“Monsieur Pigeon”: la Parigi di Giuseppe

Ho trovato più pericoli tra gli uomini che in mezzo alle bestie, perigliose sono le vie di Zarathustra. Possano guidarmi i miei animali!

Friedrich Nietzsche

A Parigi andavo tutti i giorni a studiare nella biblioteca del Centre Pompidou. Eravamo sempre tanti in fila per entrare. E capitava di stare anche un’ora là fuori, al freddo. Non c’erano solo studenti ad aspettare ma anche senzatetto, che in quello spazio trovavano non solo un luogo protetto, qualcosa che assomigliava ad una casa, ma anche una possibilità. Un accesso illimitato alla cultura, al sapere, all’informazione. Per arrivare lì attraversavo tutte le mattine Place George Pompidou e più di una volta sono rimasta ferma, sorpresa e incantata nel vedere un uomo completamente ricoperto di piccioni. Allora non sapevo che si chiamasse Giuseppe né avrei mai immaginato che qualcuno stesse pensando di girare un documentario su di lui. A qualche anno di distanza da quelle mattinate parigine, scopro il lavoro realizzato da Antonio Prata e, cosa ancora più sorprendente, che nei prossimi giorni sarà proiettato per la prima volta in Francia, proprio a Parigi, al Cinema Saint-André des Arts.

Voglio saperne di più di questa storia. Così, in un pomeriggio di pioggia a Roma la mia linea si aggancia a quella di Antonio, che è in Svizzera, per la precisione a Lugano.

Come è arrivato Giuseppe nella tua vita? 

Tutto è partito da alcune fotografie di Nevia Elezovic, che vidi a Lugano ad un’esposizione che era stata organizzata proprio per raccogliere fondi per Giuseppe. Erano delle Polaroid in bianco e nero che lo ritraevano in azione e lo coglievano nel gesto della semina, mentre spargeva il grano per nutrire i piccioni. Ho subito riconosciuto in quel movimento qualcosa di antico, che mi riportava al mondo contadino, a cui i miei nonni appartenevano. Quegli scatti mi hanno immediatamente comunicato qualcosa di forte, tanto che ho sentito il bisogno di conoscerlo. Così ho chiesto a Nevia di accompagnarmi a incontrarlo a Parigi. Non mi sbagliavo. Ci siamo trovati subito. Avevamo qualcosa in comune. Sono figlio di immigrati, che si sono trasferiti dall’Italia in Svizzera.  Anche lui, come loro, ha lasciato il suo Paese e la sua terra, la Calabria, in cerca di fortuna in Inghilterra ma poi si è fermato a Parigi, dove ha deciso di restare e da lì non se n’è mai andato. In quel periodo cercavo delle figure forti, dei riferimenti, esattamente come Giuseppe. La sua presenza mi ha aiutato a superare un momento difficile, mi sono perso nel suo mondo e ci ho rivisto anche un po’ della mia storia… 

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Dopo questo primo incontro, come ti è venuta l’idea di girare un documentario su di lui?

È stata immediata e molto naturale. Una volta rientrato in Svizzera, mi sono dato subito da fare e ho contattato una distribuzione che ha subito accolto l’idea con entusiasmo. E appena ho potuto sono tornato in Francia per girare. Era il 2015, come sai, un anno difficile per Parigi. Pensa che con la mia troupe abbiamo cominciato le riprese cinque giorni prima dell’attentato al Bataclan del 13 novembre. In giro c’era un’atmosfera di grande tensione e le strade erano praticamente vuote. Ma abbiamo deciso di restare. L’ho fatto soprattutto per Giuseppe. 

Nel documentario intervisti molte persone del quartiere che però non compaiono mai. Sentiamo solo la loro voce. Come mai questa scelta?

