Romanzo di una crisi contemporanea: “Era una città” di Thomas B. Reverdy

Detroit una volta era una città, ma nel settembre 2008, quando il romanzo di Reverdy comincia, non ne rimane che uno sfocato ricordo: case abbandonate, fabbriche vuote, scuole chiuse. È l’effetto di una crisi finanziaria, industriale ed economica che vede la Lehman Brothers annunciare bancarotta a New York, e le grandi città industriali chiudere i battenti nel silenzio ovattato da paura e incertezza.

Scritto dal francese Thomas B. Reverdy e pubblicato in Italia nel 2017 da Edizioni Clichy, Era una città racconta di Detroit, coprendo un arco temporale di appena tre mesi, da settembre a dicembre 2008.

Che il tempo passi il lettore lo apprende però solo grazie ad alcune coordinate temporali che Reverdy cosparge qua e là: «era la notte di Halloween», «mancava una settimana a Natale…». Ciononostante rimane un romanzo puntuale, che racconta soltanto di un tempo presente da cui non si può fuggire. La pensa così Candice, la cameriera dell’unico bar ancora aperto in città, giovane, bella e con una risata contagiosa, che però, quando si guarda allo specchio, si domanda se non abbia fatto male a rimanere in una città fantasma. È bloccato nel presente anche il tenente Brown, il quale, sommerso dai fascicoli di casi di persone scomparse, non riesce a indagarne il passato né a fare previsioni future. È preda del presente Charlie, un bambino di dieci anni che vede nella deserta Detroit un parco giochi da prendere d’assalto con una gang che più che paura provoca tristezza; è ferma nel presente sua nonna Georgia, che dal momento in cui Charlie scompare non fa che aspettare un tempo che fatica ad arrivare.

L’unico a muoversi è Eugène, un francese che giunge a Detroit, trasferito dalla sua azienda, per dirigere un’ équipe che dovrebbe finalizzare l’Integrale: un’automobile definita completa dal momento che la sua struttura si declina in dozzine di modelli diversi. Non è casuale che questa automobile, considerata il compimento del progetto di Taylor, venga progettata a Detroit, capitale dell’industria automobilistica statunitense. Ma Eugène sa bene di essere stato mandato lì per esssere punito per degli errori commessi in precedenza. Ed infatti è un’impresa impossibile: la crisi imperversa, l’azienda non riceve finanziamenti e non ci sono soldi per portare avanti l’Integrale.

All’inizio del libro Eugène parla ammirato del sistema di Taylor ed è anzi contento di un modello produttivo che non lo considera insostituibile; sostiene addirittura di sentirsi sollevato dal fatto che in questo sistema l’apice della perfezione è la perdita del senso del talento individuale e delle competenze specifiche, in favore di una semplificazione della vita umana. 

Tre mesi a Detroit e un amore nuovo spingeranno Eugène a cambiare idea: l’ultimo capitolo del libro è infatti una sua lettera di dimissioni ma anche un gesto di lotta contro un sistema economico che incita gli esseri umani a spingersi costantemente oltre i propri limiti, esortandoli a correre incontro ad una felicità che si trova in fondo alla strada, ma che poi, molto prima della fine di questa, li abbandona sul suo ciglio.  

Se c’è del vero nella frase «i bambini sono il nostro futuro», allora Detroit un futuro non sembra averlo. I ragazzi scompaiono senza lasciare traccia e nella desolazione generale di una città ormai vuota, nessuno se ne accorge. La stessa Georgia aspetta un mese prima di denunciare la scomparsa di suo nipote Charlie, un po’ per quella insolita magia di un tempo fermo che non prevede nient’altro che il presente, un po’ perché della polizia lei non si fida molto. Charlie intanto si trova esattamente al centro della città, in una scuola abbandonata in cui vivono tantissimi altri bambini: la Zona. Solo quando viene trovato il cadavere di un ragazzo di tredici anni chiamato Bill, il tenente Brown riesce a smuovere le acque fino a scoprire il segreto della Zona.

