Entrando nel Palazzo delle Aquile, nella splendida Piazza della Vergogna a Palermo, si incontra un vecchio barbuto e incoronato. È la statua del Genio di Palermo, genius loci e sorta di patrono laico della città, complementare a Santa Rosalia. Un serpente gli morde il petto, e una scritta in latino campeggia ai suoi piedi: «Panormus conca aurea suos devorat alienos nutrit». Palermo conca d’oro divora i suoi e nutre gli stranieri.
Le sue rappresentazioni sono disseminate per i vicoli e per le piazze del capoluogo siciliano: espressione di una spiritualità popolare antica, il Genio è riuscito a intrufolarsi persino tra i maestosi mosaici della Cappella Palatina. Solo ad inseguirle tutte si potrebbe tracciare una prima mappa della città. Ciò che colpisce nella misteriosa e polivalente simbologia – associata alla fecondità e al continuo rinnovamento innescato dal contatto con diverse culture – è quel verbo, “divorare”. Un verbo che presuppone un ventre che dà alla luce e che riporta a sé ciò che ha generato, in maniera fagocitante e cannibalica.

È in quella cavità che si addentra Palermo di carta. Guida letteraria della città (2019) di Salvatore Ferlita, pubblicata da il Palindromo, e giunta alla sua seconda e aggiornata edizione “plus”. Il testo fa da apripista a una collana proposta dalla casa editrice palermitana, dedicata a una mappatura letteraria degli spazi urbani. Alla guida su Palermo sono seguite quelle su Catania, Roma, Milano, Torino, Genova e Trieste, città che attraverso la parola d’inchiostro diventano «mobili, irrequiete», venendo «riplasmate, rifondate, reinventate» da un immaginario «più resistente al passar degli anni che la loro architettura e la loro storia».
L’autore – docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università degli studi di Enna “Kore” e critico letterario – offre allora una bussola per orientarsi tra le pagine di oltre trenta scrittori, che con la loro penna sono stati capaci di interpretare la «stratificazione di significati» e la «trama sottile» del tessuto urbano.

Utilizzando la metafora biologica suggerita da Ferlita, uno degli itinerari possibili prende avvio dalle “viscere” della città, che non sono, come si potrebbe immaginare, quelle dipinte in colori accesi nella Vucciria di Guttuso, o quelle che si trovano appese nella confusione del mercato popolare del Capo. Anche se, per una casualità ricca di suggestioni, è proprio in quest’ultimo quartiere che viene rintracciata la dimensione cupa e sotterranea del “ventre di Palermo”.
È infatti nel «sottosuolo rigoglioso della città» che, in un intrico tra sfera politica e religiosa, si muove la tenebrosa setta de I Beati Paoli, le cui gesta mirano a punire i potenti e a tutelare i deboli. Luigi Natoli attinge a un mito formatosi sul finire del diciottesimo secolo e, pubblicando il romanzo in appendice al Giornale di Sicilia tra il 1909 e il 1910 con lo pseudonimo di William Galt, ne fa un propulsore narrativo potentissimo.
Lo scrittore ricostruisce meticolosamente la topografia della Palermo settecentesca, dando vita a una città parallela e occulta, fatta di cripte e cunicoli tortuosi: il tribunale dei Beati Paoli viene collocato in una grotta nei pressi della Chiesa di Santa Maruzza, a poca distanza dal luogo in cui oggi sorge il Palazzo di Giustizia. I temibili giustizieri incappucciati vengono definiti da Natoli «uno Stato dentro lo Stato, formidabile perché occulto, terribile perché giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire»: da questo, probabilmente, deriva l’ambigua e condannabile appropriazione da parte di alcuni mafiosi – tra cui il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta – della leggenda dei Beati Paoli come mito fondativo della mafia stessa.

Molto più interessante, per la costruzione di una “Palermo di carta”, è l’eredità letteraria di questa storia enigmatica. Il primo a raccoglierla a piene mani è Fulvio Abbate. Ale e Dario, i due protagonisti di Zero maggio a Palermo (1990), abitano nelle “zone nuove” della città – in via Sardegna e in via Monte Cuccio –, ma la curiosità per i misteri topografici di Palermo li spinge a frequenti incursioni nel centro storico. Si recano principalmente all’Albergheria, dove si svolge la maggior parte del libro di Natoli, e alle Catacombe dei Cappuccini, che con le file di mummie appese e «malridotte, con gli abiti divorati dall’umidità», rappresentano un’altra suggestiva e sotterranea fucina dell’immaginario palermitano.
Il libro di Abbate è un testo “bifronte” – come lo stesso scrittore lo definisce in una nota pubblicata tredici anni dopo la prima edizione –, in cui convivono sia l’intento sentimentale-topografico del romanzo di formazione, sia la sperimentazione di un nuovo genere narrativo, quello dell’affabulazione civile. In queste pagine, infatti, «Palermo e il sogno di un’altra vita (che qui, per brevità, chiameremo “comunismo”) sono obbligati ad abbracciarsi nello stesso condominio».
In una città colta nel mese ideale di maggio, quando il cielo azzurro si staglia oltre i palazzoni e le strade sono invase dal profumo di «gelsomino, zagara, pitosforo», Ale e Dario militano in una sezione di quartiere del PCI, all’inizio degli anni Settanta. Nel suo “quartiere senza nome”, Ale si sforza di spiegare che «tutte le rivolte sono giuste», e sul piazzale di fronte a casa vede passare e fermarsi la storia: di notte si alza dal letto e dalla finestra vede che «si spostano le truppe cinesi e sovietiche dai confini del fiume Ussuri (…), si posa la nebbia su Piazza Fontana, appare la foto del cronista de “L’Ora” scomparso a Palermo, trema Gibellina nella valle del Belice». Se i due amici sono coinvolti dalla fibrillazione che li invita a partecipare al movimento storico, allo stesso tempo sono profondamente affascinati dagli strati più arcaici e mitologici della loro città. Monte Pellegrino è infatti «un brontosauro che si stende fino a toccare il mare», e Dario certe volte ci sale fino in cima: lascia un cero a Santa Rosalia e prega proprio perché lo aiuti a trovare il tesoro dei Beati Paoli.

