Scrivo quest’articolo seduta alla scrivania della mia camera da letto, ormai non più propriamente infantile ma neanche pienamente adulta: la conformazione sinuosa e giocosa delle spalliere dei letti (il mio e quello di mia sorella), il cui colore verde pastello si riflette sugli armadi e infine sulle scrivanie, mescolandosi al colore rassicurante del legno, racconta ancora la precisa scelta di mia madre. La vedo in quel negozio d’arredamento, lontano nella memoria e nello spazio, scegliere accuratamente gli oggetti che avrebbero accolto il sonno – i compiti, le delusioni, le riflessioni, i successi – delle sue due figlie; se mi concentro bene posso sentirla contrattare con il venditore per il prezzo migliore, aggiudicandosi – come sempre – la partita.
Qui, sul lato sinistro della stanza, quello più a sud-ovest di tutti, la mia scrivania: il computer fisso, la libreria a scomparti rettangolari pieni zeppi di libri e cd accumulati negli anni, ma soprattutto le foto. Tra cartoline provenienti da viaggi intrapresi personalmente o ricevute da chi mi ha voluto rendere partecipe dei propri, ci sono le foto in bianco e nero dei miei nonni paterni. La prima: un giovane Giorgio (ben lontano dal diventare nonno) sorride bellissimo e vestito di tutto punto verso l’obiettivo. È seduto sul tettuccio di quella che immagino essere la sua prima auto, una cinquecento anni ’50, braccia incrociate e sigaretta alla mano. La seconda: i miei futuri nonni durante il viaggio di nozze. Lei, Flaminia, sorride avvolta in un foulard bianco, lui guarda in alto, posa d’attore. La terza, la più significativa di tutte: seduti a tavola, diciannovenni entrambi, si guardano, mentre mio nonno cinge con il braccio le spalle di mia nonna. In quello sguardo per me risiede il significato della vita.

Le ho posizionate qui come degli amuleti, che mi riportano sempre dove voglio tornare quando c’è il rischio che mi possa perdere. In loro riconosco le mie radici, la mia casa. D’altra parte lo scrive anche Guccini che la nostra casa è «la casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre, come tu la sai e tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l’anima che hai». Mi sembra che ci sia una buona analogia con il lavoro che Luca Molinari, architetto, docente, scrittore e più o meno consciamente antropologo, ha realizzato con Le case che siamo, la cui prima edizione per Nottetempo risale al 2016. Come suggerisce bene il titolo, questo saggio ci spiega chiaramente che le nostre case altro non sono che la proiezione di noi stessi, ripercorrendo varie fasi storiche dell’architettura e i modelli culturali che le hanno ispirate.

La casa è habitus, che per Molinari significa «l’abitare ma anche l’abito che portiamo-ci protegge e rappresenta come persone e, insieme, come cittadini». Il nostro rifugio e allo stesso tempo il segno riconoscibile della nostra individualità che interagisce con il mondo circostante. L’habitus è un concetto principe nella cosiddetta Antropologia della contemporaneità, in cui nessun fatto culturale può prescindere dal contesto in cui viene prodotto che, a sua volta, fa parte di un contesto più ampio, globale, che ci riguarda tutti poiché strettamente interconnessi. Pierre Bourdieu, sociologo francese del secolo scorso, definisce l’habitus come struttura strutturante: il modo con cui ognuno di noi esprime attraverso azioni e pensieri il proprio posto all’interno delle relazioni sociali che compongono il nostro mondo, che, allo stesso tempo, costruiscono e influenzano questo nostro comportamento individuale.