Volevo in qualche modo mostrare come quelle tante voci fossero anche le nostre, le voci del sentire comune (di fatto del non sentire), della coscienza che rifiuta di comprendere e di accogliere un personaggio come Giuseppe. Ho trovato Parigi una città molto respingente, in cui mi sono sentito particolarmente spaesato. Di mio cerco spesso questo tipo di sensazione ma lì è stata davvero molto forte. Si avverte la fretta, la competizione. È difficile sentirsi a casa. Nonostante questa ostilità che ho avvertito da parte della città, quei giorni sono stati magnifici perché li ho condivisi, oltre che con Giuseppe, con la troupe, persone con cui ho avuto la fortuna di trovarmi molto bene sia umanamente che professionalmente. Il nostro è stato davvero un lavoro collettivo dall’inizio alla fine. Penso a quanto è stata importante la figura di Lara Fremder per la scrittura iniziale e per la supervisione al montaggio. E poi Giorgio Carella come direttore della fotografia, Stefano Mosimann per il suono in presa diretta e Veronica Scotti che si è occupata del montaggio. Ma ci tengo anche a ricordare le produttrici: Silvana Bezzola-Rigolini della RSI, senza di non avremmo trovato i fondi per iniziare il lavoro e Tizina Soudani diAMKA Films, che amava molto questo progetto. Purtroppo ci ha lasciati proprio nei giorni in cui il film esordiva in sala a Soletta. Stava ormai molto male e non le fu più possibile vedere il film sul grande schermo.

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Nell’unica scena girata in uno spazio al chiuso, nella casa in cui viene ospitato, Giuseppe si apre molto con te e con una certa rassegnazione ti dice che se non si fa niente non si cambierà mai niente. 

È l’unico momento in cui parla dei figli, di sé, della sua famiglia. Ma quando dice questo non si riferisce solo alla sua situazione. È un discorso molto più grande. Giuseppe vive questa sua scelta come una missione. Non si arrenderà mai, come dice lui, vivrà così fino all’ultimo battito d’ali.

Questa ostilità dei parigini verso i piccioni nasconde in realtà qualcosa di più profondo. Cosa rivela?

L’incapacità sempre maggiore di confrontarci con il diverso, con l’emarginato, con chi, a causa dei nostri pregiudizi, diventa per nostra scelta qualcuno da condannare. Il piccione è percepito come un topo che vola. Eppure nella storia sono stati grandi amici dell’uomo, oltre che messaggeri. Devo dire che il disprezzo che c’è nei confronti del piccione mi ha veramente impressionato così come verso i clochards.

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C’è qualcosa che però contrasta con questo disprezzo ed è l’elemento della cura, quella di Giuseppe nei confronti di questi animali.

La cura in Giuseppe ci rivela molto di lui: il suo essere stato padre, marito. Il concetto di famiglia in lui è molto forte. Probabilmente una famiglia ormai persa, ma in lui resta. Oltrepassare quella corteccia di protezione che è tipica di chi vive sulla strada da tanto è stato possibile proprio quando lo abbiamo visto curare gli uccelli. Nella cura c’era tutto: la sua premura di padre e la sua natura di artista. La cura per lui è un’ossessione perché come ogni artista ne ha una. La sua è questa.

Tra qualche giorno il tuo documentario sarà proiettato a Parigi. Lo avresti mai immaginato mentre lo giravi?

L’idea iniziale è sempre stata quella di poter tornare a Parigi grazie a qualche rassegna o festival. Ma poi, conoscendo meglio la città, ho capito che non sarebbe stato così facile. Dopo averlo presentato al pubblico della Svizzera italiana, pensavamo che il suo percorso di distribuzione fosse finito, invece poi è arrivata del tutto inaspettata la chiamata del Cinema Saint-André des Arts e devo dire che ne sono stato molto contento. Sono curioso di vedere come reagiranno i parigini e soprattutto come reagirà Giuseppe, anche se lui non ci sarà. 

Ma a lui lo farai comunque vedere?

Sì, porterò il computer e lo guarderemo nel suo furgone. Devo ammettere che solo all’idea mi emoziono parecchio.

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Il documentario, prodotto da AMKA Films, verrà distribuito in tutta la Francia e sarà proiettato a Parigi, al Cinema Saint-André des Arts dal 12 al 28 dicembre.

Pubblicato da Carolina Germini

Nata Roma il 24/09/1993. Si laurea in Filosofia alla Sapienza con una tesi su Gilles Deleuze lettore di Proust. Durante l'Università fa due esperienze Erasmus presso École normale supérieure di Parigi, dove si trasferisce dopo la laurea e dove insegna Filosofia ai bambini. Collabora e scrive regolarmente per diverse testate e riviste e ha da poco fondato Tre Sequenze.

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