I telegiornali riporteranno che questi ragazzi sono stati rapiti da un certo Max Roberts, capo di una banda che usa i bambini per trasportare la droga da una parte all’altra della città, ma le cose non stanno proprio così. Questi giovanissimi ragazzi non sono stati rapiti, sono invece scappati da chi si è dimenticato di loro e si sono così riappropriati dei propri spazi, a partire dalla scuola abbandonata al centro della città, simbolo di una società che considera sacrificabile prima di tutto il loro futuro intellettuale. Nella Zona si sono sentiti meno soli, liberi perché finalmente insieme, e hanno trovato una forma di vita comune che Detroit non offriva ormai da troppo tempo. Sebbene Charlie abbia passato giorni di terrore dopo la morte di Bill, mentre cammina verso casa alla fine del libro, non si sente né sicuro né felice ma sconfitto. La sua banda non c’è più, cosa ne sarà di lui?

Era una città è un libro ricco di inversioni semantiche. Per esempio, quando Eugène guarda Candice lavorare dietro al bancone, l’idea secondo cui si è a casa solo fra coloro che si conoscono, lascia il posto ad una nuova, particolare concezione per cui ci si sente a casa nel momento in cui si riconosce chi non si conosce davvero. Allo stesso modo è interessante riflettere sull’utilizzo che Charlie fa del termine “deserto”, che invece di essere metafora di spazio vuoto, connota un luogo in cui c’è sempre qualcuno, basta aspettare: «Detroit la notte era come un deserto. Pensi sia vuoto, il deserto, finché avanzi non incontri anima viva ma poi ti fermi e, tempo dieci minuti, qualcuno spunta da non si sa dove e si avvicina a te, senza che tu l’abbia visto arrivare». In queste inversioni semantiche c’è il cuore di un libro che, pur annunciando dall’inizio l’impossibilità di una svolta, racconta di personaggi che trovano un modo – inaudito, stravagante, capovolto – di emergere dalla solitudine. Questo romanzo sembra un monito: la crisi è più dura quando la si affronta da soli, quando si dimentica di essere città. 

Non è casuale che il momento in cui Eugène capisce che non costruirà mai l’Integrale, coincide con quello in cui incontra Candice: allora capisce che è un errore pensare di salvare una città solo con gli investimenti. E se è vero che Detroit non si salverà solo con le persone, è anche vero che non si può salvare senza di esse. 

Ed ecco che, a conclusione della sua lettera di dimissioni, c’è un’ultima inversione: non correre per aggiustare, sistemare, rattoppare, ma rimanere.

«Quelli che dovevano andarsene se ne sono andati. Vi corrono dietro. Corrono dietro alle unità di vita che voi trasferite, sempre ben tenute. […] Gli altri rimangono. Non si sono arresi. Continuano a vivere, ed è quello che ho deciso di fare».

La Detroit del 2008 sembra sconfitta, gli abitanti vi annaspano piuttosto che viverci. Per alcuni versi non è nemmeno più una città, eppure il libro si chiude con una nota di ottimismo: Candice è incinta, Charlie è tornato a casa, Eugène ha deciso di trasferirsi definitivamente lì. Certamente bisogna fare i conti con gli errori che sono stati fatti, e a questo servono le macerie di cui è inondata la città, quelle di un sistema che è collassato mostrando la propria inadeguatezza. Le macerie di Detroit sono il mondo che è stato loro lasciato, ora si deve ricominciare. 

Era una città, Thomas B. Reverdy,
Edizioni Clichy, Firenze 2017, pp. 273, euro 17,00.

Immagine di copertina: https://capx.co/why-rich-countries-have-broken-cities/

Pubblicato da martacerreti

Nata a Roma nel 1995, si laurea in Filosofia alla Sapienza Università di Roma con una tesi in Filosofia e Letteratura. Nell'ultimo anno è stata borsista all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e ha viaggiato in Sud-Est Asiatico. Le piace leggere più che scrivere e disegnare più che fotografare.

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