Il concetto di casa, e di conseguenza la sua manifestazione strutturale, è stato poco indagato dagli studi di settore, che avevano preferito, per lo meno fino all’anno di pubblicazione di questo libro, parlare di spazi pubblici, di riqualificazioni di quartieri e di intere città, porre l’attenzione sulla vita umana aldilà della soglia privata, custode di quel mistero affascinante che è la vita quotidiana di tutti noi. Molinari decide di indagare questa dimensione spaziale familiare per sviscerarne significati culturali e sociali il più delle volte lasciati riposare nell’ombra di uno scantinato o vicino al camino del salotto.
«Quando pensiamo alla parola “casa”, si materializzano sorrisi, rimpianti, dolori, odori, gesti elementari e segreti depositati nella nostra mente grazie alla consuetudine che solo la quotidianità può generare. La casa non è più solo un luogo definito ma è diventata un nuovo paesaggio, uno spazio pubblico in cui si realizzano le nevrosi e le idiosincrasie contemporanee e attraverso cui cercare di leggere frammenti possibili della nostra vita futura».
Molinari passa così dal raccontarci della casa solida, complice dell’affermarsi della classe borghese durante il XIX secolo, protagonista della fuga dalla metropoli per cercare l’illusione del ricongiungimento con una Natura finalmente addomesticata, tramite la costruzione di cottage e ville di campagna, alla casa dominante. Questa ultima, posta sul punto più alto del villaggio, poi diventato città, per il «desiderio irresistibile di innalzarsi dal suolo comune» e marcare il territorio e quindi il potere di una determinata casata o di un diritto che proveniva direttamente dalla divinità.
L’autore continua parlandoci di Thomas Jefferson, influenzato dai Quattro libri del Palladio, che si ispira alle raffinate ville venete per i primi disegni della Casa Bianca di Washington, ci introduce a quella ricerca di trasparenza raggiunta magnificamente nella Maison de Verre, costruita dall’interior designer Pierre Chareau e dall’architetto olandese Bernard Bijvoet, nel cuore della Parigi medievale nel 1926, e poi cita Le Corbusier con la finestra a nastro, ponte tra la casa tradizionale e la trasparenza assoluta. Ma Molinari ci racconta anche le concezioni democratiche nascoste dietro alla progettazione e ideazione dei quartieri popolari negli anni del boom economico, e delle case senza radici, nate per sposare il gusto per l’esplorazione dell’essere umano e costituire un rifugio sicuro seppur in movimento continuo.
Le case che siamo oggi ci parlano di un mondo interconnesso, che ha sfondato i muri portanti, scoperchiato i tetti e spalancato le finestre grazie al nostro utilizzo della rete, con tutte le semplificazioni e tutte le preoccupazioni che questo può portare. La sfera tra pubblico e privato si è assottigliata considerevolmente fino a scomparire, portandoci a viaggiare perfino in luoghi lontanissimi da noi, rimanendo comodi sulla nostra poltrona preferita. L’abbiamo capito in quest’ultimo periodo, che ci ha visti costretti a passare molto tempo nei nostri piccoli mondi privati a causa della pandemia generata dal Covid-19, facendoci scoprire segreti e storie che queste piccole mura celavano in attesa di un occhio e di un orecchio più attenti. Siamo dovuti scendere a patti con noi stessi, non siamo potuti fuggire da quei piccoli tormenti che in tempi più tranquilli potevamo affogare ubriacandoci di una collettività ricercata e indispensabile, data dalla frenesia delle nostre vite abitate fuori, nella città.
Siamo stati costretti ad abitare con noi stessi, e la rete è stata l’unico mezzo che ci ha permesso di evadere e di condividere le nostre fragilità.
«Per questa ragione a noi tutti sembra di impazzire stando nelle nostre case “sicure”: perché nel profondo sentiamo che senza la libertà della città, dei suoi limiti e delle sue possibilità, non potremmo dare un limite adeguato all’abisso infinito in cui il nostro ego rischia di cadere, se lasciato solo a gonfiarsi all’interno delle mura domestiche in costante confronto/scontro con altri ego compresenti, malgrado i vincoli di sangue ed affetto».

Case finalmente abitate e città deserte hanno messo in luce tutti quei protagonisti silenziosi che abitualmente non riconosciamo: migranti senza permesso e senzatetto che non hanno più riparo, ragazzi dei servizi di delivery e tutte quelle persone che devono continuare a lavorare per far funzionare una città in tempo di quarantena. Nell’edizione aggiornata della sua opera, pubblicata nell’estate del 2020, Molinari dà la sua personale visione delle città che saremo: concentrate sullo sviluppo delle soglie, tramutandole da aree di separazione e confine in occasioni di confronto e di comunità, come «anticorpi alla separazione e ai muri alzati in nome dell’igiene», a sancire come i luoghi e il loro senso non possano prescindere dalle relazioni sociali. E come dargli torto?
