foto di copertina: Pakinee Yuenyow