L’ironia che filtra l’intero racconto di Abbate è invece assolutamente bandita dai tre ragazzini protagonisti de Il tempo materiale (2008) e dalla crudissima scrittura di Giorgio Vasta. Palermo è in questo caso selvaggia e preistorica, avvertita come un «paesaggio geroglifico». Il centro storico è «la geenna del fuoco», le balate della pavimentazione sono «sepolcri» e «pietre tombali», su cui si trovano carcasse abbandonate di animali.
È il 1978 – anno del rapimento di Aldo Moro – quando Nimbo e i suoi compagni Bocca e Scarmiglia iniziano a subire un’irresistibile attrazione nei confronti della Capitale, di quella Roma «famelica che da mesi esplode sui giornali e in televisione». I tre undicenni cominciano così ad allenarsi a una feroce disciplina, che passa innanzitutto attraverso il linguaggio: «parlare in italiano, parlare complesso, per noi vuol dire andarcene». È la lezione dura, geometrica e ideologica delle Brigate Rosse e dei loro comunicati quella a cui si ispirano. E con i crani rasati e l’invenzione di un loro alfabeto, segnano una linea di demarcazione dagli altri palermitani «gutturali, gastrici», il cui dialetto provoca «una continua raschiatura di parole nella gola e nella pancia».
Nimbo e i suoi amici si muovono come eletti tra le strade di Palermo, la cui topografia è studiata in maniera scientifica, perché la città possa diventare «il teatro delle loro azioni». Progettando con inquietante lucidità i loro attentati, tra Villa Sperlinga, Viale delle Magnolie e “la radura”, i tre giovani riproducono in scala il peso tragico degli Anni di Piombo. L’utopia sognata dai protagonisti di Zero maggio a Palermo viene così a disgregarsi brutalmente, sostituita da un esito radicalmente distruttivo.

La distruzione e la rovina sono forse «parte integrante dello sguardo» di chi nasce a Palermo. O almeno così scrive Davide Enia nella nota che accompagna il suo Maggio ’43 (2013). Pensato come monologo per il teatro, questo “cunto” prende avvio dal bombardamento aereo americano che il 9 maggio ’43 rade al suolo il centro storico di Palermo, al punto che «non ci sono più le case, tutte quante jittàte ‘nterra. Tutte. Tranne pochissime, in piedi per metà. Che ci si vede dentro (…). Le strade? Non ci sono più strade. È tutto un arrampicarsi, salire e scendere sopra macerie, balconi, alberi, vetri, terra. (…) A Piazza Magione sono sparite settanta case in quattro secondi».
Il corpo di Enia, in scena, si fa attraversare dalle voci protagoniste di questo racconto: nei suoi movimenti prendono vita le imprese di Gioacchino, Zu Cesare e Umbertino, le violenze della milizia fascista, la sirena che suona ogni sera, e infine la «sassuliàta di bombe», di fronte alla quale piangono anche quegli uomini che non piangono mai. Nonostante il dramma reale e simbolico, «c’è tutta una vita da vivere sotto il bombardamento», e la famiglia al centro della storia riesce a salvarsi e a “vincere” la guerra con piccoli espedienti, allo stesso modo in cui si gioca e si bara alle carte.

Nel disegnare la «geografia martoriata» del centro, l’autore descrive il grembo della città come «un’inesausta distesa di macerie che vanno a sommarsi ad altre macerie». Ed è con le macerie stesse che i palermitani hanno cercato di suturare quella ferita che, oltre ad aver inciso tragicamente sulle loro esistenze, ha mutato per sempre l’immagine conosciuta della città: il Foro Italico è stato creato gettando in mare i detriti di quel bombardamento. Con quel gesto, Palermo «ha voltato le spalle al mare, tutt’oggi lo nega di continuo, come se avesse paura che dalla linea d’orizzonte potesse tornare la morte, ancora una volta».
Come in un paziente scavo archeologico, Salvatore Ferlita rileva dunque i molteplici strati di “carta” che si sovrappongono nella costruzione – e nella ricostruzione – dell’immaginario della città, strati in bilico tra un passato arcaico, la memoria storica e possibili futuri. Tra gli altri nomi in cui ci si imbatte in questa dettagliatissima guida – ciascuno dei quali segna un differente percorso sulla mappa di Palermo –, vanno senz’altro ricordati quelli di Roberto Alajmo, Niccolò Ammaniti, Marcello Benfante, Vincenzo Consolo, Emma Dante, Michele Perriera, Leonardo Sciascia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Oscar Wilde.
La letteratura palermitana sembra allora indugiare e ripiegarsi sulle miserie e sulle rovine della città e del suo ventre, per poi augurarle, con le parole di Enia, il coraggio di “tornare a guardare il mare”. Quel golfo e quella “conca aurea” che sono sinonimo di apertura, e che appartengono intimamente al corpo di Palermo e all’iconografia del suo Genio.

L’immagine di copertina è di Claudio Kamel.
Una opinione su "Palermo di carta, sotterranei e macerie"